Una scena di Barry Lyndon, di Stanley Kubrick

Appagati ancora dalla malinconia davanti al Kubrick che chiuse il '900

Alfonso Berardinelli

Benché avessi parecchie altre cose da fare, non ho esitato a spendere un intero pomeriggio, ben tre ore di visione, pur di godermi per l’ennesima volta (la quinta o la sesta) il “Barry Lyndon” di Kubrick, ora nell’edizione restaurata.

Benché avessi parecchie altre cose da fare, non ho esitato a spendere un intero pomeriggio, ben tre ore di visione, pur di godermi per l’ennesima volta (la quinta o la sesta) il “Barry Lyndon” di Kubrick, ora nell’edizione restaurata. Il film mi è sembrato ancora più lungo, lento, accurato, immancabilmente perfetto anche in ogni minimo e secondario dettaglio: ambienti, arredi, gestualità, eloquio, scelta degli attori, costumi e soprattutto fotografia e colonna sonora commoventi e trascinanti per nitore, incisività, tempestività.

 

Ancora più che in passato mi sono ripetuto mentalmente che questo non è soltanto il capolavoro di Kubrick, grandissimo regista e probabilmente il più grande artista (considerate tutte le arti, voglio dire) della seconda metà del Novecento: epoca senza dubbio di declino se confrontata con i primi tre o quattro decenni del secolo. Con Kubrick e in particolare con “Barry Lyndon” la storia ha una svolta: il regista è convinto che la “settima arte”, l’arte più clamorosamente caratteristica del Novecento – che  aveva messo in crisi, se non relegato in un angolo, sia il teatro che le arti visive, sia il romanzo che la musica di élite – è entrata nella routine, è tentata da un’estetica d’avanguardia che vuole creare choc annoiando il pubblico, o è votata alla produzione in serie per il consumo di massa.

 

Tutti i generi, dal sentimentale al comico, dal poliziesco all’avventuroso allo storico al fantascientifico al thriller, avevano ormai perfezionato tecniche e modelli. Kubrick li cataloga, li mette nel repertorio, se ne impadronisce con geniale maestria e li ripropone portandoli al di là di quello che erano e deviandone l’uso per i propri scopi. Da “Orizzonti di gloria” al “Dottor Stranamore” a “2001” all’“Arancia meccanica”, ogni suo film sembra una cosa risaputa e ne diventa invece un’altra. Guerra, politica atomica, avventura nello spazio, violenza gratuita prossima ventura: in ogni caso l’umanità si mostra inconsapevole, ottusa, testardamente incapace di vedere e inetta ad agire, ossessivamente dedita a ripetersi e a replicare fallimenti, atrocità, disastri. Dalla tragedia alla farsa e viceversa. Il male è stupido e noioso anche se agghiacciante. Il bene non è da meno: vuoto, ipocrita, meschino e in più vile, perché conta sempre su un potere più forte, più accreditato, più stabile: la legge, lo stato, le maggioranze.

 

Ma con “Barry Lyndon”, fra tanti film che aveva già fatto e che più tardi farà, Kubrick sembra che voglia realizzare già la sua ultima opera. Qui il suo spirito di perfezione è spinto al massimo. E’ come se Kubrick avvertisse che l’estetica novecentesca, con i suoi eccessi, le sue lacerazioni angosciose o programmatiche, aveva esaurito la sua funzione e le sue risorse. C’è poco da scandalizzare, lo spettatore è abituato a tutto e le tecniche possono essere soltanto portate al parossismo degli effetti speciali, che non rivelano niente perché si esauriscono nello scopo di violentare la percezione.

 

Nella saletta tappezzata di rosso, in compagnia di non più di trenta persone, quasi tutte anziane, sono rimasto per tre ore ipnotizzato dalla sobria, classica, eccitante, onesta magnificenza delle immagini. Il film dilata, intensifica le percezioni senza creare stress ma inducendo in chi guarda una calma contemplativa che solo la musica e la pittura classiche sapevano dare. Tra un Händel e un Hogarth, un Vivaldi e un Gainsborough, un Federico il Grande e un Paisiello, il dinamismo della storia di Redmond Barry, poi Barry Lyndon, è realisticamente illustrato e assolutizzato esteticamente in una serie di scenari sui quali non si finirebbe mai di fermare lo sguardo. Si tratta di cinema che esalta i poteri del cinema, ma nega la sua ideologia di genere: la coazione cinetica, l’ansia della dinamica. Per vedere e capire (sembra suggerirci Kubrick) è meglio rallentare, soffermarsi, riflettere, osservare. Di qui lo stacco netto dovuto alla voce narrante, alla sua pacata considerazione delle cose, alle sue clausole epigrammatiche e quasi didattiche.

 

[**Video_box_2**]Quando alle otto di sera il film è finito, i trenta spettatori non si sono mossi, sono rimasti seduti a fissare i titoli di coda, a godersi ancora una volta la severità martellante e ammonitrice della sarabanda di Händel. Nessuno aveva voglia né coraggio di andarsene. Ogni dinamismo era placato in quella pensosa e appagata malinconia sul triste destino degli esseri umani: sulla fine della giovinezza, l’onnipresenza del denaro, la durezza del potere e della gerarchie sociali, il fallimento e la sconfitta di chi segue i suoi istinti.

 

Quando il film uscì, quarant’anni fa, Piergiorgio Bellocchio scrisse su Quaderni piacentini un saggio-recensione di una quindicina di pagine, lo scritto più lungo che avesse mai dedicato a un film. Ricordo che diversi “compagni” furono sorpresi e quasi scandalizzati. Ma come? Il fondatore di una rivista che era o sembrava estremista e rivoluzionaria era tanto entusiasta del più composto, tradizionale dei film di Kubrick? Era il 1977, l’anno che precedeva il rapimento di Moro, l’anno delle Brigate rosse e di Autonomia operaia. Quel saggio su “Barry Lyndon” era un sintomo, segnalava un distacco, trasmetteva la sensazione, la certezza che bisogna decidersi a ricominciare da un altro inizio. Kubrick ricominciava dal Settecento, da un romanzo storico di Thackeray scritto a metà Ottocento, da un’estetica e da una tecnica narrativa radicalmente antinovecentesche. E’ così che ebbe inizio la mia amicizia con Piergiorgio: vedendo “Barry Lyndon”. Il nostro comune amore per il Settecento ci avrebbe portato, anni dopo, a fondare una rivista che sembrava venire da due secoli prima.

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