Santa popolare
L’avversione al big bang bancario di Renzi è cattolica in senso lato. Bazoli, Ubi e la Centesimus
Roma. All’indomani dell’annuncio della riforma delle banche popolari, le dieci più capitalizzate, il governo di Matteo Renzi s’è attirato gli strali degli organi di stampa finanziati dalla chiesa cattolica. “Non è un bel giorno per la democrazia economica del paese”, ha scritto Avvenire, quotidiano della Conferenza episcopale italiana, mercoledì scorso. Radio Vaticana ha poi dato risonanza a una puntuta intervista a Gianluigi Longhi, commercialista nonché revisore dei conti in varie società pubbliche e private, interpellato in qualità di consigliere della Fondazione Centesimus Annus Pro Pontefice, nata nel 1993 negli anni subito successivi all’omonima enciclica di Giovanni Paolo II che riprendeva la Rerum Novarum di Leone XIII sullo spirito cattolico in economia. Longhi paventa il rischio di una colonizzazione estera delle banche locali e adombra sospetti circa i rialzi anomali e consistenti dei titoli delle popolari in Borsa alla vigilia del Consiglio dei ministri che ha varato la norma.
La Consob ha effettivamente avviato degli accertamenti convergenti su Londra. Il Sole 24 Ore ha messo insieme le critiche identificando un’opposizione “compatta” del mondo cattolico e quindi la contrarietà del Vaticano alla riforma. Ma è davvero sintomo di un’unità d’intenti? La questione popolari è in grado di unire le istanze di tale “mondo” come raramente accaduto di recente? Partire dalla Fondazione Centesimus Annus può spiegare quanto gli interessi siano in realtà più sfumati. L’associazione vede tra i promotori Giovanni Bazoli, banchiere dominus di Intesa Sanpaolo e della bresciano-bergamasca Ubi Banca – coinvolta nella riforma –, con la benedizione del cardinale Carlo Maria Martini, scomparso nel 2012, allo scopo di riunire un gruppo di persone con una certa identità cattolica e una posizione professionale rispettabile per generare aiuto e raccolta fondi al Vaticano; quella che definiremmo una lobby di finanziatori/amici. Il segretario generale della Fondazione è Massimo Gattamelata, vicino a Bazoli. Tra i promotori illustri anche gli acciaieri Falck. Nel comitato scientifico siede l’economista dell’Università Cattolica di Milano Alberto Quadrio Curzio incaricato insieme a Angelo Tantazzi (già presidente di Borsa Italiana, prodiano, oggi consigliere della pop bolognese Bper) e Piergaetano Marchetti (notaio di fama, già presidente Rcs) di elaborare una proposta di autoriforma delle popolari “ancor più rispondente alle mutate esigenze del mercato”, una delle tante in gestazione e fuori tempo massimo.
[**Video_box_2**]Non è un segreto la vicinanza alla Centesimus di Giorgio Squinzi, presidente di Confindustria, patron della chimica Mapei, che ha ben accolto la riforma augurandosi però che “non sottragga credito alle imprese perché – dice – le popolari rappresentano un fattore straordinario di sostegno all’economia”. Frequenta i convegni della Fondazione anche Giovanni Zonin, imprenditore vinicolo e presidente della Popolare di Vicenza: prudente critico, prega Renzi di riflettere. I fronti della resistenza si vedono da ogni parte interessata, sindacati, banchieri di rango, politici di famiglia ciellina (Maurizio Lupi di Ncd) e non solo (Flavio Tosi, Matteo Salvini della Lega). La realtà è che nell’Italia dei mille campanili il governo ha rotto un equilibrio, ha smontato uno dei fortini inespugnabili del potere economico più autoreferenziale col dirompente strumento del decreto legge. Dal 1987 si tenta una riforma che, ormai ineluttabile, pure senza Renzi, sarebbe comunque arrivata da Francoforte su indicazione del presidente della Banca centrale europea Mario Draghi che vigila sulla banche dell’Eurozona. Il governo sembra voler liberare il sistema bancario dai satrapi abbarbicati in posti apicali da anni e quindi agevolare una – tuttora non chiara – strategia di aggregazioni tra banche grandi e medie. Un consolidamento è invocato da tempo dalle organizzazioni economiche globali come il Fondo monetario internazionale. Se il decreto dovesse passare così com’è in Parlamento, le dieci banche interessate sarebbero costrette a puntare sulla redditività – dimezzata rispetto alla media europea dei competitor della stessa razza – e rinunciare a svolgere funzioni “di sistema” ovvero gestire i grandi prestiti sulla base del merito di credito e non di criteri politici. Questo spaventa parecchi, cattolici, supposti tali, oppure laici.
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