L'imperatore
Nel corso degli anni, di personaggi così ne ho incontrati tre. Capaci di riversare la loro attività nello “show”, completamente nel fattore “business”. Ciascuno con un suo stile. Determinati a dimostrare cosa appunto sia, in sostanza, lo “show business”.
Nel corso degli anni, di personaggi così ne ho incontrati tre. Capaci di riversare la loro attività nello “show”, completamente nel fattore “business”. Ciascuno con un suo stile. Determinati a dimostrare cosa appunto sia, in sostanza, lo “show business”: finanza avventurosa, coniugata con disinvoltura al traballante carrozzone dello spettacolo.
Il primo era David Zard, l’impresario-monstre dell’epoca d’oro delle grandi tournée in Italia. Era un tipo elettrizzante, visionario, spericolato, divertente: che arrivassero i Rolling Stones, Madonna o Michael Jackson, qualsiasi folle richiesta da costoro gli venisse sottoposta, lui non perdeva mai il tocco del raffinato commerciante. Capiva se si poteva fare o no, fin dove si poteva arrivare, quali fossero i rischi connessi e quali i probabili rientri. E decideva. L’ho seguito in tanti tour: mai sentito una volta parlare di musica. Non per disinteresse, ma per una specie di distacco superiore: quelle erano le pedine, lui era il giocatore. Una bella lezione.
Il secondo era un personaggio diverso: John DeMol, incontrato nei suoi uffici in mezzo alla foresta olandese, al culmine del successo del “Grande Fratello”, che aveva destabilizzato l’intera istituzione televisiva, promulgando la possibile spettacolarizzazione della normalità – o di una sua versione opportunamente addizionata. Lui, invece, era un uomo malinconico, quasi tetro. Gli piaceva snocciolare le cifre iperboliche del suo successo. Elencare i possibili sviluppi imprenditoriali che partivano sempre dall’idea della cessione del format, armi e bagagli. Prendi i soldi e scappa. Quindici anni più tardi, di tanto in tanto m’imbatto nel suo nome in qualche colonna di Variety sul lancio dell’ennesimo format firmato DeMol, sottolineando come, in effetti, si tratti sempre della rifrittura della stessa consunta idea: scoprire la faccia eccezionale delle persone qualunque. Trasformarle in star, secondo il vangelo del “Volto nella folla”, scritto da Elia Kazan già negli anni Cinquanta. DeMol me lo ricordo come un programmatore della manipolazione, un teorico dello sfruttamento intensivo. Un calcolatore negativo, che né della tv né dei suoi influssi pareva avere una consapevolezza che andasse oltre la valutazione pecuniaria.
Il terzo dell’elenco è l’uomo del presente, in questa empirica storia del cinismo come interpretazione dell’intrattenimento: si chiama Simon Cowell, è inglese. In un certo senso ha chiuso il cerchio, congiungendo musica e tv, sempre nella logica della determinazione degli utili. Mettendoci qualcosa in più, a complicare il discorso: un ego grande come l’hotel Ritz.
Cowell viene al mondo nel ’59 nel quartiere londinese di Lambeth, zona benestante e centrale di Londra, dove adesso gira il Millennium Eye, la ruota panoramica. Il padre si occupa di immobili e ha le mani in pasta nell’industria musicale. A 16 anni Simon molla la scuola e cerca, senza successo, di entrare nell’ambiente dello spettacolo. Alla fine è il padre ad assicurargli un impiego all’ufficio spedizioni della Emi. Riesce a farsi largo in fretta. Nel ’79, a vent’anni, ha già una posizione da talent scout, lavoro ambitissimo nella Londra del tempo. Un anno più tardi molla tutto e, in società col capufficio, apre una label tutta sua, la E&S. Le cose vanno bene: infila una serie di successi easy listening e nel 1985 decide di mettersi completamente in proprio con un’altra sigla, la Fanfare Records. Questa volta il successo non gli arride, va in bancarotta e a trent’anni si ritrova a bussare a casa dei genitori, spiantato come quando era partito. Riparte dalla Bmg, altro colosso dell’industria discografica. Ricomincia la scalata, si mette in luce per il fiuto nell’individuare talenti, c’è il suo nome in settanta titoli che nel giro di dieci anni scalano le classifiche anglosassoni.
Nel 2001 Cowell cambia di nuovo aria, sfiduciato dalle prospettive del mercato discografico. Accetta di fare il produttore esecutivo in uno show per la tv inglese, sul canale più smaccatamente popolare, la Itv. Il format è di un amico, Simon Fuller, e parte dall’idea che sia il pubblico a scegliere la prossima star da avviare al successo, magari solo effimero. Si chiama “Pop Idol”. Il successo è istantaneo: diecimila candidati si presentano alle audizioni e Cowell fa una mossa in più, decisiva: anziché restare dietro le telecamere, si cala nei panni del giudice e guida la giuria che anima lo show: in poche settimane la Gran Bretagna ha imparato a conoscerlo, ad amarlo o a odiarlo, per i suoi commenti spietati alle performance dei concorrenti, sovente ridotti in lacrime da tanta perfidia.
Intanto nel 2002 nasce l’edizione americana del programma, battezzata “American Idol”: Cowell è pronto a proporsi anche qui nei panni del giudice, affiancato dalla cantante Paula Abdul e dal produttore Randy Jackson. La Fox, che mette in onda il programma, fa numeri record e dalle selezioni cominciano a uscire alcune luminose popstar della musica d’oltreoceano, come Kelly Clarkson (2002), Jennifer Hudson (2004) e Carrie Underwood (2005). Cowell non sta a guardare e tenta di nuovo l’azzardo. Dal momento che i rapporti con Fuller sono tutt’altro che sereni, prepara un format completamente suo, nel solco talent segnato da “Pop Idol”: si chiama “X Factor”. L’edizione britannica decolla nel 2004, con Cowell seduto al posto di comando di giudice e orchestratore della giuria. Tre anni più tardi, raddoppia: nasce “BGT”, “Britain’s Got Talent”, talent show che va oltre la musica e si occupa di arti varie, comici, imitatori, prestigiatori, ballerini, con un occhio rivolto a un pubblico più maturo. In questo caso lancia il programma in contemporanea anche negli Stati Uniti, cedendo la poltrona di giudice a un alter ego, incarnato dall’ex baywatcher David Hasselhoff.
Ormai il piano d’invasione via etere è pronto: le tre franchigie nelle quali è coinvolto cominciano ad aprire succursali in tutto il mondo. Simon deve soltanto stringere i bulloni e passare all’incasso. Nel 2002 fonda appositamente SYCOtv (si legge Psycho…), la sua centrale operativa e la cassaforte dell’impresa. Le regole stilistiche sono dettate, il modello di conduzione diviene un punto di riferimento. “Non vorrei sembrare maleducato…” è la sua frase-slogan, quella con cui, dal tavolo della giuria, apre i suoi responsi all’arsenico, rivolgendosi al malcapitato concorrente. La pronuncia, poi fermandosi un attimo, coreografando il gesto, beandosi nell’applauso isterico della platea, che già pregusta la pioggia d’improperi che dopo un istante usciranno dalla sua bocca. “Non vorrei sembrare maleducato…” in Inghilterra diventa una fraseologia da bar, quando si vuole parlare male di qualcuno. Anche se solo Simon può permettersi insulti d’autore, preconfezionati – fino al 2014 erano appositamente curati dal ghostwriter Max Clifford, uno degli insider più influenti dello showbiz britannico, travolto dallo scandalo dell’Operazione Yewtree, la stessa che ha rivelato le prodezze pedofile di Jimmy Savile, e in coincidenza del quale messo immediatamente alla porta da Cowell.
E’ difficile farsi un’idea neutrale su questo venditore di elisir, a meno di non allinearsi con il suo punto di vista, ovvero quello del business. Se siete appassionati di musica, se gli spettacoli tv toccano le vostre emozioni ingenue, quest’uomo corrisponde alla definizione che gli ha dato il venerabile settimanale rock britannico New Musical Express: “Il Grinch”. Che appare congruo, quando dall’alto del suo conto in banca da Paperone dello showbiz inglese, Simon confessa: “Quanto alla musica, sono poco informato e non la prendo troppo seriamente. Leggo solo i magazine che parlano di auto”. Oppure: “Sono stato solo una volta a un concerto rock, in un localetto sporco dove suonavano gli Stranglers. Quella sera mi sono detto: questa roba non fa per me”. Ai giornalisti che lo accusano d’influenzare negativamente l’ambiente musicale risponde: “Non è la gente come me, che ha questo potere. E’ il pubblico, che compra i dischi che gli piacciono. Se sono brutti, si chiama democrazia”. Cowell è anzi fermamente convinto che “X-Factor” sia un bene: “L’industria musicale era in un declino spaventoso. I miei talent show hanno avvicinato di nuovo il grande pubblico alla musica e l’hanno convinto a ricomprare dischi. Una ripartenza del genere era invocata da anni”. Difficile contraddirlo, per esempio considerando l’andamento delle cose in Italia.
“X-Factor” oggi comanda, impone, orienta i gusti del pubblico. Al confronto il Festival di Sanremo è un cadavere. E gli altri spettacoli televisivi sono imitazioni mal riuscite o residui di un passato lontano. E comunque Cowell non è in missione per conto della musica: come dicevamo, ci lavora, perché ci ha trovato un terreno fertile per le sue intuizioni. Ma non è questione di passione: è questione di format.
Quando David Cameron ha parlato bene di lui, Cowell ha ricambiato i complimenti e, da consumato kingmaker, ha reso pubblica la sua stima nei confronti del primo ministro. Oggi una benedizione di Cowell ha il suo valore anche sul piano politico, perché i rotocalchi sapranno farne buon uso. David & Simon a braccetto: Britannia 2.0. Del resto non sbagliare una mossa per Cowell è una sfida, perché se ha una debolezza è quella di sentirsi presentare come il tipo più in gamba in circolazione, negli ambienti che rientrano nei suoi interessi. Sul lavoro, è maniacale. Quando è in scena, ad esempio, non gli importa che ogni suo gesto dia la sensazione d’essere artefatto, perché sa che questi sono ragionamenti da addetti ai lavori: il vero pubblico lo guarda con altri occhi, quelli di chi vuole divertirsi e scordare i propri guai. E lui è un intrattenitore vero, sa dove colpire, conosce la psicologia del pubblico e non fa niente che non abbia un effetto immediato, che non coinvolga, che non generi interesse. Il resto è superfluo, è anti tv. Niente è lasciato al caso: la sua abbronzatura, ad esempio, sempre mirabile, mica affumicata come quella di Carlo Conti. Certo, vistosa, per un osservatore più raffinato. Ma, invece, invidiabile, dal punto di vista della maggioranza. Come il suo look inconfondibile (copiatissimo e parecchio coatto) con le magliettine col collo a V. Cowell è attento ai particolari. E, soprattutto, gli preme gestire la temperatura emotiva dei suoi show che, in una cornice d’intrattenimento, devono contenere i giusti dosaggi di sentimenti estremi, ovvero un bel po’ di sprezzante crudeltà verso chi ha osato esibirsi senza avere le carte in regola e poi il commosso entusiasmo che fa scattare in piedi i giurati davanti al nuovo predestinato, a cui promettere un futuro dorato. Promettere e distruggere. Sadomasochismo di prima serata, applicato ai sogni di quelli che ci provano. Una formula micidiale, di questi tempi. L’intuizione di applicarla alla tv, rende Cowell un gigante della comunicazione, per quanto la cosa faccia impazzire i suoi detrattori. La cultura globale è stata destabilizzata dalla sua invenzione: un luogo televisivo dove in due minuti i sogni possono avverarsi (o spezzarsi). Mettendo in scena l’apice emotivo della commedia umana.
[**Video_box_2**]Dunque, perfezionismo del prodotto e calcolo del tornaconto. Messo a punto il meccanismo del talent show, Cowell è andato oltre, producendo il capolavoro, in termini di spettacolarizzazione tv: ha trasformato l’idea di giuria e di giudizio, in un prodigio ingegneristico dell’intrattenimento. Mettendosi in gioco in prima persona e creando quel personaggio ad hoc, interpretato con convinzione. E’ diventato Mr. Nasty, oppure Sarcastic Simon. Quello che dice ai concorrenti: “Cambia mestiere”, o che confessa che non vorrebbe essere cattivo ma “è nella sua natura”. Arrogante, insultante, smaccatamente narciso (“Quale accessorio porterei su un’isola deserta? Uno specchio. Sennò sentirei la mia mancanza”), massacratore delle ambizioni altrui, spesso a ragione. Col suo personaggio Cowell ha creato un genere, cinico e spettacolare che, grondando perversione, raccoglie un gradimento straordinario e intercetta la voglia di transfert del pubblico. Lui è quello che non fa moine, che premia solo chi ha motivazioni e capacità e che distribuisce, per conto degli spettatori, quelle stesse umiliazioni con le quali loro quotidianamente sono abituati a fare i conti. Un giudice, no? Il sottotesto psicanalitico dei talent è fondante: non conta chi vince e quale sarà il suo futuro – nella maggioranza dei casi dimenticabile. Conta il “drama”, la messinscena, virulenta quanto basta. Gli eroi sono i giudici, non i concorrenti. Perché loro restano e la loro licenza di decidere del destino altrui, li colloca nell’unica sfera sacra che conti in tv: il successo. Accertato, praticamente classico. Per Cowell, assortire la giuria giusta, che contenga ciò che il suo pubblico può desiderare d’amare o d’odiare – sex appeal, competenza, ironia, eleganza, perfidia – è un’ossessione: per “X-Factor Usa”, al suo fianco ha chiamato il leggendario produttore nero L. A. Reid, la fedelissima Paula Abdul, l’ex teenstar Britney Spears e la teenstar più recente Demi Lovato. Ad “American Idol” ha arruolato Ellen DeGeneres, Jennifer Lopez, Mariah Carey, Nicki Minaj, Harry Connick, jr e perfino un resuscitato Steven Tyler, il cantante degli Aerosmith. Quasi sempre scelte perfette.
Time nel 2004 e nel 2010 lo ha messo nella lista delle cento persone più influenti del mondo. New Statesman lo colloca alla 41esima posizione tra le persone che contano. Tv Guide lo classifica la decima persona più cattiva di tutti i tempi. People lo nomina l’uomo più sexy in circolazione. Nel corso delle selezioni dell’edizione 2010 di “X-Factor UK”, è di Cowell l’idea di radunare in un unico gruppo cinque solisti che non erano riusciti a qualificarsi per la fase finale. Gli trova anche il nome e, in quanto curatore della categoria “gruppi” di quella stagione, li guida al terzo posto finale. Poi li mette sotto contratto con la sua Syco e aspetta che i social media facciano il resto. Il fenomeno planetario degli One Direction, la boy band più famosa del mondo, decolla subito: regia di Simon Cowell. Un’altra dimostrazione di un intuito formidabile? L’istintivo sostegno offerto, fin dalla prima sconcertante apparizione, a Susan Boyle, l’ultraquarantenne scozzese con problemi psichiatrici, divenuta una celebrità istantanea e un caso artistico internazionale poche ore dopo la sua indimenticabile esecuzione dell’adagio dei “Misérables”. Mentre gli altri giudici preparavano la pantomima sardonica per mettere alla berlina la malcapitata, Cowell d’istinto scatta in sua difesa, chiede pazienza, propone di darle una chance. In sostanza prepara la strada al suo trionfo. La Boyle, ancora oggi, in ogni intervista non dimentica mai di citare quell’episodio e quell’inattesa alleanza come l’inizio del suo sogno.
L’impero ormai è colonizzato. La ricchezza di Cowell è stratosferica. Ha messo anche su famiglia, lui scapolo impenitente (ovviamente fregando la moglie a un amico), ha avuto un figlio, lui che dichiarava che i bambini sono i carcerieri della libertà. Ha la sua impressionante collezione di auto, si diverte a fare l’ospite nei programmi di tuning che piacciono tanto a lui e ai meccanici, vive in una mansion a Beverly Hills. Quando è in scena, guadagna 22 mila dollari al minuto. Diciamo che è appagato. Il problema è che ormai è in gioco. Gli viene attribuita una posizione sacerdotale, per quanto riguarda la previsione dei futuri scenari tv. Fin qui ha dimostrato che ci vuole progetto, pianificazione e molta disinvoltura per conquistare il mercato, anzi tutti i mercati del mondo, che adesso versano disciplinatamente l’obolo sul conto delle sue compagnie. Ma Cowell sa che le cose cambiano. Che i gusti del pubblico sono soggetti a slittamenti impercettibili, che di colpo diventano torrenziali. Che bisogna decifrare, prevedere e scommettere. Perciò si è fatto le sue idee e in minima parte, giusto il necessario per provocare curiosità, è disposto a indicare il futuro dei format.
Capita, per esempio, di sentirlo parlare di qualcosa che si chiamerebbe “Keep Your Dog Alive”: al primo momento verrebbe da sbarrare gli occhi, se non che siamo abituati a tutto, quando si ragiona di tv. Una competizione tra proprietari di cani, per un premio ambitissimo: la clonazione dell’adorato cucciolotto. La riproduzione conforme, quando verrà il momentaccio del congedo. Cowell spiega che non si possono chiudere gli occhi di fronte a certi segnali: per esempio il fatto che i social network siano ingorgati dalle immagini di milioni di gatti e cani, immortalati più spesso e affettuosamente dei nostri amici e dei nostri amori. “In tv non ci vuole snobismo: bisogna puntare al bersaglio grosso. Se lì ci sono cani e gatti, cani e gatti siano”. Se le avventure dei quadrupedi sono i blockbuster di YouTube, allora vanno portati dritti in tv, mettendoli al centro del dibattito sull’immortalità, della lacrimevole storia del fedele compagno che muore e rinasce (happy ending), ma anche di quello che, per un’incollatura, finirà sottoterra come un Fido qualsiasi. “Crossover tra talent show e YouTube” promulga Simon Cowell, con la solita piega sardonica all’angolo della bocca. Dice che intravede una cascata di diamanti dietro questo filone. Ma non sarà che ci prende in giro, con questa storia dei cani clonati? E che stasera, fumandosi una delle sue disgustose sigarette al mentolo, la racconterà agli amici miliardari, mentre se la spassano con l’aperitivo a bordo piscina?
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