Telefonami tra vent'anni
“Faccio bene, a volte, a ridere di me”. Francesca Archibugi, il suo film, le sue storie, le sue gambe lunghissime. “Il nome del figlio”, ovvero quanto si è ridicoli sentendosi i migliori. (Auto) ironia con dolcezza sulla sinistra che ama dire agli altri: sei la disfatta di questo paese.
Francesca Archibugi ha pudore di ammettere che il suo film, “Il nome del figlio”, sta riempiendo i cinema. E non va in televisione a promuoverlo, preferisce che a chiacchierarne in giro siano gli attori, dice mentre versa il caffè dalla moka: “Penso che i registi non sempre facciano venir voglia di andare al cinema, io credo meno di altri: magari le persone vedono me, mi ascoltano e si immaginano che i miei film siano pallosi, o radical chic”. Lei sta un passo indietro e accetta con grazia e bei sorrisi che dentro i suoi successi il mondo lì fuori trovi spesso un uomo a cui dare il merito (il produttore Paolo Virzì, il cosceneggiatore Francesco Piccolo, gli attori bravissimi) e una donna a cui far pesare i difetti: lei. Francesca Archibugi non lo dice, la prima regola non scritta è: mai lamentarsi, la seconda è: lavora sodo, la terza: non farne mai una questione femminile. Non lo dice, mi prega di non scriverlo (io non resisto), ammette soltanto, ma scherzando, che se un giorno dovesse fare lei il monologo della protagonista femminile de “Il nome del figlio” (che termina con: “E andatevene affanculo tutti quanti”) avrebbe una lista un po’ lunga di recriminazioni, prima di uscire di scena saltellando con la ginnastica casalinga come Valeria Golino. In questo film si ride molto (“per fortuna, è una commedia, se non facesse ridere potrei dire che ho completamente fallito”), però anche ci si commuove per questi personaggi che non riescono a liberarsi dalle loro gabbie, dal senso di superiorità sociale e culturale, dall’oppressione di una famiglia importante che li ha segnati, ma anche tenuti stretti fra loro. Un fratello immobiliarista che non ha potuto dare all’agenzia il cognome della famiglia, Pontecorvo, perché la madre si vergogna, sua sorella svagata e infelice, il marito di lei, professore twittarolo e migliore amico del fratello, e l’altro amico da sempre, musicista: tutti incapaci di separarsi come di capirsi e accettarsi, abituati a mantenere segreti e ad averli sotto gli occhi senza vederli. Sono passati vent’anni, come nella canzone meravigliosa di Lucio Dalla, da quando erano ragazzi alla scoperta del mondo, e adesso cenano insieme, e sul mondo litigano, e si rinfacciano tutti i difetti, “la superiorità antropologica”, le nevrosi, il bisogno di sentirsi migliori degli altri, la fidanzata di borgata (che ha scritto un bestseller), l’incapacità di guardarsi davvero, perfino la scalata sociale del marito di Betta, Sandro, “il paguro”, che ha sempre desiderato essere uno di loro, della famiglia Pontecorvo, ebrei comunisti con l’idea dell’aristocrazia. “Sono comportamenti che mi riguardano – dice Francesca Archibugi –, e riguardano un mondo che conosco: ho notato in queste persone, nella realtà, anche un senso della perdita di importanza. Si sentono sempre i migliori, ma sono più poveri delle loro famiglie d’origine, hanno fatto cose meno importanti di quelle dei loro genitori, e non sono più nemmeno giovani. Si sono accorti che il momento splendevole è passato. Forse è per questo – ride – che sono così incazzati. Si sentono defraudati del mondo, che non è più loro e non lo è mai stato, ma adesso è più evidente”. Francesca Archibugi non è però spietata con gli esseri umani, non è Yasmina Reza (che ne “Il dio del massacro” fa urlare a un personaggio contro la signora compassionevole e politicamente correttissima: “L’altro giorno ho visto in televisione la tua amica Jane Fonda, stavo per andarmi a comprare un poster del Ku Klux Klan”).
A Francesca Archibugi piace l’umanità, e l’umanità è sempre imperfetta, presuntuosa, risentita, mai completamente negativa, l’umanità è anche di sinistra in un modo italiano e riconoscibile, con un professore universitario che, dentro una casa follemente piena di libri, dice alla ragazza del suo migliore amico: “Sei l’espressione della disfatta del nostro paese”, perché non è abbastanza colta e perché lui crede che voglia chiamare il figlio Benito, perché il suo romanzo pop ha venduto troppe copie, perché lei non è una di loro.
“Non mi interessa fare film decontestualizzati, film che potrebbero essere ambientati in qualunque posto, mi piace che si capisca qual è il mondo, far sentire il calore delle cose che mi entrano dentro: la realtà accende la fantasia, e mi piace guardare la gente, sapere come vive, sono curiosa e impicciona, chiedo sempre dettagli”, dice Francesca Archibugi mentre ricorda il suo primo film, girato a ventisette anni quando era incinta della prima figlia, che nacque pochissimo dopo la fine delle riprese, prematura (“per un sacco di tempo mi sono sentita in colpa, pensavo di aver fatto una cosa cinica, girare un film con la pancia, che era colpa mia se Ludovica era stata un mese e mezzo nell’incubatrice, pensavo che ‘Mignon’ non avrei dovuto farlo, e invece poi anche gli altri due sono nati prematuri, ero proprio io così e basta”). Era “Mignon è partita”, uscito al cinema nel 1988, vincitore di moltissimi premi, ambientato a Roma, quartiere Flaminio, piazza Melozzo, nell’appartamento della famiglia Forbicioni, cinque figli (la madre era Stefania Sandrelli), in cui arriva all’improvviso una cugina snob da Parigi, Mignon, quindici anni: Giorgio ha tredici anni e si innamora, ed è quello il momento del passaggio all’età (quasi) adulta. Confesso in modo goffo a Francesca Archibugi, mentre si scrolla di dosso il complimento sistemandosi il cerchietto sui capelli e guardando altrove, che quel film è stato importantissimo per me: mi sembrava di essere Giorgio, o forse ero innamorata di Giorgio (avevo tredici anni anche io), ma da allora, da quel film, è cominciato il diventare grandi, e anche se ero stata a Roma una volta sola con i miei genitori e una volta in gita con la scuola era come sapere tutto, sentire tutto: era “Il tempo delle mele” in piazza Melozzo, con l’amore non ricambiato. Da allora sono rimaste quelle le cose interessanti da guardare: gli strati che la vita mette addosso alle persone, quello che crediamo di essere, quello che gli altri pensano che siamo, i fraintendimenti profondi, e poi arriva uno choc, una cena fra amici piena di rivelazioni, un pranzo di Natale o una ragazzina antipatica da Parigi, e cambia tutto in un momento.
“Non ti preoccupare, di tempo per cambiare ce n’è”, canta Lucio Dalla nella canzone utilizzata per intero ne “Il nome del figlio”, in cui tutti ballano, grandi e piccoli, si chiedono scusa, si dicono cose altrimenti indicibili perché troppo sentimentali. E’ questo il senso, forse: il tempo per cambiare, per smettere di tenere gli occhi chiusi sul mondo accanto. Francesca Archibugi parla della sua vita mentre racconta e trasforma in cinema la vita degli altri, racconta le sue crisi, e anche quando Virzì e Piccolo, con l’idea di questo film, adattamento della pièce francese “Le Prénom”, “sono venuti a tirarmi giù dal divano dove passavo il tempo dicendomi: io sono finita, devo smetterla di fare film, non gliene importa niente a nessuno” (l’ultimo film sei anni prima, “Questione di cuore”, con Antonio Albanese e Kim Rossi Stuart). Racconta dei momenti difficili del suo matrimonio, anche: “Non bisogna mai mitizzare o automitizzarsi, costruire una corazza che funziona per l’esterno: ci sono i momenti bui, i distacchi, e ci sono le volte in cui per andare avanti ti devi rimettere con una persona, devi risceglierla, perché altrimenti tutto piano piano si appiattisce. Devi soffrire per renderti conto che una persona la ami, e devi far soffrire per renderti conto che questa persona ti ama. Non c’è niente da fare: purtroppo l’amore è un massacro, se vuoi che sia amore”. Francesca Archibugi e Battista Lena, musicista, stanno insieme da quando avevano diciotto anni, hanno avuto tre figli, “eravamo due orfanelli, abbiamo entrambi perso le nostre madri quando eravamo molto giovani per malattie devastanti”, hanno vissuto quindici anni in campagna, nel Chianti, fra cani gatti bambini e paesani, proprio a cominciare dagli anni in cui Archibugi era diventata l’enfant prodige del cinema italiano, la ragazza uscita dal centro sperimentale di cinematografia con un cortometraggio su “una puttanella di quattordici anni che nel 1945 incontra un ragazzino borghese che seppellisce un gatto”, che aveva vinto tutti i premi esistenti e le consentì di scrivere “Mignon è partita” (“ma per il mio compagno non ero io che ero fantastica, era il cinema che si era abbassato verso di me, e mi è servito sempre”). Ha scritto e diretto sempre con in testa il consiglio fondamentale ed eterno di Furio Scarpelli: “Ci disse: rubate, e nessuno se ne deve accorgere. Ci fece vedere ‘Luci della città’, di Charlie Chaplin, e poi leggere ‘Il grillo del focolare’ di Dickens. Disse: furto totale con destrezza, nessuno se n’è mai accorto. Io ho rubato anche ‘Mignon è partita’: una pagina e mezza da un romanzo di Trifonov, ‘Il tempo e il luogo’ (romanzo russo pubblicato postumo), la pagina sulla visita di una cugina antipatica e con la puzza sotto il naso. D’altra parte anche lui aveva rubato quel personaggio a Goethe, e comunque nessuno si accorge mai di niente”.
Trifonov, morto a Mosca nel 1981, ha raccontato sempre, e criticato, la borghesia russa. Francesca Archibugi, nata a Roma nel 1960, negli anni Settanta ha cominciato ad avere gli attacchi di panico, aveva terrore di salire sugli autobus, paura perché ammazzavano la gente per strada, paura al liceo, e militava nella Fgci: è stata quella, anche, la sua scoperta del mondo. “E’ stato importante per me frequentare quella sezione di borgata, Porta Medaglia, io sono andata lì con mia cugina, che adesso è il vicesindaco di Milano, e lì abbiamo conosciuto il cosiddetto proletariato: invece di innamorarci dei cantanti ci innamoravamo del caposezione. Detta così sembra insopportabilmente snob, invece mi ha fatto aprire gli occhi su tante cose, soprattutto sul nostro essere ridicoli”. Spesso Francesca Archibugi racconta questo, nei suoi film: essere ridicoli a occhi chiusi, e poi aprirli. Lo fa senza sociologia, ma con attenzione agli esseri umani. “I miei personaggi borghesi sono tutti in fondo figli del professor Bruschi di ‘Verso sera’, interpretato da Marcello Mastroianni: lui era un letterato, comunista, ateo professore di letteratura russa all’università, ma non impegnato in politica, paternalista, diffidente”. Ma per la famiglia Pontecorvo di questo film, così importante, soffocante, dai cui lacci è così difficile liberarsi, chi sono gli ispiratori in carne e ossa? “Ci siamo ispirati ai grandi ebrei comunisti: i Bufalini, i Terracini, i Reichlin, Emilio e Vittorio Sereni”. E quindi ai loro figli? “I figli dei Pontecorvo, e anche moltissimi miei amici, sono scivolati verso altro, hanno annaspato, in alcuni casi hanno scartato, cambiato strada”. Francesca Archibugi pensa anche a Pietro e Lucrezia Reichlin, economisti, figli del deputato del Pci Alfredo Reichlin e di Luciana Castellina, fondatrice del Manifesto (“a cui abbiamo molto pensato per il personaggio della madre libertaria, Lucia”). “Pietro e Lucrezia sono molto diversi dai loro genitori, molto più liberali, hanno dentro un altro mondo”. E’ anche questo il bello di andare avanti, di ribellarsi ai padri e di cercare un posto che sia soltanto nostro: liberarsi dai lacci, come non riesce a fare Betta, la protagonista di questo film che prepara potage di broccoli cercando di fare andare d’accordo tutti. E’ il senso di “Telefonami tra vent’anni”, delle cose che cambiano ma del bisogno di stare sempre appiccicati anche dentro i conflitti, mangiare i broccoli insieme mentre ci si dice: sei la disfatta di questo paese, ed è il senso del finale di “Olive Kitteridge”, di Elizabeth Strout, con le persone che diventano fette di formaggio svizzero premute insieme: i buchi che ciascuno ha da dare all’altro, gli strati che la vita strappa all’improvviso e poi rimette subito addosso.
[**Video_box_2**]Dentro questo modo accogliente di stare al mondo potremmo affezionarci perfino all’assurdo senso di superiorità antropologica di nostro cugino, di nostra moglie, alla cecità e alla distrazione di chi amiamo, trovare ridicolo tutto quel twittare e avere bisogno del Viagra, ma riderne o soffrirne con la sospensione del disgusto. L’unico personaggio in grado di farlo fino in fondo, nel film, è Simona, “la disfatta del nostro paese”, bellissima autrice d’un romanzo di successo che nessuno dei Pontecorvo ha avuto il coraggio o la curiosità di leggere, e però conosce i segreti di tutti, le debolezze di tutti, e le accetta perfino. C’è dentro questo film, che è molto più della sua versione francese perché è più appassionato alle persone e meno alle parole, un’ironia che non è mai feroce, e un’autoironia totalmente esposta. “Ho fatto questo scherzetto allo sceneggiatore, Piccolo, ho messo sul divano, a un certo punto nel film, il suo romanzo, ‘Il desiderio di essere come tutti’, per divertirmi e perché il nostro personaggio avrebbe letto senza dubbio un libro così, e ho ricevuto messaggi sarcastici di persone che mi accusavano di fare pubblicità, come se dietro un libro appoggiato su un divano potesse esserci un complotto, un magna magna, qualcosa da svelare e denunciare. Ecco, non mi piace questa cultura del sospetto, in cui siamo tutti pronti a delazionare il prossimo, a trovare il motivo peggiore e malizioso, il retroscena infido per cui le persone fanno le cose”. Sembra la definizione di talk-show italiano che Matteo Renzi qualche giorno fa ha scritto su Twitter (“trame, segreti, finti scoop, balle spaziali e retropensieri”), su Twitter Francesca Archibugi si diverte molto e chiacchiera con tutti, manda cuori e offre bicchieri di vino, così le chiedo, dopo tutti questi Pontecorvo e figli di Pontecorvo, che cosa pensi di Matteo Renzi, ma non dal punto di vista del cinema o delle sue variazioni antropologiche. Si sistema il cerchietto, si sistema la gonna sulle gambe bellissime e dice che spera che ce la faccia. “E’ molto evidente ciò che Renzi è, e questo è uno dei suoi grandi pregi, ma non mi voglio riconoscere in lui o in nessun altro, la politica non è un golfino che devo indossare. Molto spesso la politica è vissuta in un modo vanitoso: tutti vogliono riconoscersi, ma è impossibile. Do per scontato che non mi riconosco in nessuno e cerco di capire in modo maturo in questo momento che cosa possa essere più efficace. Ma non si tratta di turarsi il naso o di votare il meno peggio: non c’è democrazia al mondo rappresentata da persone di cui condividi integralmente le scelte”. E non c’è persona al mondo, dice, a cui non faccia bene ogni tanto fermarsi e chiedersi: smetto? “Io lo faccio, l’ho fatto, continuerò a farlo”. Anche se sta lavorando già a un nuovo film, e ha scritto il prossimo di Paolo Virzì insieme con lui, “sono due personaggi femminili ed è stata una grandissima gioia scriverlo, sono sicura che Virzì girerà un film bellissimo, l’idea è sua”. Francesca Archibugi pensa che la lunghezza ideale di un film sia quella di Woody Allen, “non voglio rubare troppo tempo agli spettatori, è una questione di rispetto”, e allora io capisco, mi vergogno, raccolgo la penna e scappo via.
Il Foglio sportivo - in corpore sano