Il presidente del Consiglio Matteo Renzi (foto LaPresse)

Cosa resta dopo il Nazareno

Salvatore Merlo

Come il partito personalizzato si è mangiato i partiti personali. Il declino dell’originale, del calco, del modello carismatico e la nascita di un nuovo modello. Da Renzi al Cav. - di Salvatore Merlo

Nella solitudine di Mario Monti, rimasto l’unico senatore di Scelta civica a Palazzo Madama, nel grigio crepuscolo di quella scintilla tecnocratica che sotto il nome del professor Monti, più grande e più simbolico del simbolo stesso, aveva raccolto consensi e attenzione alle elezioni di febbraio 2013, prende forma, e si fa carne e sangue, la crisi del partito personale, l’istituto che ha travolto le consuetudini e i codici della Prima Repubblica, e caratterizzato la politica italiana degli ultimi vent’anni. C’erano una volta i congressi e le tessere, le mozioni e i voti, le grandi tradizioni culturali della democrazia liberale europea, c’erano insomma la Dc e il Pci, il Psi e il Pri: cattolici, socialdemocratici, repubblicani, liberali, grisaglie e cravatte, codici e riti, c’erano insomma una volta leader grigi e insondabili agli occhi del comune cittadino di terra ferma, tanto inafferrabili al punto che Bettino Craxi, con il suo piglio moderno e l’aria del decisore, lui che pure di tessere e congressi al Midas ancora viveva, era rappresentato nelle vignette con gli stivali di Mussolini: leader carismatico, quasi un dittatore. Guai. Venne poi improvvisa Manipulite, come si dice a far piazza pulita, e con le manette e i giudici di Milano sulla confusa politica italiana planò anche Forza Italia, piazzata sul mercato elettorale dal suo sorgivo creatore come una scatola di pelati negli scaffali di un supermercato Standa. Il partito non partito, “il nulla, il nulla, il nulla”, diceva Romano Prodi, il movimento politico – fondato sui club e non più sulle sezioni – tutto risolto e compreso nella figura eccezionale e problematica del suo capo insostituibile ed eterno, unto nel consenso televisivo, Silvio Berlusconi. E da quel momento in poi, dalla nascita di Forza Italia, ogni cosa è cambiata: via i partiti, dentro i leader, con i loro nomi nel simbolo, tutti a rimpicciolire le sigle e a ingrandire i cognomi: Fini, Casini, Orlando, Di Pietro… Ebbene quell’epoca sembra adesso finita. Ed è negli occhi nemmeno troppo afflitti di Monti a Palazzo Madama che oggi si specchia conclamata la crisi del modello che tanta fortuna ebbe in Italia. Finisce “Scelta Civica-Mario Monti”, come prima ancora era finita “Idv - Antonio Di Pietro”, “Rivoluzione Civile - Antonio Ingroia”, “Udc - Pier Ferdinando Casini”, “An - Gianfranco Fini”… Persino “Forza Italia - Berlusconi presidente” oggi non se la passa tanto bene. E non è un caso.

 

Il declino dell’originale, del calco, del modello carismatico e gommoso, del partito di plastica che tanti lutti addusse alle regole labirintiche e polverose della partitocrazia, sebbene anticipato dalla caduta delle mille imitazioni, segna forse la fine dell’epoca, con il sorgere d’un modello anfibio, ibrido, strano, ancora da identificare: il Partito personalizzato (non il partito personale) di Matteo Renzi. Ed ecco dunque il Pd, che il Rottamatore avrebbe potuto frantumare, consegnare allo sfasciacarrozze per venirne fuori con un PR (partito Renzi, lista Renzi, Renzi presidente, fate voi), che invece sopravvive e anzi s’ingrossa. E non s’ingrossa malgrado Renzi, ma al contrario, per quanto ciò possa apparire a prima vista paradossale, cresce grazie al tratto esuberante, determinato, egoticamente ipertrofico della personalità debordante del suo carismatico leader. E dunque Renzi rottama la guida del partito, ne prende con forza le redini, impone un ricambio di facce e personale politico, ma non rottama il partito, au contraire, ci naviga dentro, come un Transatlantico nel golfo di Venezia: modifica irrimediabilmente il paesaggio, per qualcuno lo deturpa, ma rispetta le proporzioni e le regole di navigazione, con bullismo da nave oceanica, ça va sans dire. Dunque niente nome nel simbolo, ma tante assemblee, primarie, vivace dibattito interno coi Civati e i Mineo, i Fassini e i Damiani, le Bindi e i Cuperli, mezzi scissionisti e quasi comunisti, cigiellini e veterodemocristiani, tutto un marasma d’opinioni, battibecchi, precisazioni, divergenze, asimmetrie, paralogismi, incasinamenti inebrianti come ormai non se ne vedono più nemmeno nelle riunioni dell’internazionale socialista di Marco Ferrando e Paolo Ferrero. Poi chissà, eh.

  • Salvatore Merlo
  • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.