La danza di Dilma
La crisi del governo brasiliano di Rousseff, che azzera i vertici di Petrobras, è insidiata nelle favelas ma più ancora teme la siccità.
Non piove, governo ladro. Non bastassero la bomba dello scandalo Petrobras, la crescita economica anemica allo 0,3 per cento e i cadaveri di poliziotti che ogni tanto spuntano dai sacchi della spazzatura a Rio de Janeiro, Dilma Rousseff deve vedersela anche con il record di siccità dell’ultimo secolo.
E’ dal 1930 che non si ricorda una stagione delle piogge così secca in Brasile. Non è un cruccio per meteorologi. Se non piove alla svelta, cade il governo. Suona buffo, eppure una presidente granitica, sopravvissuta nell’ottobre scorso alla campagna elettorale più cattiva (e più appassionante) della storia del paese, è sul punto di essere travolta perché non piove. Senza acqua non c’è energia elettrica né a San Paolo né a Rio de Janeiro, due metropoli che non si possono permettere blackout senza che si scateni l’inferno per strada. Se non piove si bloccano le turbine idroelettriche e conseguentemente le industrie, la sicurezza, le grandi città. Un’apocalisse.
Nel pieno dell’emergenza siccità, a Dilma è esplosa tra le mani la faccenda Petrobras. L’impresa petrolifera statale, la principale azienda pubblica dell’America latina con 90 mila dipendenti, dopo aver retto a forza durante la campagna elettorale gli effetti di uno scandalo giudiziario in cui sono stati fatti fuori, uno a uno, alcuni dei suoi principali dirigenti, ha finito per perdere gran parte del suo valore di mercato. L’accusa, basata su prove sostanziose e testimoni assai loquaci, sostiene che un sistema “istituzionalizzato”, così scrivono i giudici, di sovrapprezzi sulle commesse destinati a pagare le campagne elettorali di alcuni deputati, in maggioranza del partito di governo, abbia enormemente gonfiato di profitti falsi i conti dell’azienda. Uno dei teste chiave dell’indagine, l’imprenditore Julio Camargo, agli arresti, mercoledì ha dichiarato di aver pagato 4 milioni e mezzo di dollari per ottenere appalti da Petrobras e ha spiegato nel dettaglio come il pagamento di mazzette da parte delle concessionarie fosse un sistema oliato e stranoto. Il valore dei fondi sottratti, sommato alle perdite dovute a una serie di investimenti infelici, supera gli 88 miliardi di reais, quasi 34 miliardi di dollari. Non proprio due spiccioli.
Dopo mesi di ostinato rifiuto, martedì Dilma ha accettato le dimissioni della ceo di Petrobras, Graça Foster, da tre anni ai vertici dell’azienda proprio per volere della Rousseff. Che non la voleva rimuovere perché la Foster era il suo unico scudo. Era lei, la vecchia amica di Dilma venuta dalla strada e arrivata ai vertici di una delle imprese più importanti del pianeta, l’ingegnere chimico con 31 anni di servizio e con una storia epica di riscatto individuale da fare invidia a quella leggendaria dell’ex presidente operaio Lula, a garantire che ci sarebbe stata una provvidenziale schiera di Primo Greganti pronti a immolarsi pur di non far travolgere il Partito dei lavoratori dallo scandalo.
Fino al mese scorso Dilma s’è mantenuta irremovibile sulla difesa della Foster. Ha continuato a ripetere fino a gennaio: “Non la sostituirò. La conosco e mi fido della sua serietà e della sua correttezza”. Ormai però Petrobras sanguina troppo per continuare a ignorare le ferite. Nel 2010 valeva 126 miliardi di dollari. Poco più di quattro anni dopo è precipitata a 42 miliardi di dollari. Continua a guadagnare, questo sì. Anche se i profitti del terzo trimestre del 2014, secondo i dati ufficiali pubblicati questa settimana, sono caduti del 9,07 per cento rispetto allo stesso periodo del 2013. Nessuno riesce a fare dei calcoli attendibili se tenta di contabilizzare anche i soldi rubati. E questo non aiuta la pubblicità dell’impresa.
C’è un dato che racconta molto della percezione della gestione di Petrobras targata Pt: appena mercoledì la Folha de São Paulo ha pubblicato online la notizia della destituzione di Graça Foster, il valore delle azioni dell’azienda è cresciuto del 10 per cento. La presidente, che governa con uno scarto minimo sull’opposizione (solo il 3 per cento di vantaggio sull’avversario, Aécio Neves), è anche indebolita dal calo dell’export di materie prime e da una produzione industriale inchiodata al 3,2 per cento l’anno scorso, il dato peggiore degli ultimi cinque anni.
Per di più, senza pioggia, la bolletta schizza alle stelle. E con l’inflazione tenuta a bada a forza, il Partito dei lavoratori (Pt) al potere, non si può permettere milioni di bollette salatissime. Per ora il Pt dimentica a malincuore l’anima popolare e solidale e toglie acqua ed elettricità alle favelas durante il giorno. Toglierla alle piscine dei giardini pensili di Ipanema sarebbe troppo pericoloso. Da settimane raziona le forniture ai poveracci senza dirlo, ma non può continuare così in eterno. Gli abitanti di Recreio dos Bandeirantes, popoloso sobborgo a ovest di Rio, esasperati alla vista dei rubinetti a secco, si riversano nei canali che costeggiano la favela, nel tentativo di recuperare un po’ d’acqua, foss’anche sporca. Ma ci trovano dentro i coccodrilli. Per la verità i coccodrilli da quelle parti ci sono sempre stati, scendono dal vicino parco “Chico Mendes”. Sono almeno 500 esemplari di “jacaré de papo amarelo”, sottospecie locale del comune coccodrillo. Solo che ora i ragazzini li sfidano a bastonate pur di riuscire a portarsi a casa un po’ d’acqua sporca. “Già si sono mangiati un gatto e la zampa di un cane, noi li ricacciamo giù nel canale con i pali di legno perché l’acqua ci serve” ha raccontato la settimana scorsa Luciane de Oliveira, 36 anni, a una cronista della France Press.
Il coccodrillo che prende a morsi la cintura di miseria di Rio de Janeiro non è un bel presagio per Dilma che vuole essere “la presidente dei poveri”. Già ha abbastanza guai, da quelle parti, con le ondate di attacchi dei narcos nelle favelas. La missione delle tanto lodate Upp, le Unità di polizia pacificatrice sognate dall’ex presidente Lula per riprendere il controllo di porzioni di territorio completamente in mano ai narcos, è in seria crisi. Non funziona benissimo, nella pratica, l’idea di recuperare alla città le favelas con la “polizia buona” che punta all’inserimento sociale degli esclusi invece che alla testa dei narcos.
Anche questo fine settimana a Rio sono comparsi due cadaveri di poliziotti pacificatori fatti a pezzi nella favela Vila Kennedy, che in teoria sarebbe una di quelle tranquille. I due si aggiungono ai cento agenti assassinati nel 2014 in città, quasi sempre uccisi durante il giorno di riposo, senza uniforme addosso. Una guerra di nervi per chi sul gigantesco piano di recupero delle favelas (che significa anche speculazioni immobiliari da capogiro) s’è giocato la testa. L’inferno arde nei sobborghi nonostante buona parte di Rio, per precauzione dovuta ai Mondiali di calcio, sia occupata militarmente dall’esercito. Non metaforicamente. I militari dell’esercito federale sono arrivati ad aprile con i carri armati, i mitragliatori e le torrette blindate d’avvistamento. Si sono installati nei punti caldi della città. E non se ne sono ancora andati. I narcos non sono spariti, si sono trasferiti di qualche chilometro. Non hanno gradito il trasloco e nella periferia ovest hanno dichiarato guerra allo stato.
Sono guai per Dilma perché a Rio nel 2016 ci sono le Olimpiadi e le favelas in fiamme non erano previste nel pacchetto del Comitato olimpico.
In questa situazione non rosea, San Paolo si prepara a razionare l’acqua per cinque giorni alla settimana. Bar e ristoranti già si fanno rifornire regolarmente da camion-cisterna privati. La domanda di grandi bidoni di plastica s’è fatta ossessiva. Le conseguenze non sono solo di emergenza sociale. La ricaduta che più teme il Pt è quella economica. La siccità non ferisce soltanto l’industria e il sistema di produzione dell’energia elettrica. Farà aumentare a dismisura il prezzo del cibo. E con le bollette e la spesa basica cresciute di prezzo, come farà il governo a non superare il limite che s’era dato, e che già sfiora, di inflazione massima tollerabile al 6,5 per cento?
Il 25 per cento del paese è senz’acqua. In alcune città il Carnevale è stato cancellato, un lutto collettivo. A Cordeirópolis e Oliveira, nello stato di San Paolo, e a Itapecerica, Formiga, Arcos e São Gonçalo do Pará, nello stato di Minas Gerais, i festeggiamenti previsti per i giorni dal 13 al 18 febbraio sono sospesi. Anche il Carnevale di Rio, con i suoi 920 mila turisti stranieri in arrivo, ha dovuto cambiare passo. Le scuole di samba hanno stravolto in corsa le coreografie. Niente acqua, solo luci e fumo. Il governatore di Rio, Luiz Fernando Pezão, rifiuta di parlare di razionamento, ma è un dato incontrovertibile che la riserva d’acqua di Paraibuna, che rifornisce la Cidade Maravilhosa, è ufficialmente a secco. Ha toccato quota zero per cento. Nel nord dello stato sono arse grandi zone coltivate e gli allevatori denunciano perdite di migliaia di capi di bestiame.
La temperatura media questa settimana a Rio è stata di 37 gradi. Non sarà una passeggiata attraversare la settimana di Carnevale, con le strade piene di gente accaldata e ubriaca che balla sotto il sole senz’acqua. Stessa situazione a Belo Horizonte, la terza città del paese e a Recife, nel bollente nord-est.
Il sud-est del Brasile patisce la più grande siccità della sua storia. Lì vivono 80 milioni di persone. A lasciarle senz’acqua si rischia la rivoluzione. I grandi bacini che forniscono acqua potabile ed energia elettrica sono quasi vuoti e in cielo non si scorge una nube. Sette milioni di persone a San Paolo, quasi la metà della popolazione della città, sono rifornite da una sola riserva idrica. Si tratta del sistema Cantareira, un enorme bacino che oggi somiglia a uno stagno. Il livello è sceso sotto il 5 per cento della sua capacità. A Cantareira si scava e si pompa acqua dal sottosuolo, nella speranza di trovarci qualcosa. Altre 130 città hanno dichiarato l’emergenza. Un quarto del pil del Brasile si produce nella zona paulista. Orgoglioso di fronte al mondo per la ricerca e lo sviluppo delle sue fonti rinnovabili d’energia, il Brasile è costretto a riaccendere le centrali termoelettriche, non proprio il massimo dell’ecologico e terribilmente care. D’altra parte il modello brasiliano di produzione di elettricità è quasi interamente basato sul sistema idroelettrico. Solo riaccendendo le termoelettriche può sperare almeno di limitare i blackout, che già hanno lasciato al buio negli ultimi giorni 11 stati basiliani.
[**Video_box_2**]La lunga e agguerritissima campagna elettorale per le presidenziali di ottobre non ha aiutato. Razionare l’acqua è talmente impopolare che né il governatore di San Paolo, Geraldo Alckmin (grande avversario di Dilma) né la presidente si sono voluti avventurare in strategie preventive serie. Esiste in alcune città un micro incentivo economico, sotto forma di sconto sulla bolletta per chi riduce i consumi, ma niente di più. L’acqua non manca ancora nei quartieri bene di San Paolo, solo nelle periferie e nelle favelas. Ma chissà quanto dura. A Rio, a parte la minuscola e privilegiata zona sud (Ipanema-Leblon-Copacabana, quella delle spiagge da cartolina), il problema è ormai endemico ovunque. Interi quartieri di periferia vivono grazie ai pozzi o spendendo una fortuna per rifornirsi con le autocisterne.
Né gli ospedali, né le scuole, né le industrie, né l’amministrazione dello stato di San Paolo (dove però il meteo prevede un po’ di pioggia nei prossimi giorni), né quella di Rio de Janeiro hanno un piano B al quale ricorrere se le riserve, agli sgoccioli, dovessero esaurirsi completamente. I sindaci di trenta città dell’hinterland di San Paolo mercoledì hanno alzato un gran polverone per esigere che il governatore Geraldo Alckmin metta insieme un comitato di crisi e studi un piano di emergenza. La povera Dilma, in tutto ciò, ha dovuto anche digerire la batosta dell’elezione alla presidenza della Camera dei deputati di Eduardo Cunha, suo antico avversario che promette di renderle uno yogurt acido l’intera durata della legislatura.
Ma il Pt è capatosta. Sta all’angolo e reagisce coi denti pur di non mollare il potere. Ha conquistato il Planalto nel 2003 dopo una vita di stenti e non sembra disposto a sloggiare. Ha allargato, e in parte fatto slittare, la sua base sociale di riferimento, nel frattempo. Era il partito degli operai e della sinistra metropolitana. Vinceva con Lula nelle sterminate periferie industriali delle città. Ora è il partito dei poveri, dei neri, dei condannati del sertão, di chi ha bisogno di un sussidio statale per vivere. Spopola nelle aree rurali del nord e del sud-est del Brasile, non più nella cintura operaia di San Paolo.
Lula era il padre degli operai e ora – perché comanda comunque ancora lui nel Pt e nei momenti neri della campagna per le presidenziali s’è visto con chiarezza – è innanzitutto il padre dei poveri. Che sono ancora tanti. Meno di dieci anni fa, eppure tantissimi. Gli operai, invece, sono sempre di meno. Dilma Rousseff, seria tecnocrate dall’immagine assai meno radiosa di quella del suo predecessore, se la sta però vedendo davvero brutta. Ha bisogno che il Pt le faccia quadrato intorno per sopravvivere al momento di disgrazia.
Può contare sul fatto che il Brasile è ancora un continente a parte, un giardino dei miracoli rispetto ai paesi confinanti, nonostante l’epoca del boom sia tramontata e l’industria sia in recessione. Può contare sul dato empirico che al momento della verità, la maggioranza numerica dei brasiliani premia sempre la politica di ridistribuzione della ricchezza, anche quando è elemosina di stato. Il leader dell’opposizione Aécio Neves e il suo mentore, l’ex presidente Fernando Henrique Cardoso, hanno buon gioco in questi giorni a gridare che il Pt occupa da dodici anni lo stato e Petrobras scambiandoli per un bancomat. Hanno comunque perso le elezioni, anche se di un soffio.
Il Pt proteggerà Dilma perché far superare il momento nero alla presidente è per il partito il passaggio necessario alla realizzazione dell’ambizioso progetto di Lula: gestire il dietro le quinte di un secondo governo Rousseff per valutare se ripresentarsi poi nel 2018 per un terzo mandato e tentare così di avere in mano il Brasile per altri quattro anni. In tutto, sarebbero venti anni di fila.
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