No all'Expo dei luoghi comuni
Tutto quel che sul cibo non vi diranno Lula, il Papa o Carlìn Petrini. L’economia “che uccide” sfama 5,5 miliardi di persone in più che nel 1950 e il “diritto al cibo” in Costituzione. Il problema degli sprechi, invece, è serio, anche se va letto nella sua complessità.
Roma. Sei miliardi (e spicci) di persone. Sono loro, più che i contadini evocati da Carlìn Petrini, i grandi assenti di Expo 2015, almeno a giudicare dalle chiacchiere e dai luoghi comuni del giorno della presentazione ufficiale. Sono i sei miliardi di persone – su un totale di 7 miliardi di abitanti – che oggi hanno cibo a sufficienza, quando nel 1950 la Terra era in grado di produrre cibo appena per un miliardo e mezzo di persone, su una popolazione complessiva di due miliardi e mezzo. Dimenticati innanzitutto da Papa Francesco che in un videomessaggio manda a dire che questa economia uccide.
Sostiene il Papa che oggi viviamo “il paradosso dell’abbondanza”, per il quale ci sarebbe abbastanza cibo per tutti, se solo ne sprecassimo meno. Evocazione suggestiva, per quanto non troppo originale. Ce lo siamo sentiti raccontare tutti, il paradosso dell’abbondanza, fin dalla più tenera età: “Finisci di mangiare quel che hai nel piatto! Non pensi ai bimbi che muoiono di fame?”, laddove il paradosso era più che altro nella pretesa che un bimbo africano potesse beneficiare della destinazione della mia scaloppina. Starà meglio, mi chiedevo, dopo che l’avrò mangiata tutta?
Il problema degli sprechi, invece, è serio, anche se va letto nella sua complessità. Sprechiamo una percentuale di cibo che varia dal 30 al 50 percento. La forbice è ampia, segno della difficoltà di definire cosa sia “spreco” e cosa no, e poi di misurarne la quantità, ma le cifre sono comunque enormi. La cosa sorprendente però è che la percentuale di cibo perso e sprecato è sostanzialmente la stessa, tanto nei paesi in via di sviluppo che nel ricco occidente. C’è una sottile ma sostanziale differenza tra cibo perso e cibo sprecato. In occidente sprechiamo vicino al piatto. E’ una cosa che ha a che fare con le norme sulla sicurezza alimentare che ci imponiamo e con le nostre abitudini individuali, sulle quali difficilmente le prediche del Papa potranno avere effetti sostanziali. Nei paesi poveri, invece, gli sprechi (sarebbe meglio parlare di perdite, in questo caso) avvengono vicino ai luoghi di produzione: raccolti non sufficientemente difesi dai parassiti, che spesso vengono perduti per intero, assenza di strutture di stoccaggio, trasporto e confezionamento adeguate, tutti i sintomi, per capirsi, di economie arretrate basate soprattutto su quell’agricoltura di sussistenza tanto cara ai pauperisti alla Slow Food, quelli per cui si stava sempre meglio quando si stava peggio. Ma è proprio qui che la tecnologia, l’innovazione e il mercato (l’economia che uccide, per capirsi), possono fare la differenza, come l’hanno fatta finora per quei miliardi di persone che non sono certo state sottratte alla malnutrizione dalla frugalità altrui.
Anche il presidente brasiliano Lula sostiene che ci sia già abbastanza da mangiare per tutti, anche se quest’idea viene declinata in maniera differente dall’ex presidente operaio brasiliano. “Abbiamo scoperto che il problema della fame non è la mancanza di cibo, ce n’è in abbondanza, ma c’è chi non ha la possibilità di comprarlo”, ha detto, in collegamento dal Brasile. Se è vero che il problema del cibo è prima di tutto un problema di reddito, è invece drammaticamente falso che ci sia cibo per tutti. La crescita vertiginosa nell’ultimo decennio di molti paesi, tra i quali proprio il Brasile di Lula, ha messo sotto stress il mercato delle materie prime agricole. Nel 2008 e nel 2011 l’impennata dei prezzi delle principali commodities agricole – in qualche caso sono raddoppiati – segnalava proprio il problema opposto: c’era più denaro che cibo. L’alternativa, ancora, è tra produrne di più e consumarne di meno.
Sostiene il Papa, poi, che il problema sia la solita speculazione finanziaria, tema caro ai protezionisti di tutto il mondo: i famigerati futures sulle materie prime agricole, che secondo molti sarebbero l’origine prima della volatilità dei prezzi del cibo e, a catena, delle crisi alimentari. Una vecchia storia, nella quale però nessuna evidenza ha mai supportato gli allarmi ideologici: chi scambia futures non acquista né vende “fisicamente” nemmeno un sacco di grano, limitandosi a scommettere sul suo prezzo. Come chi scommette sui cavalli non può determinare l’esito della corsa, sono gli scambi fisici, la produzione reale, i consumi reali, la consistenza reale delle scorte a influire sul prezzo del cibo. Oltre naturalmente alle barriere al commercio internazionale che sono i governi, non i mercati, a mettere in piedi. L’andamento dei futures fornisce piuttosto informazioni sull’andamento del mercato “fisico”, ne prevede le oscillazioni, ma non le determina. Ma anche questo della speculazione è un evergreen dei luoghi comuni sul cibo, e non poteva mancare nella giornata in cui si mettevano in campo “le idee di Expo”.
[**Video_box_2**]Per non parlare (e ne ha parlato infatti il presidente della Repubblica Mattarella) della diseguaglianza tra paesi ricchi e paesi poveri, che diminuisce costantemente, e mai come oggi è diminuita tanto rapidamente.
Non può mancare il padrone di casa, il ministro dell’Agricoltura Maurizio Martina, che vorrebbe che il diritto al cibo venisse scolpito nella Costituzione: “Ad oggi sono 23 i paesi che hanno in Costituzione questa voce, dal Brasile all’India al Messico: nessun paese europeo tra questi”, scandisce al Corriere. E chissà se si è chiesto se questo “diritto al cibo” venga garantito di più e meglio nei paesi europei, che in Costituzione hanno dimenticato di scriverlo, o in Brasile, India e Messico. Il tutto, paradossalmente, mentre vieta in Italia proprio le tecnologie che permetterebbero di produrre più cibo a minor costo, tecnologie che infatti dall’Expo sono state tenute accuratamente lontane. Ma non importa, è l’Expo delle chiacchiere e dei luoghi comuni, e siamo solo all’inizio, ne sentiremo ancora delle belle. Vandana Shiva, per esempio, non ha ancora detto la sua.
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