Olanda senza Cristo
Cattolici quasi scomparsi nel cuore d’Europa. Disarmano anche i protestanti. Città aperte all’islam. Il sessanta per cento della popolazione si definisce agnostico, ma il cinquantatré è convinto che ci sia una vita dopo la morte.
Dicono che per capire l’Olanda di oggi, atea e laica, multiculturale e accogliente, bisogna tornare con la memoria agli anni Settanta, quando sui campi di calcio d’Europa imperversava la mitica Arancia meccanica di Rinus Michels, monumento nazionale di cui parlò bene perfino Johan Cruijff, che in morte del tecnico che rivoluzionò il calcio oranje mise da parte la sua proverbiale boria e riconobbe nel maestro la grandezza del leader. Era, quella, la prima Nazionale di calcio libertina della storia, che rifiutava quei codici etici o pseudo-etici che tanto di moda vanno oggi, che infranse il divieto quasi parasacrale dell’astinenza dai rapporti sessuali prima delle partite. Così, mentre gli altri si preparavano con rassegnazione a passare un mese sulle lavagne tattiche a studiare mosse e contromosse per portarsi a casa il trofeo, loro si divertivano. Talmente spavaldi che si potevano permettere di stravolgere ogni norma fin lì codificata; così forti da piazzare tra i pali della porta in un Mondiale un gentiluomo trentaquattrenne che neppure era professionista. Furono loro i primi a portarsi mogli e fidanzate e amanti in ritiro.
“Potevamo fare tutto quello che volevamo”, avrebbero detto anni dopo alcuni di loro, quando la macchina ritenuta perfetta si sarebbe rilevata essere solo una splendida utopia, visto che nulla vinsero mai. Interprete, l’Arancia meccanica, di un’Olanda che elaborava le libertà sessantottine, che faceva della trasgressione un must. Il fatto è che “al cristianesimo troppo segnato da un rigido moralismo è seguita una ribellione radicale, come radicale è il carattere degli olandesi. Non sono capaci di credere solo un po’ in qualcosa. Sono diventati l’opposto di ciò che erano”, spiegò in un’intervista ad Avvenire del 2009 il cardinale Adrianus Simonis, arcivescovo emerito di Utrecht. Forse, aggiungeva con tono mesto, qui la gente “ha scordato il fatto cristiano, quello che ne è l’essenza”.
E anche la chiesa locale, quella del cardinale Bernard Jan Alfrink, passato alla storia non solo per il “nuovo catechismo olandese” intriso di modernismo e aperture a tutto ciò che prima era stato condannato e vietato e represso, ma anche per aver tolto durante il Concilio la parola al segretario del Sant’Uffizio, il cardinale Alfredo Ottaviani, si lasciò contagiare dallo spirito del tempo. Se ne sarebbe accorto a metà degli anni Ottanta Giovanni Paolo II, che da trascinatore delle folle e delle masse, delle messe negli stadi e nelle immense spianate in ogni parte del globo, si trovò a sfilare nel centro di una Utrecht deserta. Solo ottomila curiosi – tra i quali i cattolici forse erano pure la minoranza – s’erano assiepati dietro le transenne per vedere il Papa di Roma. Tra i pochi religiosi presenti, qualche frate domenicano in abito proprio che teneva in mano una gigantografia di Leonardo Boff, il teologo della liberazione e del culto della madre terra, frate poi spretato teorico delle grandi primavere ecclesiali, sul quale s’era posato lo sguardo indagatore di Joseph Ratzinger, all’epoca prefetto della congregazione per la Dottrina della fede. Forse, gli stessi domenicani che all’indomani della promulgazione del motu proprio Summorum Pontificum nel 2007 distribuirono nelle chiese libretti per la celebrazione della messa in assenza del sacerdote: non c’è il prete? E allora siano i laici – uomini o donne non fa differenza – a pronunciare le parole della consacrazione che, a giudizio dei domenicani olandesi, “non sono prerogativa del consacrato”.
Oggi, forse, a Utrecht, non ci sarebbero più neanche quegli ottomila a salutare il Pontefice. I numeri sono di questi giorni: l’Olanda è atea. Per la prima volta nella storia, solo il diciassette per cento della popolazione si dichiara credente. Il venticinque è ateo, il sessanta agnostico, anche se il cinquantatré per cento degli olandesi è convinto che ci sia vita dopo la morte. Che sia per paura o speranza, è uguale. Un po’ come gli inglesi che, stando a un sondaggio, crederebbero di più negli Ufo che nell’esistenza di Dio. Benedetto XVI, quattro anni fa, aveva già chiaro davanti a sé il desolante quadro della situazione.
Ricevendo in Vaticano l’ambasciatore Joseph Weterings, il Pontefice oggi emerito disse che “la libertà di religione è minacciata non solo da limitazioni legali in alcune parti del mondo, ma anche da una mentalità anti religiosa in numerose società, anche in quelle in cui essa gode della tutela della legge. E’ quindi auspicabile che il suo governo sia vigile cosicché la libertà di religione e quella di culto continuino a essere tutelate e promosse sia nel paese sia all’estero”. Vedeva, Joseph Ratzinger, proprio nella libertà senza freni propugnata per decenni come dogma, la matrice della crisi: legalizzazione delle droghe, prostitute messe in vetrina, eutanasia e aborto, nozze tra persone dello stesso sesso. “Sebbene da tempo la sua nazione sia paladina della libertà degli individui di operare le proprie scelte, queste ultime – osservava Benedetto XVI – vanno scoraggiate se danneggiano chi le fa o altri, per il bene dei singoli e della società nella sua interezza. La dottrina sociale cattolica pone una grande enfasi sul bene comune nonché sul bene integrale degli individui e occorre sempre aver cura di discernere se i diritti percepiti sono veramente in accordo con quei principi naturali di cui ho parlato in precedenza”. Ma la storia aveva ormai preso il suo corso, ineluttabile.
Due anni più tardi, l’arcivescovo di quella Utrecht che accolse con freddezza nel 1985 Giovanni Paolo II e che pure alla chiesa romana e apostolica diede un Papa, Adriano VI il riformatore, odiato dai cardinali curiali – lui che disdegnava i concerti e progettava di fare scempi della volta michelangiolesca in Sistina – rese partecipe Papa Francesco del suo grido di dolore: la media di chi lascia la chiesa cattolica è di diciottomila fedeli l’anno, record negativo nel 2010 (ventitremila addii), le parrocchie nella diocesi da lui guidata sono passate da 326 a 49. Non ci sono più preti, e in una parrocchia solo una chiesa è adibita alla celebrazione dell’eucaristia. “Prima del 2020, diceva il cardinale Willem Jacobus Eijk – distante per formazione ed esperienza dalla scuola progressista degli Alfrink e, nel vicino Belgio, dei Suenens e Danneels – sarà chiuso un terzo delle chiese ora aperte al culto”.
Il motivo, aggiungeva il porporato, è che “non ci sono mezzi finanziari né (soprattutto) cattolici”. Problema comune a tutte le confessioni cristiane, dicono i numeri. Rilevava sul sito Rossoporpora.org il vaticanista Giuseppe Rusconi che i protestanti d’Olanda erano il 35,9 per cento della popolazione nel 1971, mentre nel 2010 erano scesi al 15,6 (i cattolici dal 40,4 al 24,5). “Quando nel 2004 le tre principali denominazioni protestanti si unirono (calvinisti ortodossi, calvinisti moderati, luterani), il gregge comprendeva oltre due milioni 400 mila pecorelle. Oggi ne restano meno di un milione e 800 mila”, aggiungeva Rusconi. Il fatto è che, chiariva il cardinale Ejik, “la chiesa protestante nei Paesi Bassi ha iniziato a conoscere un processo di secolarizzazione già nella prima parte del secolo scorso, mentre per quella cattolica questo è avvenuto a partire dagli anni Sessanta”. E il problema non è il Concilio, visto che “già nell’immediato Dopoguerra si vedevano problemi anche tra i cattolici, si stava perdendo il rapporto con la dottrina e la fede non toccava più la vita quotidiana”. Certo, le teorie di Edward Schillebeeckx, il teologo definito “militante” in un articolo apparso sull’Osservatore Romano del 2009, non hanno aiutato a tenere accesa la già flebile fiammella. Nato ad Anversa, studi umanistici dai gesuiti, formazione teologica a Lovanio, Schillebeeckx sarebbe stato il “testimone privilegiato del travaglio con cui la chiesa cattolica voleva recuperare la distanza accumulata rispetto al mondo moderno”, scriveva l’attuale vescovo di Novara, mons. Franco Giulio Brambilla, già preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Secondo il presule, proprio l’approdo in Olanda, a Nimega, a cavallo del Vaticano II, segnerà la svolta del domenicano Schillebeeckx, che da “mediatore critico dinanzi ai nuovi fermenti della chiesa olandese” passò a mettere in discussione la resurrezione di Cristo come fatto oggettivo di fede. Uno dei motivi per cui la congregazione per la Dottrina della fede lo mise all’indice, anche perché – scriveva mons. Brambilla – “la sottovalutazione della resurrezione di Gesù, come esperienza di conversione, poneva dubbi sulla sufficienza della sua ricostruzione storico-teologica”.
La prospettiva per l’Olanda, dati i numeri di oggi, è quella di vedere entro cinque anni l’islam diventare la seconda religione nazionale, mentre i protestanti si ridurranno al quattro o cinque per cento della popolazione. Un mero diritto di tribuna. Se n’era ben accorto il pastore della chiesa di Doetinchem, Santa Caterina, distrutta dalle bombe durante la Seconda guerra mondiale, che vedendo i banchi perennemente vuoti decise di ospitare tra le navate la festa della “società del carnevale”. Un bel palo piantato davanti all’altare con ballerine ad animare la cerimonia.
D’altronde, è difficile conquistare i cuori di nuovi fedeli se anche i pastori, a volte, fanno sapere di non credere nell’esistenza divina: “L’inesistenza di Dio, per me, non è un ostacolo, ma una condizione preliminare per credere in Dio. Io sono un credente ateo. Dio non è un essere bensì una parola che designa quello che può esistere tra le persone”, spiegò il pastore Klaas Hendrikse, già noto per il manifesto ateo con cui invitava la sua chiesa a imbastire un dibattito sinodale che avesse come oggetto l’esistenza del Padre eterno. E non si tratta d’un caso isolato, visto che secondo stime più o meno approssimative, si calcola che un pastore protestante su sei è ateo. Fece rumore, poco più d’una decina d’anni fa, il caso di Thorkild Grosboll, pastore della chiesa protestante di stato di Danimarca. Dal pulpito, si disse stanco di sentire parlare di “miracoli e vita eterna”, osservando che “Dio appartiene al passato e si può considerare fuori moda”. Perfino la signora vescovo del luogo cercò, invano, di rimuoverlo dalla carica. Dopotutto, anche i “credenti atei” che seguivano il sermone condividevano il pensiero di Grosboll. Fu lui, nel 2008, a mollare tutto ritirandosi a vita privata.
Non rimane, quindi, che fare come nella Francia preda della laïcité, dove le chiese vengono chiuse, rase al suolo o messe all’asta, andando poi al miglior offerente – pratica, questa, assai comune anche nella Vienna spiritualmente governata dall’eminentissimo cardinale Christoph Schönborn, domenicano e costretto per mancanza di pubblico orante a cedere gli edifici di culto agli ortodossi. Così, visitando Utrecht, tappa d’obbligo è San Jacobus, antica chiesa cittadina che oggi è un appartamento di lusso in perfetto stile Bauhaus. A curare il “passaggio” dell’edificio è stato il gruppo Zecc, architetti che da mattina a sera fanno questo: tracciare la mappa delle chiese divenute superflue, prenderle in consegna dalle diocesi, riconvertirle in qualcosa d’utile. La fantasia degli interior designer si spreca. Ad Arnhem, la grande boutique di moda Humanoid non è nient’altro che una vecchia chiesa del 1889, con abiti femminili taglia trentadue e tailleur con paillette appesi dove un tempo trovavano posto i quadri della via crucis, scatole di scarpe tacco dodici al posto del fonte battesimale e del cero pasquale. “Ogni chiesa scatena un dibattito”, diceva poche settimane fa al Wall Street Journal Albert Reinstra, che di edifici di culto si occupa per i Beni culturali olandesi. “Quando sono vuote, cosa facciamo?”.
Padre Clement, priore degli agostiniani nei Paesi Bassi, spiegava che nel 1958 l’ordine poteva contare su 380 frati. Oggi sono solo 39. Il frate più giovane del monastero ha settant’anni. “E’ triste, per me”, dice padre Clement, che di certo non si può rincuorare se guarda la Arnhem Skate Hall. Era una chiesa, un tempo. L’altare e l’organo sono stati staccati e venduti a qualche rigattiere. In un armadio pieno di polvere è ancora conservata una partitura musicale. Sul muro, uno skateboard attaccato alla bell’e meglio. In quella che era la navata, una ventina di ragazzi corre, urla e cade. Con la musica rap a fare da sottofondo. C’è anche una statua di un santo dal nome ignoto: qualcuno ci ha buttato sopra uno pneumatico, nota l’attento Wall Street Journal. Ai visitatori, nonostante tutto, il restyling piace: “Si crea un sacco d’atmosfera, pare un po’ il Medioevo”, racconta un giovanotto. I vecchi – pochi – protestano, qualcuno dice che si sta disonorando la fede, ma dal comune spiegano che i soldi per mantenere aperto l’edificio di culto che decine d’anni fa ospitava fino a mille fedeli ogni domenica non ci sono più. Il parroco, dopotutto, dice che quei ragazzi non fanno nulla di male. E pazienza se le loro gare di skate si disputano sotto l’occhio misericordioso di un Cristo su mosaico. “Mica è un casinò o una casa del sesso”, chiarisce in modo convinto il sacerdote. E’ solo una sala per chi vuole divertirsi con lo skateboard. Prezzo del biglietto, quattro euro.
[**Video_box_2**]In effetti, avrà pensato il prete cattolico, poteva andare pure peggio. Basti pensare che la Oude Kerk di Amsterdam, la più antica chiesa della città costruita agli albori del Quattordicesimo secolo, è immersa nel Red Light District, il distretto a luci rosse. In pratica, si esce dal portale dell’edificio, e con la fronte ancora bagnata dall’acqua santa ci si imbatte nelle signorine esposte in vetrina che bussano ai vetri per attirare l’attenzione degli attempati signori reduci dalla messa. Quando va bene, le chiese si trasformano in musei, come la Nieuwe Kerk, dove venivano incoronati i re d’Orange. “E’ strano – scriveva la giornalista di Avvenire Marina Corradi in un reportage dalla capitale olandese – questo susseguirsi di chiese che non sono più chiese ma condominii, locali, moschee”. Il cardinale Simonis, nell’anno giubilare 2000, diceva quasi profeticamente alla rivista 30Giorni che, nell’ultimo quarto del Ventesimo secolo, in Olanda vi è stato “più libertinaggio nella fede, e di conseguenza nella morale”. Un libertinaggio che, però, “non conduce a nulla, perché non ha successori. E si vede. Quei movimenti e gruppi che lo hanno praticato, attualmente sono al lumicino, mentre coloro che sono rimasti nella tradizione attirano ancora oggi. In Olanda noi oggi diciamo che ci occorre una purificazione: della mente, della storia, di ciò che è troppo unilateralmente dogmatico o moralistico”.
Il Foglio sportivo - in corpore sano