Un debito non insostenibile
La palla al piede di Atene ha già rivoluzionato la politica greca. Il paese di oggi non è lo stesso del 2010 (non solo in peggio). Le visioni meno catastrofiche di quelle agitate da Tsipras e la trattativa possibile.
Roma. Ieri mattina Alexis Tsipras, leader del partito di sinistra radicale Syriza, ha prestato giuramento come nuovo primo ministro della Grecia nelle mani del presidente della Repubblica ellenica, Karolos Papoulias. Senza cravatta, ovvio. Dopo il voto di domenica, Syriza è arrivata a un passo dalla maggioranza assoluta in Parlamento (149 seggi su 300); ieri ha già fatto sapere che il tentativo prioritario è quello di ufficializzare un governo in alleanza con i Greci Indipendenti, formazione minore della destra (13 deputati) con un solido pedigree anti austerity. Nell’eccitazione sentimental-mediatica per la vittoria dell’alfiere anti Troika – del “mitiko” come l’ha chiamato il manifesto, di colui che incarna “la sberla democratica” a Bruxelles come ha detto Marine Le Pen – appare difficile sottolineare l’ovvio: la Grecia del 2015 non è la Grecia del 2010, non solo per i 25 punti di pil persi, e ciò potrà contare parecchio nelle future trattative con Bruxelles.
Perfino sul debito pubblico monstre per eccellenza, quello greco che pesa quanto il 174 per cento del pil e che è al centro delle attenzioni per l’annunciata volontà di Tsipras di vederlo in buona parte abbonato, la vulgata della presunta “insostenibilità” non è l’unica in circolazione. Ieri il Financial Times, quotidiano della City, sottolineava come “i termini del fardello debitorio greco sono diventati progressivamente più gestibili. La maturità sui prestiti bilaterali concessi nel maggio 2010 dai membri dell’Eurozona è stata estesa fino al 2041 e il tasso d’interesse ridotto di 3-400 punti rispetto al tasso Euribor, a soli 50 punti”. Anche i termini dei prestiti concessi dai veicoli europei sono stati rivisti. Risultato: “La maturità media del debito greco è oggi di 16,5 anni, il doppio di quella di Germania e Italia”. Non solo: anche il servizio sul debito, quindi la somma di interessi da pagare sui prestiti ottenuti, nel 2014 ammontava al 4,3 per cento del pil, meno che in Italia o in Portogallo. Il quotidiano finanziario americano Wall Street Journal, la settimana scorsa, ribadiva che pure tenendo in considerazione la deflazione che affligge il paese, il conto reale degli interessi sul debito nel 2013 era inferiore a quello degli altri paesi europei. Drammatizzare l’insostenibilità del debito, secondo questa linea argomentativa, farebbe parte insomma delle tattiche di Tsipras per strappare concessioni al tavolo con Bruxelles e con i creditori. Perché nel frattempo, con la Grecia tagliata fuori dai mercati dal maggio 2010, la quota maggiore di titoli di stato ellenici è passata nelle mani di creditori ufficiali: stati europei, veicoli finanziari dell’Ue e Banca centrale europea. E’ plausibile dunque che, alla tesi dell’insostenibilità, alcuni creditori opporranno tesi di tutt’altro tipo.
D’altronde all’origine degli sconvolgimenti che hanno portato al governo Syriza, dopo 41 anni di alternanza al potere tra conservatori di Nuova democrazia e socialisti del Pasok, c’è sempre lui: il debito. Quando tra 2009 e 2010 lo spread tra i titoli greci e gli omologhi Bund tedeschi lievitò da 130 a oltre 600 punti, si comprese per esempio che la politica fiscale disinvolta degli anni precedenti era diventata off limits. Allora il premier socialista George Papandreou annunciò che nel 2009 il rapporto deficit/pil aveva superato il 15 per cento, oltre tutte le attese. Fatidicamente quello era anche l’anno in cui gli impiegati del settore pubblico avevano raggiunto una cifra record, pari a oltre il 20 per cento della forza lavoro. La Troika ha imposto riforme e austerity in dosi massicce, certo senza fissare priorità o fornire incentivi che ne garantissero la sostenibilità politica, ma la bolla di un modello economico questo sì insostenibile era già scoppiata prima dell’arrivo dei bistrattati uomini in nero. Lo sapeva nel 2009 Papandreou, lo sa oggi Tsipras.
[**Video_box_2**]Negli ultimi cinque anni, il sistema partitico greco è letteralmente collassato. Sgonfiandosi di pari passo con i meccanismi burocratico-clientelari che avevano puntellato la cosiddetta frappè-economy, cioè un’economia che genera prodotti e servizi a basso valore aggiunto, un po’ come la bevanda-simbolo del paese, a base di caffè istantaneo semplicemente raffreddato e shakerato. Prima dell’avvento di Syriza venne infatti l’afflosciarsi del Pasok, fondato dal padre di Papandreou mentre la dittatura dei colonnelli si eclissava, dominatore per tutti gli anni 80, ridotto domenica a gareggiare per superare lo sbarramento del 3 per cento.
Poi in Grecia arrivò un altro cambiamento non da poco: l’esperimento tecnocratico. Curiosità della sorte, nel novembre 2011 l’economista Mario Monti e l’ex banchiere centrale Lucas Papademos dovettero annullare un seminario comune a Francoforte. Il primo perché venne chiamato al Quirinale per essere nominato senatore a vita e subito dopo presidente del Consiglio; il secondo perché veniva convocato ad Atene per guidare un governo comune tra socialisti e conservatori, praticamente un unicum nel paese. Nel frattempo in Grecia la disoccupazione aumentava, ma contemporaneamente venivano prese misure inusitate per ridurre il perimetro dell’intervento statale in economia, addirittura veniva azzerato il deficit dei conti pubblici. I greci protestarono e non poco, ma insistettero per rimanere nell’euro. Spingendo anche Syriza a cambiare, moderando certe spinte centrifughe che aveva sfoggiato alle elezioni del 2012. Oggi il partito è cambiato, così come l’economia del paese. Anche questo conterà.
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