Mai più due Inter
Nomi, ruoli, curricula e numeri dell’èra Thohir e della sua (per ora) frustrante scommessa. Moratti ha vinto quel che nessuno potrà vincere in un solo anno. Ma il mondo è cambiato.
Dici l’Inter. Sì, ma quale? Thohir e Moratti insieme a San Siro sono una fotografia o poco più. Sorridono diversamente, s’arrabbiano diversamente, lasciano lo stadio diversamente. Allora ci sono due Inter. C’erano. Quella dei numeri che non tornano mai, quella dei ricordi che tornano sempre. Le dimissioni da presidente onorario dell’ex padrone diventato azionista di minoranza hanno chiuso una storia e pure il dualismo vero. Le due Inter hanno convissuto un anno come nelle storie delle famiglie allargate in cui c’è di tutto: soldi, amicizie, inimicizie, pettegolezzi, accuse, critiche, veleni a mezzo stampa e per interposta persona. Uomini e caporali, da una parte e dall’altra. Mazzarri scelto da Moratti, poi diventato uomo di Thohir e licenziato prima dal siluro dell’ex patron che dal fallimento totale sul campo. Anche l’arrivo di Mancini per qualcuno è stato da dualismo incomprensibile che però s’è incastrato perfettamente: l’allenatore, secondo voci insistenti, sarebbe stato scelto da Moratti e avrebbe accettato solo per questo. Non è così. Ma la voce è il simbolo di ciò che è accaduto per molto tempo. Due visioni, due mondi, due aziende, due Inter appunto. Un romanzo che ha avuto come protagonista inconsapevole o quasi la squadra più complicata del pallone italiano. Incomprensioni di ogni genere e grado cominciate subito dopo gli accordi per la vendita della maggioranza delle azioni. Ciascuno rinfacciava all’altro diverse cose: Thohir, che ha scandagliato per quattro mesi ogni virgola dei conti del club prima di acquisirne il pacchetto di maggioranza sapeva che al 30 giugno 2013 l’Inter aveva debiti totali per 432 milioni e crediti per 145 milioni. Il Sole 24 Ore raccontò che i debiti verso le banche erano pari a 91 milioni, quelli verso il Credito sportivo a 15,6 milioni, i debiti per cessioni pro soluto ammontavano a 50 milioni, i debiti verso altri club nazionali a 93 milioni (compensati da crediti per 72 milioni) e quelli verso club stranieri a 23 milioni. Infine, i debiti verso i fornitori pesavano per 73 milioni. Rilevando la maggioranza dell’Inter, Thohir s’impegnò a sostituire le garanzie di Moratti e a chiusura i vecchi debiti, in più a ricapitalizzare il club per 75 milioni. Di fatto è stata l’unica somma spesa dall’imprenditore indonesiano, perché i debiti se li è accollati l’Inter medesima e non in prima persona il nuovo proprietario.
Sapeva tutto sui conti. La due diligence sui bilanci è durata mesi. Rinfacciare la situazione finanziaria è stato quasi un fallo volontario, qualcosa che rompesse in maniera chiara. Perché ciò che non s’aspettavano Thohir e il suo gruppo è che i 18 anni di gestione morattiana avessero lasciato un’eredità che non è soltanto economica. Uomini e cose che hanno fatto l’Inter per un ventennio sono stati tenuti insieme non da una divisione dei ruoli, di competenze, di responsabilità, quanto da rapporti umani, da simpatie, da innamoramenti improvvisi. Era un modo di fare calcio diverso, per molti più giusto, sicuramente più comprensibile dai tifosi, ma non più replicabile. Né da Moratti, né da nessun altro. Contratti, stipendi, ruoli chiave, mansioni: l’Inter che l’imprenditore indonesiano s’è trovato a suo dire non era una società moderna, ma una stratificazione di complicazioni che le hanno impedito di essere efficiente. C’è un aneddoto che circola nell’ambiente thohiriano e riguarda il primo giorno che mise piede nella sede del club. Entrò e disse: “Ma tutta questa gente qui che ci fa?”. E calcolò che in quel momento l’Inter era il club italiano con la maggior quantità di incarichi e di ruoli. C’era una qualifica per tutto e in molte di quelle posizioni c’erano uomini o donne della famiglia Moratti o loro fedelissimi. “Un organigramma infinito per una storia infinita”, dicono ambienti del club ora ironizzando sulla strofa dell’inno “Pazza Inter amala”.
Vero? Non vero? All’epoca nessuno gli diede peso. Sembrava la battuta di un uomo venuto da Marte e basta. Eppure col tempo s’è capito che secondo Thohir questa gestione aveva una quantificazione economica indiretta: moltiplicazione degli stipendi e inefficienza. Soprattutto: un club bloccato dove alla fine a decidere era di fatto sempre e solo il presidente. Il che nasconde la vera sceneggiatura della soap opera che sta andando in onda in questi giorni. La questione è molto più umana che economica, molto più caratteriale che finanziaria. Due visioni, due universi paralleli. Perché Moratti è Moratti. Dal primo giorno ha gestito l’Inter con l’idea di ottenere risultati sportivi. Ha speso per vincere. Ha vinto. Perché conosce il pallone e sa che è l’unica cosa che conta per un tifoso: godere di un successo. Manager? Meglio i giocatori. Azienda? No, squadra di calcio. L’arrivo di Mourinho, la meravigliosa stagione del 2010 con la vittoria di campionato, Coppa Italia e Champions League gli ha dato ragione. Ma riguardandola oggi, con occhi diversi, avendo di fronte l’evoluzione del calcio, del suo business e delle sue regole sembra sempre di più una parentesi unica. Dicono i fan morattiani: l’Inter prima di quella data e prima di Calciopoli non vinceva, ma riempiva San Siro. Il che farebbe dedurre che non è necessariamente vero che gestire un club da tifoso spendendo non porti anche ricavi. I soldi in cassa entravano allora più di oggi, questo è sicuro. Certo, ovviamente ne uscivano molti di più. E però questo è Moratti, amato come pochi presidenti nella storia dell’Inter e nella storia del pallone in genere. Un uomo simbolico che viveva in simbiosi con la sua società e che ancora oggi è considerato intoccabile dalla gente. Fino all’arrivo di Mourinho e per molti versi anche dopo era “l’Inter di Moratti”. Una sovrapposizione unica.
Ecco, un anno fa Moratti era convinto di aver trovato un giovane e ricco signore straniero pronto a investire capitali nel pallone italiano. Uno che sarebbe intervenuto e che avrebbe sì portato denari e qualche manager, ma che in fondo avrebbe lasciato il mondo così com’era. Moratti aveva pensato di aver trovato il partner giusto: disposto a pagare pur di avere attraverso il pallone italiano una visibilità che gli altri investimenti nello sport (vedi il calcio americano) non avevano dato.
Funzionava l’idea, perché due mondi distanti e separati avevano un punto d’incontro: ciascuno otteneva qualcosa, ciascuno guadagnava qualcosa. Thohir con un investimento personale minimo rispetto al potenziale del marchio Inter entrava in un mondo nuovo ed enorme. Moratti, lasciando i debiti a un signore straniero e di poco appeal e guadagnando poco dalla cessione della maggioranza, restava però il simbolo dell’Inter. Però a maggio scorso Thohir disse per la prima volta una frase subdola sui conti dell’Inter: “Dobbiamo fare un’opera di risanamento”. Poi spiegò: “No, non volevo criticare la gestione precedente, sono stato frainteso”.
I soldi c’entrano fino a un certo punto, sono una scusa anche oggi. Più efficace dire che Moratti ha ridotto l’Inter a pezzi. Popolare in un momento di austerità e senza i denari per poter investire. Ma la parola vera è sistema: i due mondi che funzionavano idealmente si sono allontanati presto. Non è tanto la situazione pre - acquisizione che spaventa Thohir e il suo nuovo gruppo dirigente. Il problema è l’Inter oggi, che però è figlia dell’Inter di ieri. Per capire meglio basta guardare l’ultima Football Money League di Deloitte, uno degli studi annuali con cui si valuta lo stato di salute dei principali club di calcio europei. Ecco: l’Inter perde fatturato per il quinto anno consecutivo, nel 2010 era il nono club europeo per giro d’affari con 225 milioni di fatturato, oggi è diciassettesimo con 164 milioni. Ma il dato più preoccupante, dicono nei corridoi della sede della società, è un altro: l’Inter è la squadra europea con la peggiore capacità di fare ricavi dallo stadio. Solo 18,8 milioni, ovvero l’11 per cento del fatturato. Il Milan in percentuale sta un pelo sotto, al 10 per cento, ma fattura complessivamente molto di più (249 milioni), quindi dallo stadio ricava quasi 25 milioni.
[**Video_box_2**]Nel calcio contemporaneo questo è un problema enorme. Specie se, come nel caso dell’Inter, il risultato non dipende dallo scarso numero degli spettatori. Nella stagione 2013-2014 l’Inter ha avuto una media di 45 mila spettatori a San Siro. Più di Milan, Juventus, Paris Saint-Germain, Tottenham, Liverpool, Atletico Madrid. Eppure tutte queste squadre hanno matchday revenue più alte dell’Inter.
Le malelingue dicono che a contribuire a un risultato così deludente ci fosse il famoso caso delle tessere vip omaggio. Moratti le aveva incentivate: San Siro era il regno dei tifosi eccellenti, che hanno contribuito anche alla mitologia del tifoso interista. Sempre presente, anche quando si sentiva Paperino. Ce ne erano in giro 4.000, di quelle tessere. Thohir le ha ritirate una per una. Tutte. I due mondi e le due Inter si vedono anche in questo. Viaggiano sul piccolo cabotaggio, come sui grandi numeri. Perché non è colpa delle 4.000 tessere omaggio per tifosi vip se i ricavi dello stadio sono così bassi, ma se vuoi cambiare modo di fare calcio devi cominciare anche da piccoli dettagli.
C’è tanto che ruota attorno a come migliorare le performance di San Siro nell’idea dell’Inter di oggi. Il campo, ovviamente. I punti, quindi. Il gioco, anche. E poi il resto. Soprattutto del resto e cioè di come migliorare quell’11 per cento si occupa Michael Bolingbroke. L’avete visto. E’ quel signore alto, con il pizzetto, molto anglosassone nello standing e nella durezza: Thohir l’ha scelto come amministratore delegato dell’Inter e anche come bodyguard mediatico. E’ stato lui a uscire per primo allo scoperto sulla pessima gestione finanziaria dell’Inter di Moratti. I modi non sono stati apprezzati dall’ex presidente, ma Bolingbroke non se ne è preoccupato molto. A 48 anni viene dal Manchester United dove è stato il responsabile dei ricavi da stadio, dell’hospitality, in occasione degli eventi-partita e non solo, del management e dei servizi corporate inclusi quelli finanziari, delle risorse umane, dell’ufficio legale e dello sviluppo tecnologico del club. Bolinbroke è l’organizzazione. E’ quello che mancava. E’ una targhetta corrispondente a un incarico vero su ogni ufficio della sede. Cioè: quello è il tuo lavoro, amico, fallo e fallo bene.
Bolingbroke è anche il simbolo dell’unica Inter che c’è oggi. Nuova, perché quella morattiana è una suggestione. Moratti è e resta l’uomo che ha riportato l’Inter a vincere, ne ha aumentato il valore del brand. Ora è un altro film, però. Thohir ha aspettato, ha annusato l’aria, ha forse anche cincischiato, poi ha deciso. I ruoli sono stati definiti, l’organigramma è stato stravolto. Provate a leggerlo:
Michael Williamson, Cfo, ovvero responsabile dell’Area amministrazione, finanze e controllo. E’ esperto di finanza sportiva, è il numero uno del DC United, la squadra di Washington di cui è proprietario Thohir: in America ha gestito ogni iniziativa del club, inclusa la supervisione delle attività legate alla costruzione del nuovo stadio.
Poi c’è Claire Lewis, la direttrice marketing che arriva all’Inter da Apple dopo aver già lavorato per Mtv ed Emi Music. Poi c’è Dan Chard, direttore delle Global partnership: ha lavorato per Barclaycard, Coca-Cola, Red Bull, Heineken, Sony PlayStation, LG Electronics, Adidas e Bank of America. Ha lavorato in Gran Bretagna, Stati Uniti, Brasile, Francia, Germania, Irlanda, Grecia e Turchia. Si occupa delle sponsorizzazioni del club su scala mondiale. Poi c’è James White, direttore delle strategie commerciali. Viene dal Manchester United, come David Garth che sta per arrivare per occuparsi della gestione dello stadio.
Nomi, ruoli, curricula. Sì, ma parliamo di calcio. Serve tutto questo? Serve. Oggi i rapporti tra Moratti e Thohir sono migliorati molto rispetto alle tensioni di diversi mesi fa. Non si capiranno mai sul modo di fare calcio. Ma Moratti ha venduto, punto. Mancini non risponde a lui, se non per la dose di affetto che li lega da molto tempo. La doppia Inter è finita di fatto con la lite post assemblea dei soci, quella delle dimissioni di Moratti. Il mercato risponde alla logica del club: Shaqiri è arrivato per richiesta di Mancini e per garanzia di Bolingbroke, con il passaggio intermedio di Fassone e Piero Ausilio, due pezzi di Inter morattiana rimasti prima come sentinelle ma oggi integrati nel sistema Thohir. Non va bene la squadra. Fatica, è debole, è in perenne rodaggio. Programma, però. C’è stato il caos per mesi. Ora c’è un’idea di futuro. Investire per aumentare i ricavi extrasportivi non è un dettaglio. E’ una scelta obbligata: l’Inter vale più dei 164 milioni di fatturato della scorsa stagione. Sia che vinca, sia che non vinca sul campo. All’estero si sistemano i conti prima di sistemare le squadre, è frustrante per i tifosi all’inizio. Poi però cambia tutto. Moratti ha vinto quello che nessuno probabilmente potrà vincere in un solo anno. Nessuno lo tocca, ma l’Inter è cambiata, il mondo è cambiato, le regole sono cambiate. Si può stare insieme e continuare a sorridere diversamente.
Il Foglio sportivo - in corpore sano