Elogio del pensiero corto
Ma qui non si parla del tuìt, destinato a morire ogni giorno prima del tigì. Qui si rende lode all’aforisma, arte sublime e inarrivabile. Soprattutto in politica. Libro di Alfonso Berardinelli sull’“atomo di pensiero” che resiste nei secoli. “Se si comincia con Kraus non si finisce più”.
“Il parlare breve suole fare più desiderio, e il parlare lungo suole fare rincrescimento”
(Bartolomeo di San Concordio)
Dio non voglia, ma se non ci si dà presto una regolata come niente qui si finirà col confondere il tuìt e l’aforisma, la cazzata e la brevità, la vanità e l’intelligenza. L’idea vaga, ma che minacciosa s’avanza, che la brevità possa indifferentemente sommare il coglione al genio: lo sforzo di stare in poche battute (le centoquaranta come tutti sanno), che piuttosto che la rapidità del pensiero la stitichezza dello stesso esalta. L’aforisma è nobile, il tuìt condominiale (nel senso: perfetto per l’apposita riunione); il primo è arte, il secondo (al meglio) solo ruvido artigianato della chiacchiera. “Atomo di pensiero, cellula letteraria, microrganismo dal quale possono svilupparsi i più diversi e articolati sistemi di scrittura (lirica, saggio, teatro, racconto, sistema filosofico, trattato scientifico, manuale etico e pratico) l’aforisma non ha bisogno di dimostrare la sua ubiquità, versatilità e maneggevolezza”, scrive a preciso elogio Alfonso Berardinelli, in un libretto appena uscito (“Aforismi. Anacronismi”, edizioni Nottetempo), a narrazione della sua devozione all’aforisma e del suo cibarsi dello stesso, “più ci penso e più mi sembra di essere cresciuto in clima e regime aforistico”. E’ che nella brevità la felicità creativa soprattutto si vede – avendo la stupidità bisogno di espandersi per più vaste praterie (e sempre soccorre l’immagine, in un memorabile scritto di Leonardo Sciascia, del cappello di monsieur Charles Bovary: serviva mezza pagina a Flaubert per descriverlo, fu spiegato, essendo per l’appunto un berretto stupido). “Siamo brevi, il mondo è sovraffollato di parole”, scriveva Stanislaw J. Lec, strepitoso scrittore polacco di aforismi, la cui serale lettura Umberto Eco saggiamente consigliava a “qualsiasi persona civile e pensosa”. Perciò, mentre da un grande scrittore (o da un qualsiasi personaggio di genio, da Leonardo da Vinci a Gandhi, dalla Mafalda di Quino al tenente Colombo, da Martin Luther King, fosse solo per l’inossidabile: “I have a dream”, a Papa Francesco, fosse solo per l’inarrivabile: “Chi sono io per giudicare?”) è possibile trarre un aforisma; da un mediocre (di vasta produzione come di stentata battitura) c’è tutt’al più da spremere per le cronache giornalistiche.
(Nel 2003, addirittura, la Scuola Superiore di Studi Umanistici dell’Università di Bologna, diretta proprio da Eco, promosse un seminario di tre mesi su “Teoria e storia dell’aforisma” – gli atti pubblicati in apposito volume della Bruno Mondadori. “L’aforisma è arrivato fino a noi attraverso una serie notevole di passaggi culturali e linguistici – annotò Gino Ruozzi – culminati in alcune età dell’oro del genere: la grecia di Ippocrate, la Spagna di Gracián, la Francia di La Rochefoucauld e Pascal, la Germania di Lichtenberg, Goethe e Nietzsche, l’Inghilterra di Wilde, l’Austria di Kraus, la Polonia di Lec, e forse più modestamente, come notorietà non come qualità, l’Italia di Gucciardini e di Leopardi, di Longanesi e di Flaiano”. E Berardinelli oggi dettagliatamente elenca: “Ci sono aforismi della solitudine, monologici, rivolti a se stessi. E ci sono aforismi dialettici o dialogici, bellici, polemici, con i quali si fronteggia la società e ci si fa strada in una giungla o in una sterpaglia di frasi fatte, di false verità o vere falsità di cui per abitudine non ci si avvede. C’è l’aforisma assoluto, esplicito, voluto, consapevole, autoriflesso, praticato come origine e culmine del pensiero. E c’è l’aforisma di contesto, relazionale, occasionale, infiltrato e mescolato nel tessuto di altri generi, che appare come incipit o clausola o pietra angolare”).
Massimo è il periglio, per l’aforisma, in politica – una corda saponata che stringe alla gola, una ghigliottina che mozza le pur non memorabili teste. Non è certo la battuta (più spesso la battutaccia), l’aforisma; né la costruzione di spot elettorali. Né, ovviamente, il tuìt generoso che piove dall’alba renziana al tramonto, pur esso renziano. Magari, e meglio, allora si figura citando l’altrui genio, l’altrui aforisma. “Capotavola è dove mi siedo io” – come fece notare Massimo D’Alema, chiedendo soccorso al “Don Chisciotte”, quella volta che a una cena elettorale lo invitavano a prendere posto a capotavola. O ripetutamente volgendo lo sguardo a oriente e mettendo mano a “L’arte della guerra” di Sun Tzu, che ogni dalemiano di medio conio, nei giorni di gloria, si faceva obbligo di avere sul comodino. “Il più grande condottiero è colui che vince senza combattere”: come non associare, e così associammo, idealmente il generale cinese del V secolo avanti Cristo e il timoniere gallipolitano di Ikarus? O c’è chi, invece, si arrangia da solo, come mirabilmente seppe fare Ciriaco De Mita: “Tutte le ombre passano, perché la terra gira”. E chissà se fu aforisma, o solo felice battuta, quella di Arnaldo Forlani, sempre in sospetto di eccesso di pigrizia dorotea: “Lenin, mi pare, diceva che la felicità è nella lotta. Io non credo”. Non di troppi detti memorabili – così da scavalcare la cronaca, così da farsi aforisma classico – è disseminata la politica nostrana. Pochi hanno raggiunto, per dire, la felicità di un Konrad Adenauer, leader storico dei democristiani tedeschi: “Capisco perché i Dieci Comandamenti sono tanto chiari e privi di ambiguità: non furono redatti da un’assemblea” (sarà per l’effetto congiunto di Goethe e di Nietzsche, ma i politici tedeschi, nonostante la Merkel e l’ingombro terrificante di Hitler, hanno spesso avuto uscite capaci di mutarsi in aforisma, primo fra tutti quel prussiano tutto d’un pezzo di Otto von Bismarck, da “Non si mente mai così tanto prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia” a “Meno le persone sanno di come vengono fatte le salsicce e le leggi e meglio dormono la notte”).
Ciò che oggi è il tuìt – quasi a valore di Gazzetta Ufficiale elevato: cosa fa il Consiglio dei ministri, cosa la Camera ha approvato, cosa c’è in animo di proporre – appena ieri era il comunicato. Tra tutti i politici italiani, il più vicino – per prosa, per cultura sua personale, per gusto della citazione colta – a sfiorare spesso la vetta dell’aforisma è stato Mino Martinazzoli. Che appunto dal più grande, da Karl Kraus, almeno fratello maggiore di tutti gli scrittori di aforismi (tale è il giudizio di Berardinelli: “Se si comincia con Kraus non si finisce più. Nel Novecento è stato il più grande poeta dell’aforisma assoluto”), e tra le sue opere da quella più sterminata, “Gli ultimi giorni dell’umanità”, trasse ispirazione per il racconto di un apologo. Dunque, Vienna. Anticamera del primo ministro, poche ore dopo l’attentato di Sarajevo. Giornalisti che aspettano. Esce l’addetto stampa: stiamo prendendo decisioni, stiamo preparando un comunicato… “Quali decisioni?”. Risposta: “Dipenderà dal comunicato”. Commentò Martinazzoli: “Ormai la decisione dipende dal comunicato”. Allora – adesso, dal tuìt. Con la stessa vacuità, con lo stesso (assente) fondamento. Per paradosso, l’uomo politico che più fece uso di aforismi nei suoi interventi – alcuni presi in prestito dagli scrittori amati, ed era un continuo dribblare tra Kafka e le sue sirene silenziose e Tolstoj e il cielo visto dal principe Andrej sul campo di Austerlitz, tra Emily Dickinson, “non conosciamo mai la nostra altezza finché non siamo chiamati ad alzarci” e Kierkegaard quasi in versione felliniana, “la nave ormai è in mano al cuoco di bordo”, tra Simone Weil e Roth, a sfiorare col suo ragionare i versi di “Itaca” di Kavafis, il viaggio conta e non la meta, e Borges, e ovviamente e innanzi tutto Manzoni e Cioran – e che ne coniò certi memorabili, nel contesto politico dei suoi giorni da fragile capo democristiano, da “Cerco gente da mettere non intorno a un interesse, ma a un disinteresse” al fenomenale “Siamo uno strano partito che passa le giornate a contare le tessere e le serate a commentare le encicliche” al lapidario “Gli innocenti non sapevano che la cosa era impossibile e la fecero”, fu più di tutti gli altri accusato di essere oscuro, incomprensibile, contorto. “Complesso, non complicato”, replicava, con gusto aforistico. Fotografò il suo tentativo disperato e nobile e perdente con un verso fulminante, perfetto, di Mario Luzi: “Ed ora – sopravanzano le cose il loro nome”. Prese congedo, ragionando sulla sconfitta, con il cronista: “Vede, ci vogliono un’intera vita e molta fortuna per rifare una sola riga del ‘Don Chisciotte’”. I giornalisti stessi, poi, perfettamente identificò con un aforisma degno di figurare in ogni redazione (pittato su porcellana, come le citazioni trucido-latine che vendono a Roma per vicoli e piazze): “Ti fermano per strada e ti chiedono risposte a domande che tu non ti fai”. C’è qualcosa di più perfetto da dire?
Ma l’aforisma chiede il vuoto dentro, innanzi tutto, una sorta di purezza spirituale (pure in Wilde, certo, pure il Wilde mentre si scopava il suo Bosie), per avere qualcosa da dire; al tuìt l’essere satollo, la pienezza del proprio ego basta e sopravanza (non le cose, come diceva il poeta: noi stessi). Oscuro Martinazzoli non lo fu, ma apparve – gli chiedevano una lingua per lui impraticabile, e perciò dagli altri (politici, giornalisti) non praticata. “Occorrono, a quanto pare, cultura e informazione sui ritmi dei commessi viaggiatori o per la sapienza a dispense, o più felicemente per la felicità dei cretini veloci”. Il “cretino veloce”, più compiutamente il “vanitoso veloce”, ha infine prevalso – e sul Monte Sinai del cinguettio che si muta in latrato, sul montarozzo dei propri personali “like”, si è assiso in trono, così che al confronto pure il comunicato vacuo e vuoto del primo ministro di Kraus appare complesso ed elaborato come il quaresimale di un predicatore del Seicento. Il tuìt finisce prima del tigì della sera, l’aforisma resiste al corso dei secoli, persino a quello dei millenni: lo dice Pindaro, lo dice Eraclito – il primo ha una consistenza da bignè, il secondo è una lama col filo ancora perfettamente affilato. Il primo, ecco, per capirsi, può produrlo pure Maurizio Gasparri, per il secondo occorre Montaigne (a voler dare, così, approssimativamente l’idea dell’abisso) – tra le migliaia di pagine dei suoi “Saggi”, è la paglia difficile da trovare, mica gli aghi. Prendete il meraviglioso Lec, per esempio: uno che ha sperimentato sulla sua pelle prima le schifezze della Gestapo, poi quelle del socialismo reale – e i suoi aforismi valgono per noi quanto e più valevano per i resistenti a quelle due terrificanti sperimentazioni, come “La produzione di leggende è passata dal popolo in mani private”, oppure “Se abbattete i monumenti, risparmiate i piedistalli. Potranno sempre servire”, o anche “Le dita dei servi dovrebbero lasciare le impronte dei padroni”. Uno dei suoi più noti, ha conosciuto la gloria persino delle giovanili t-shirt: “Aveva la coscienza pulita. Mai usata”. Così da non conoscere mai quello che Musil (uno, peraltro, di oceanica complicazione, che all’aforisma pare prestarsi ben poco) chiamava “essiccatoio dello spirito”, e che Berardinelli nel suo libretto di sessantotto pagine opportunamente riporta: “Quando si diventa più vecchi e ci sia abitua a frequentare l’essiccatoio dello spirito, dove il mondo affumica il lardo dei suoi commerci e affari, si impara ad adattarsi alla realtà…”.
Senza realtà (terra terra: a volte, e spesso, semplicemente quella virtuale che ognuno si crea nella sua testa) il tuìt non esiste; l’aforisma ha bisogno di stupore, di avere una certa distanza dalle cose: per meglio prendere la mira, si capisce, per centrarle al cuore. Ai poeti, per esempio, ai veri poeti, che al contrario di noi le parole risparmiano e le usano per vere, riesce a volte benissimo – “Smisurata, nell’impero delle misure”, sapeva dire di sé Marina Cvetaeva, e a chi non verrebbe voglia di poterlo dire di sé, soltanto che se conti i caratteri e non la qualità la cosa è impossibile e incomprensibile. Per questo, in politica, o si è davvero Bismarck o Churchill o difficilmente la ciambella aforistica vedrà la luce col necessario buco. Peggio di tutti i moralisti, d’aria e parole gonfi, i vocianti da società civile in transumanza, quelli che l’indice puntano contro altri prima di farlo scorrere a spaziale velocità sulla tastiera dello smartphone. Andreotti, a cui nulla di tutto ciò poteva imputarsi (tra le poche cose che non gli furono imputate, peraltro), ogni tanto la sommità di un aforisma ha sfiorato – come non può apparire tale, per esempio, il suo “Il potere logora chi non ce l’ha”? – ma al fondo di tutto si trattava solo di una sorta di saggezza popolare, una forma di benemerita tracimazione papalina nel mondo, nient’altro.
[**Video_box_2**]“Aforismi. Anacronismi” di Berardinelli fa venire la voglia di tornare a sfogliare quelle pagine di smisurata sintesi. A calarsi dietro il siparo di intelligenze forse non facili ma mai quiete. A costruirsi, magari – come sfida quasi sempre destinata alla sconfitta – un proprio personale aforisma, che possa significare qualcosa anche per l’altro, non solo il rutto del cinguettio che ti fa correre a leggere, a rispondere a raffica, a dire la tua su cose di cui poco sai o niente ti riguardano (ah, la saggezza di un sommo come Ennio Flaiano: “I fatti miei non li racconto, quelli degli altri non li voglio sapere”, che pure gli altri al proprio ignoto e inconfessabile essere con bella ironia incatenò). Berardinelli assicura che uno, almeno uno, di suo l’ha confezionato – “Sappiamo davvero solo ciò che sappiamo a memoria”, pur dovendo, poco avanti, fronteggiare il peso imponderabile di Svetonio ed Eliot. E comunque, quando in gioventù il critico letterario provò a cercare una definizione per un suo alter ego, già a un forgiatore di aforismi aveva dovuto far ricorso: “Un coltello senza lama, a cui manchi il manico” (il tedesco Lichtenberg). C’è chi, nel corso dei secoli, li ha chiamati frantumi o fosforescenze, barche capovolte o scorciatoie, fuochi fatui o asterischi – ma là, proprio là dove il tuìt si deposita e muore, vivendo solo un giorno come le rose di De André, chi vuole può trovarli: ché resistono meglio di una piramide, di una grande muraglia. A volte apparentemente così fragili, che non si capisce neanche come abbiano visto la luce, e poi respirato, e poi vissuto. Per questo la politica – dove anche il bravo ministro o l’eccelso senatore col “cretino veloce” in marcia verso l’urna dovranno pur sempre fare i conti – è posto così poco adatto a loro.
Il Foglio sportivo - in corpore sano