Combattenti dello Stato islamico in Libia, nei pressi di Derna

Noi e lo Stato islamico sul nostro bagnasciuga

Paola Peduzzi

Libia, che fare? No a soluzioni militari né divisione del paese. Il ministro degli Esteri Gentiloni ci spiega dove arriverà il negoziato italiano

Milano. Il negoziato in Libia si sta muovendo, si stanno ottenendo “per la prima volta” alcuni risultati, e “il riaprirsi di uno spiraglio nelle trattative gestite dalle Nazioni Unite moltiplica gli attentati di quelli che vogliono interrompere o eliminare qualsiasi azione politica e diplomatica” nel paese. Paolo Gentiloni, ministro degli Esteri, spiega al Foglio la strategia onusiana – con un ruolo cruciale dell’Italia, “possiamo considerare la Libia come uno stato confinante” – per portare il paese su un “percorso costituente”: prima di tutto “un governo di tecnici o di saggi”, dice Gentiloni, “questa è la priorità di Bernardino León”, inviato speciale dell’Onu in Libia (che il ministro chiama sempre per nome, e sente costantemente, “gli ho parlato un’ora fa”, dice), e poi “in due o tre mesi” la ricostruzione istituzionale del paese.

 

Parlare di Costituente dopo l’attacco della settimana scorsa all’Hotel Corinthia, simbolo della Tripoli che vuole sentirsi normale, e quello nella notte tra martedì e mercoledì al sito petrolifero di al Mobrook gestito dalla compagnia di stato libica Noc con la francese Total, assieme agli attacchi quotidiani che non raggiungono i media internazionali, pare quasi azzardato, e il ministro non nasconde la preoccupazione, ma “è necessario evitare che gli attentati siano da ostacolo al processo negoziale”. Non bisogna fermarsi, perché i terroristi certo non lo fanno (e nella nostra testa risuonano le parole del generale Petraeus in Iraq: “Staremo peggio prima di stare meglio”: era vero). Secondo l’intelligence americana – ne ha parlato lunedì alla commissione Forze armate del Congresso il capo della Defense Intelligence Agency, Vincent Stewart – lo Stato islamico è sempre più presente in Libia, sotto il suo controllo non ci sarebbe più soltanto Derna, che già da tempo fa da hub dell’organizzazione, ma anche Sirte e molti territori vicino a Tripoli. Eppure la minaccia sembra, ancora una volta, sottostimata. Molti a Washington, così come alcuni diplomatici libici, si lamentano dell’assenza americana: dicono che dopo la strage di Bengasi la Libia è diventata un argomento tabù. E’ vero che Obama si è defilato? “Parliamo con gli americani con costanza, sono molto coinvolti – dice Gentiloni – Certamente è vero che tendono a responsabilizzare i paesi del Mediterraneo, e in particolare l’Italia, per evidenti ragioni geografiche e di interessi strategici”. L’Europa deve fare di più insomma, l’Italia con la Francia e la Spagna sono in charge, “i francesi si preoccupano anche della minaccia terroristica nel sud, verso il Mali, dove si concentrano gli interessi di Parigi”. Ma alternative alla road map decisa a Ginevra – cui l’Italia ha dato un sostegno decisivo, “non soltanto politico, ma anche logistico, facendo muovere le delegazioni con i nostri aerei” – non ce ne sono: “Anche gli stati della regione nordafricana hanno preso atto del fatto che soluzioni militari o l’ipotesi di una divisione territoriale della Libia non sono vie praticabili”.

 

[**Video_box_2**]Il negoziato dell’Onu, quindi: “A Ginevra gli interlocutori erano il governo di Tobruk, scaturito dalle elezioni, i gruppi islamici di Misurata e alcune comunità tribali: mancava l’adesione di Tripoli. E’ di queste ore invece la notizia che il Congresso nazionale di Tripoli potrebbe partecipare, già dalla settimana prossima, lunedì o martedì, a una nuova fase di trattative per costruire un governo tecnico rappresentativo”. Una volta che il processo fosse avviato, continua Gentiloni – “ma dire questo è buttare il cuore oltre l’ostacolo”, aggiunge mettendo un pizzico di ironia in una conversazione telefonica dai toni preoccupati – “il governo italiano sarebbe pronto a proporre al Parlamento di partecipare a una missione dell’Onu che sostenga la stabilizzazione”.

 

Se arrivano i peacekeeper, l’Italia sarà in prima linea, ma prima ci vuole la “peace”, che pure con le migliori intenzioni oggi non si vede. Anche perché persiste una contraddizione strategica rilevante: lo Stato islamico si fa forte del suo potere conquistando terre, ma noi che vogliamo fermare questa avanzata la terra non la tocchiamo mai. “L’espansione del Daesh si è fermata e ha forse subìto un arretramento – dice invece Gentiloni – e anzi l’oscena propaganda di questi giorni, il pilota giordano arso vivo ma anche gli orrori visti finora, non coincide affatto con una fase di espansione del Daesh”. Ci vogliono terrorizzati e inorriditi perché stanno perdendo, allora? No, non stanno perdendo, ma “non stanno avanzando, grazie ai curdi, agli iracheni, agli strike della coalizione e all’impegno di paesi come il nostro”. E’ presto per dirlo, e comunque di “mission accomplished” nessuno parlerà mai più per i secoli a venire, e “il Daesh potrebbe arretrare sul terreno, ma farsi più pericoloso sulla sua proiezione internazionale”, ma quando si registrerà una svolta nella guerra, “si comincerà con la fase degli aiuti umanitari e degli uomini dell’Onu”. E l’Italia continuerà a esserci.

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  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi