Picciriddu a chi?
Controllo, tocco, cura del pallone, dribbling e uso del corpo. A Palermo (e in mezza Europa) sono pazzi di Dybala. La rivincita dei piccoletti passa da lui.
E’ come difende il pallone che lo rende diverso. Copre col corpo, protegge usando i gomiti, la schiena, il sedere: provate a prenderlo. Poi lo tocca, lo cura, lo isola. La palla lì, l’avversario alle spalle: dài, vieni avanti che ti salto. E lo salta. Paulo Dybala è più di un tiro a giro all’incrocio dei pali, più di un dribbling e di un diagonale rasoterra. Quello è la fine, ma la stoffa viene qualche momento prima. Il talento originario è nell’idea della proprietà del pallone: se ce l’ho io tra i piedi è mio.
Sessantacinque chili ne fanno un ramoscello in uno sport di tronchi. Però a Dybala non gliela togli se sei più pesante, più robusto, più grande. Perché usa il corpo come può, ma soprattutto perché usa il cervello come si deve. Un istante prima degli altri, con quella capacità di prevedere il movimento altrui e di neutralizzarlo. Un attaccante esile vive di quello, della rapidità dell’idea prima che della rapidità delle gambe. “Dybala è un giocatore che è due pagine avanti nel manuale del calcio”, dice di lui Gennaro Gattuso che l’ha allenato per qualche mese.
Essere avanti due pagine significa avere una tecnica consolidata che ti garantisce la tranquillità di giocare con la testa. Perché se non devo pensare a migliorare lo stop, il passaggio, il lancio, il tiro, posso concentrarmi su ciò che sta alla base del successo di un giocatore: sapersi muovere nello spazio e nel tempo. Dybala sa stare al mondo e quindi in campo. Si muove, viene incontro ai centrocampisti, si gira e va in profondità, si tiene un passo dietro la linea del fuorigioco, sente l’avversario alle spalle e lo gestisce. Gioca senza palla. Quindi gioca davvero. Poi gliela danno: undici gol in venti partite. Il numero è enorme, la media è impressionante, ma non è l’unica cosa notevole. E’ il terzo giocatore del campionato per numero di dribbling, dietro all’interista Kovacic e al compagno di squadra Franco Vasquez. E’ soprattutto l’attaccante del campionato italiano in grado di recuperare più palloni: una media di 3,17 a partita, quando la media-gara del ruolo è di 2,04.
Dybala è ciò che non pensavamo di avere. Siamo stati una vita a raccontarci che l’Italia riusciva a comprare solo giocatori già affermati: li strapagava e li portava qui. Non eravamo capaci di scegliere giovani forti da allevare, crescere e trasformare in pezzi da mercato. Pogba alla Juventus e adesso Dybala al Palermo dicono il contrario: a 21 anni Paulo ha una quotazione di 30-35 milioni. Zamparini ne chiede 40 per venderlo a giugno, solo dopo che avrà firmato il contratto di rinnovo con il Palermo. Dicono che andrà all’Arsenal. Dicono. E lui? “Io con quei soldi mi comprerei il mondo. Non sono molti i giocatori che valgono tanto e io oggi sicuramente non sono tra questi. Ma il presidente mi vuole bene e poi, si sa, quando gli mettono un microfono davanti alla bocca a lui piace parlare. E se le cose girano nel verso giusto, come in questo momento, anche di più”.
Ora sta qui, cioè lì, ovvero in Sicilia, dove l’hanno pagato 12 milioni (non poco), tra molto entusiamo e molto scetticismo. I critici dicevano quella cosa lì: è gracile. Picciriddu, l’hanno chiamato a Palermo. Perché ha la faccia imberbe e da ragazzino e perché a dispetto di un metro e settantasette di altezza appartiene alla categoria dei piccoli. E i piccoli nel calcio, o li ami, o li detesti. Ci sono allenatori che chiedono ai presidenti e ai direttori sportivi di non comprare nessuno sotto il metro e ottanta. Ci sono stati anni in cui essere fisicamente contenuto significava non avere chance, poi il Barcellona ha cambiato un sacco di cose. I piccoli sono rinati, lì come altrove. Il baricentro basso, dicono. Le gambe non troppo lunghe, l’agilità, i movimenti più fluidi: il minicalcio s’è preso la sua rivincita. Pepito Rossi per l’Italia, l’intero Barcellona per il resto del mondo. Messi, Iniesta, Xavi, David Villa, Pedro: nessuno supera il metro e settantacinque. Sotto l’altezza media di Spagna, Italia ed Europa a un certo punto c’è stato il futuro prossimo del calcio globale. Palla a terra, per favore. L’èra in cui la testa sconfigge il corpo, dove l’intelligenza è più importante della forza. Il miniclub del pallone si specchia nella società e ribalta stereotipi e complessi. La bassezza non è un problema in mezzo al campo: non lo è mai stata, ma per tutto un periodo il calcio ha inseguito il mito dell’atleta perfetto. Voleva la forza, voleva la potenza, voleva la prestanza, voleva i muscoli.
Eccolo il momento, forse più di uno, in cui c’erano allenatori che si presentavano dai direttori sportivi e dicevano quella frase lì: “Non prendermi nessuno sotto l’uno e ottanta”. Ci sono ancora, solo che i Rossi d’Italia, il Barcellona e ora i Dybala li riducono a personaggi da film. Non è bastato né Matthäus, né Sivori, né Maradona, né Baggio: la colonna vertebrale della storia del calcio è fatta da nanerottoli che in troppi hanno voluto vedere come eccezioni. Girava questa storiella: “Di piccoletti ne puoi avere uno solo in campo”. Il Barça ha ribaltato la prospettiva, l’attacco della Nazionale che a un certo punto ha avuto Pepito e Cassano e Giovinco è stato lo sviluppo più vicino a noi dello stesso concetto: basso è bello, basso è vincente.
Via i profeti della prepotenza fisica come base per arrivare al successo: Van Basten e poi Zidane per motivi diversi e per situazioni diverse avevano convinto generazioni intere che l’eleganza e la classe si misurassero col metro. Solo che Marco e Zizou sono stati delle eccezioni straordinarie. I centimetri tolgono, invece di dare. Offrono una soluzione, ma non sono la soluzione. Palla a terra, di nuovo. Perché questo è il modo di giocare che funziona adesso, dopo aver funzionato tante altre volte. Ciao pregiudizi e ciao postgiudizi. Ci inebriamo della agilità e della rapidità di Dybala, adesso: uno-due, tiro e poi gol. Che c’è di più bello? La semplicità è la riserva infinita del calcio. Paulo e la sua storia sono il paradigma del pallone del momento: veloce, intelligente, risoluto. Si può essere grandi avendo 21 anni e la faccia del ragazzino. SportWeek gli ha chiesto quand’è l’ultima volta che s’è sentito bambino: “Non è facile rispondere. Forse quando ho esordito a 17 anni nell’Instituto de Córdoba, dove ho iniziato a giocare. Era il 13 agosto di tre anni fa. Di quella partita contro l’Huracán ricordo tutto: nel pullman che ci portava al campo ero rimasto in disparte e in silenzio. Avevo mille pensieri. L’esordio era arrivato inatteso, fino a pochi giorni prima stavo coi miei coetanei delle giovanili e ora venivo schierato in prima squadra, con giocatori abituati a un calcio che non era il mio. Ma nello spogliatoio ognuno di loro mi si avvicinò per farmi coraggio: chi con una parola, chi soltanto stringendomi il braccio o con una pacca sulla spalla. In campo, poi, la prima palla toccata fu un passaggio giusto a un compagno: come per magia, da quel momento ansia e palpitazioni scomparvero. Vincemmo 2-0. L’esordio perfetto. Fuori dal campo mi sento bambino quando sono con mia madre. Sono il più piccolo di tre fratelli e lei mi coccola come se avessi ancora dieci anni. Mi accompagna all’allenamento, mi prepara i piatti che mi piacciono…”. Altra domanda: l’ultima volta che invece l’hanno trattata da bambino? “E’ successo ancora ai tempi dell’Instituto. Nella serie B argentina il calcio è un mestiere come un altro, un mestiere che ti permette di mantenere la famiglia. Non c’è ricchezza, solo sudore e sacrificio. Io ero arrivato in prima squadra e tutti si aspettavano che mi comportassi come gli altri: da uomo e da professionista. Una sera invece uscii a mangiare con la mia famiglia e tornai nella pensione del club, dove vivevo, non alle dieci e mezza, limite massimo per la ritirata, ma passata la mezzanotte. Il giorno dopo, prima dell’allenamento, il direttore sportivo mi parlò con un’asprezza che mai più nessuno si è permesso. Ma quel giorno ho capito come si fa questo lavoro”.
[**Video_box_2**]Dybala è un talento costruito. Contemporaneo. Non è nato per strada, ma nelle scuole calcio. E’ la dimostrazione che la classe si può allevare e si può gestire. E’ la certezza che se ti creo giocatore posso usare anche le tue imperfezioni fisiche come risorsa. Se ti insegno a giocare in un campo posso tagliarti addosso il tuo futuro. E’ così che non serve essere giganti per essere sportivi. E’ così che non è obbligatorio essere colossi per essere atleti. Dybala corre, gioca, tira, segna. Dybala, soprattutto, difende la palla. Eccola, di nuovo la cosa che lo rende diverso. Non nuovo, ma diverso, perché gli allenatori che non amano i piccoletti sostengono che il fisico brevilineo non consenta loro di essere presenti sul pallone: nei contrasti, nelle giocate, nel dribbling. Molti bassi sono così, effettivamente. Prendi Giovinco: veloce e tecnico, ma incapace di difendere il pallone. Salendo di livello, anche Neymar è così: fortissimo a dribblare, sempre un passo avanti all’avversario, ma inadeguato se c’è da proteggere la palla. Paulo è diverso, però. C’è un’azione che lo testimonia più di altre: con la Lazio, a Palermo, a un certo punto prende palla nella sua trequarti e corre per sessanta metri fianco a fianco ai difensori laziali, tutti dieci-quindici centimetri più alti di lui, tutti dieci-quindici chili più grossi di lui. Ma resiste, li fa impazzire, li domina. Non basta? Allora Milan-Palermo, azione del primo gol: duello con Zapata, spalla contro spalla, gamba contro gamba. A terra finisce il più grosso, Paulo resta in piedi e fa gol. C’è il tocco, la finta, l’altro tocco, ma anche la spallata, il piede che copre il pallone. Uno spettacolo che vale più di molte altre cose. Perché è classe, è talento. E’ semplicemente calcio.
Il gioco più comune di questi tempi è chiedersi a chi assomiglia. Tévez, hanno detto. Paragone che non lo convince: “Faccio prima a dirle quelli che mi piacciono, sono quelli che schiero sempre alla PlayStation: Messi, Ronaldinho e io in mezzo”. Niente, Tévez. Allora Montella, hanno detto. Anche Signori. Pure Pastore. Tecnicamente e calcisticamente c’entrano zero. Li unisce l’Argentina, li unisce Palermo. Ecco, Javier è un altro di quelli che il pallone non sa difenderlo. Ancora un altro tipo calcistico e umano. Uno che bisogna vederlo dal vivo per capirlo meglio. Perché Pastore è uno che a volte gioca la partita perfetta senza neanche fare un dribbling o un tiro in porta. Non ha bisogno dell’uno contro uno, del tocco, del gol. E’ la differenza che passa tra un regista e uno sceneggiatore. Il primo è la star, riesce a rendere magico un film con una inquadratura, con un colpo da maestro, con una scelta di classe. Il secondo può essere invisibile e sconosciuto, ma creare il testo perfetto e i dialoghi più belli della storia del cinema. Pastore a volte, lo devi seguire con una telecamera vera o immaginaria piazzata in testa: perché magari non è un tocco che fa la differenza, ma un movimento, magari con la palla lontana. Forse per questo l’avevano accolto con un po’ di diffidenza, a Palermo: ovvio, vogliono tutti il funanbolo irresistibile, vogliono tutti il dribblomane scatenato. Poi l’hanno visto una partita per volta e hanno capito di avere in mano un gioiello. “Tu il nostro Pastore, noi il gregge”, diceva uno striscione esposto a Praga durante una partita di Europa League.
Poi è arrivato Dybala e hanno avuto ciò che in fondo desideravano da un sacco di tempo. Gioiello pure lui, se è vero che il soprannome pre-Picciriddu era la Joya. Gioiello più puro, probabilmente. Perché Dybala è la giocata. E’ il dribbling, è il tiro, è il tunnel, è lo stop al volo. E’ il sinistro, il destro, il colpo al volo. E’ lo spettacolo riconoscibile. C’è tutto ciò che abbiamo detto prima, a monte: la capacità di stare in campo, la fondamentale abilità di non farsi togliere il pallone, la bravura di giocare negli spazi con il tempo giusto per evitare il fuorigioco. Però poi alla fine arriva ciò che il pubblico s’aspetta: lo stop di sinistro al limite dell’area del Genoa, a Marassi, il tocco d’esterno a rientrare, il dribbling sul difensore, il tiro a giro sul secondo palo. Meraviglioso. A Perin, ovvero al miglior portiere del calcio italiano del futuro. Gioca di spalle, gioca di fronte, gioca di prima, gioca tenendo il pallone. Gioca per sé, gioca per gli altri, gioca con gli altri. Gioca, Dybala. Sempre e comunque. Bisogna soltanto guardarlo, bisogna soltanto goderselo. Veloce, tecnico, intelligente, utile. Quanto durerà in Italia? Il tempo necessario per venderlo bene. Trenta, trentacinque, quaranta milioni. Poi lo vedremo altrove, fare le stesse cose: il dribbling, il tiro, il tunnel, lo stop al volo, il sinistro, il destro, il colpo al volo. La protezione della palla, con quel sottotesto che non c’è ma si vede: prendetela. Un peccato? Sicuro. Ma non c’è strada diversa dalla felicità di essere stato chi l’ha scoperto. Palermo ha il suo fenomeno: lui, con Vásquez come spalla, realizza sogni propri e di una città. Si gode con gente così, anche se sai che dura poco. Palermo saprà sempre di averlo allevato, questo non potrà negarlo nessuno. Non è una consolazione, è una medaglia.
Il Foglio sportivo - in corpore sano