Vladimir Putin (foto Reuters)

Occhi negli occhi con Putin

Paola Peduzzi

Altri civili uccisi in Ucraina, ma guai a chiamarla guerra, non si sa nemmeno chi attacca e chi si difende. E’ così che la Russia vince.

Milano. A Minsk l’occidente torna a guardare Vladimir Putin negli occhi, quegli occhi che a George W. Bush bastavano per intravvedere l’anima del capo del Cremlino e che oggi, ai più, sono incomprensibili. Alcuni ambienti vicini al Pentagono si sono convinti – complice un report elaborato nel 2008 dall’Office of Net Assessment, un think tank interno al ministero della Difesa istituito da Nixon – che Putin soffra “con tutta probabilità” della sindrome di Asperger, imparentata con l’autismo. Nel documento ci sono dettagli sfiziosi – anche se non si sa quanto rilevanti, tipo il fatto che Putin da piccolo non gattonasse e che lo sguardo di ghiaccio ce l’ha da sempre – ma la considerazione centrale è che “la principaleforma di compensazione” della sindrome “è il controllo estremo”. L’autocrazia non è quindi colpa di Putin, è che lo disegnano (pure un po’ malato) così. E’ difficile immaginare come questa analisi possa aiutare l’occidente a trovare una strategia nei confronti della Russia putiniana, ma fa capire bene quanto lontani siamo dalla soluzione di un conflitto che, di accidente in accidente, di cessate il fuoco violato in cessate il fuoco violato, è diventato enorme. “La minaccia più grave che deve affrontare oggi l’Europa”, la definisce, parlando al telefono con il Foglio, Anne Applebaum, l’autrice di quel libro tragico e meraviglioso che è “Gulag: a History”, oggi nota e spietata commentatrice dei fatti russi e dell’Europa dell’est. Dovendo definire Putin con tre parole, la Applebaum dice senza esitazione: “Pericoloso, instabile, imprevedibile”. Come si fa allora a negoziare con lui, in queste ore in cui i filorussi fanno stragi di civili lanciando i missili nell’est dell’Ucraina? Bisogna partire dall’inizio, dalla gestione di quest’ultimo anno di accordi e combattimenti: il 21 febbraio del 2014 sembrava che la frattura tra la piazza del Maidan di Kiev e il regime di Yanukovich si potesse ricomporre. Yanukovich firmò un patto con l’opposizione rinunciando ad alcuni poteri e acconsentendo a un governo di unità nazionale – ma la Russia di Putin, che pure aveva inviato un suo emissario (il delegato per i Diritti umani!) come testimone assieme a molti paesi dell’occidente, non appose la sua firma. E’ questo il primo accordo-non-accordo che spiega la strategia russa.

 

Nelle guerre solitamente c’è chi attacca e chi si difende. Nel conflitto ucraino è complicato persino fare questa premessa iniziale, perché questa è una guerra che non si deve chiamare guerra, perché è ibrida, perché non è dichiarata, perché è avvolta nella propaganda e nel non detto: è una guerra fantasma eppure combattutissima, contraddizione mortale, che ha fatto in meno di un anno più di cinquemila morti e circa un milione e mezzo di persone costrette a lasciare le loro case e spostarsi in zone dove non si combatte – i rifugiati nel cuore dell’Europa. Tutti si sentono sotto attacco, tutti si difendono.

 



 

Putin dice che l’occidente non ha rispettato i patti, sta allargando i poteri e la forza della Nato costringendo così i paesi a scegliere se stare con l’Alleanza atlantica o con la Russia: Mosca a questo punto non può che difendersi. Ma qualcuno l’ha attaccata, la Russia? La stragrande maggioranza dei russi pensa di sì, si pone sulla difensiva, basta vedere nei sondaggi come è cresciuta in un anno la diffidenza nei confronti dell’occidente. Ma non soltanto l’opinione pubblica interna alla Russia concorda con l’analisi del suo leader. Come spiega l’ex ambasciatore americano John Kornblum sul Wall Street Journal: “Putin è soddisfatto perché ha convinto importanti segmenti dell’opinione pubblica mondiale del fatto che l’invasione russa dell’Ucraina sia stata una risposta giustificata alla minaccia occidentale posta alla sicurezza russa – e non, com’era, una punizione contro Kiev per la sua decisione di abbracciare l’Europa”. La versione putiniana del conflitto ha conquistato molti, soprattutto in Europa: la Nato non può avvicinarsi troppo ai confini con la Russia, ci deve essere un cuscinetto, e l’est ucraino è in questo senso perfetto – se non fosse che la sovranità nazionale ucraina, che per molti è allo stesso tempo inviolabile e negoziabile, lo impedisce. Poco dopo la nostra conversazione, la Applebaum ha fatto un tweet rivolto ai “realisti” che, nella guerra delle parole, condividono la versione russa: “Putin non vuole che l’Ucraina sia uno stato-cuscinetto neutrale. Putin vuole che l’Ucraina sia uno stato fallito. Big difference”.

 

Il presidente americano Barack Obama ha detto una cosa banale e importante durante la conferenza stampa con Angela Merkel, lunedì: “Il nostro obiettivo non è dare un equipaggiamento militare all’Ucraina perché faccia operazioni offensive, ma perché possa semplicemente difendersi”. Ecco di nuovo: difendersi. Ma qualcuno l’ha attaccata, l’Ucraina? A guardare la mappa geografica non ci sono dubbi: un anno fa, quando al Maidan di Kiev si gelava e si moriva e si sognava di affrancarsi dall’oriente per gettarsi nelle braccia dell’occidente, l’Ucraina aveva determinati confini e il controllo di tutto il territorio all’interno di quelle frontiere. Oggi ha altri confini, più ridotti, e su buona parte dell’est il governo centrale non esercita più i suoi poteri. L’attacco c’è stato: “L’invasione dell’Ucraina da parte dei russi è il ‘game changer’ del conflitto – spiega la Applebaum – E’ il momento in cui abbiamo capito che Putin non avrebbe rispettato nulla di ciò che era stato deciso dall’Europa, a partire dai suoi confini”. Ci sarebbe stato un altro momento tragico ed è l’abbattimento dell’aereo di linea malese sul cielo dell’est ucraino. E’ dato ormai per scontato che a far cadere l’Mh17 sia stato un missile lanciato dai separatisti, per errore. Il fornitore di questi armamenti letali è la Russia, ma anche se a lungo si è detto che i colpevoli sarebbero stati puniti, l’episodio è stato avvolto da quella nebbia di parole e di tattiche che caratterizza il conflitto: quasi 300 morti, fantasmi pure loro.

 


Vladimir Putin con Angela Merkel (foto LaPresse)


 

In questa guerra fatta di immagini cruente, di tanti fuochi, di un fronte che cambia tutti i giorni, si avanza e si arretra come nelle guerre classiche, interpretare la volontà di Putin è diventato il gioco cui tutti si appassionano. Nessuno lo capisce, si dice, a partire da Angela Merkel che è quella, sulla carta, dotata del maggiore potenziale: parla russo, ha interessi giganteschi nei confronti della Russia, ha compagni di governo, i socialdemocratici, che sussurrano strategie concilianti nei confronti di Putin, può permettersi di stabilire una linea, e di essere seguita. Eppure da un anno la cancelliera tedesca va dicendo che il capo del Cremlino “vive in un altro mondo”, in cui i rapporti di causa ed effetto si confondono, a volte addirittura si invertono: così un paese – l’Ucraina – che vuole andare verso ovest diventa una dichiarazione di guerra contro chi sta a oriente. Ora Merkel si è intitolata l’ultimo grande sforzo diplomatico per evitare che la guerra fantasma diventi conflitto aperto (come se già non lo fosse), ed è costretta a farlo proprio nel momento in cui il ministro degli Esteri russo, il poeta Sergei Lavrov, si fa beffa della Germania: alla conferenza sulla Sicurezza di Monaco, sabato, Lavrov ha detto che quel che è accaduto in Crimea è un atto di autodeterminazione, non certo un’annessione fatta con l’aiuto delle truppe russe. In fondo, ha detto il ministro, la riunificazione della Crimea con la Russia è più legittima di quanto lo fosse quella delle due Germanie nel 1990, e comunque allora l’Unione sovietica era stata ben più tollerante di quanto non sia l’occidente oggi, sostenendo quell’unione. Tutti ridevano, a Monaco, mentre Lavrov forniva la sua visione del mondo: lo trovavano divertente. (Da queste parti si trova divertente semmai, se proprio bisogna ridere, una vignetta tedesca che ritrae Merkel e Hollande da un lato del tavolo con Putin dall’altro e la cancelliera che dice: “Se tu ci dai l’Ucraina noi non possiamo darti la Grecia?”).

 

[**Video_box_2**]Non si sa se l’ultimo tentativo di Merkel, assieme ai francesi, porterà a qualche risultato: il vertice a Minsk darà forma alle telefonate e agli incontri di questi concitati giorni. Le premesse non sono rassicuranti: gli accordi in essere oggi, che sono sempre stati siglati nella capitale bielorussa (sembra che ci si accanisca, con Minsk), non sono in realtà mai stati rispettati, prevedono un cessate il fuoco che non c’è e un ritiro contestuale da un fronte che non esiste. Ma prima di tutto, prima dei dettagli e dei negoziati tecnici, bisognerebbe ammettere che una guerra è in corso, che due parti si stanno sfidando, il governo ucraino con il suo esercito da una parte, i separatisti con il loro sostegno russo dall’altra, e questo Putin non vuole farlo. Secondo la sua versione, i ribelli pro russi non sono gestiti da Mosca, sono simpatizzanti che vorrebbero portare l’est dell’Ucraina dove dovrebbe stare, cioè sotto l’influenza della Russia: amici spontanei della causa russa. Secondo Kiev invece sono appena arrivati altri millecinquecento “rinforzi” dalla Russia, e nella piccola cittadina di Debaltseve, vicino a Donetsk, si combatte da settimane: è uno snodo ferroviario strategico, la sua conquista, come quella dell’aeroporto di Donetsk, sarebbe un gran passo avanti nel controllo dell’est ucraino da parte dei separatisti. La versione di Kiev è viziata, dicono molti. Ma l’intervista che ha rilasciato il generale dell’esercito americano in Europa, Frederick “Ben” Hodges, non può essere fraintesa: “Se guardi un video degli ‘Spetsnaz’, gli omini verdi, nell’est dell’Ucraina o non sai assolutamente nulla di faccende militari, o noti subito come si muovono e come portano l’uniforme. Non è facile far sì che i soldati mettano sempre l’uniforme e portino le armi correttamente per tutto il tempo. E’ così che capisci la differenza tra i ribelli e questo esercito”. L’addestramento conta e si vede, insomma, così come si vedono gli equipaggiamenti “sofisticati”, dicono gli esperti, “destinati a restare lì per un po’”, sottolinea il generale: nelle mosse della Russia c’è una visione a lungo termine, una conquista che forse non sarà oggi né domani, “ma magari tra cinque o sei anni”, quando l’occidente si sarà irrimediabilmente diviso e distratto. Sul New York Times Franz Sedelmayer, consulente per la sicurezza che conosce Putin dagli esordi a San Pietroburgo (e poi ci ha litigato alla grande), dice che la tattica russa “è sempre la stessa: tirare le cose per le lunghe fino a che gli altri non si arrendono”.

 

Peter Pomerantsev ha da poco pubblicato un libro dal titolo “Nothing Is True and Everything Is Possible” in cui racconta il mondo della televisione in Russia, che lui conosce perché ha lanciato molti format a noi noti, come quello di “Chi vuol essere milionario?”. Ne viene fuori una Russia glamour e corrotta, borsette alla moda e nottate in galera con pretesti assurdi, ma emerge una considerazione che vale per comprendere l’approccio russo al conflitto ucraino: il Cremlino vuole tenere tutti sulle spine, in modo che ognuno sappia “che ci può prendere e punire in ogni momento”. In questa gabbia è finita anche la diplomazia occidentale, per evidenti interessi economici ma anche per la preoccupazione che, se provocato, Putin possa reagire male. In questo modo, cercando di prevedere reazioni che sono, per la natura stessa del Cremlino, imprevedibili, s’è persa una visione alternativa alla strategia russa. Putin pensa almeno ai prossimi sei anni e noi aspettiamo di vedere che cosa accade oggi a Minsk per valutare quando allargare le sanzioni. I negoziati di questi ultimi giorni sono “una tattica”, dice la Applebaum, mentre è necessaria una “strategia militare, economica e politica, con un rinforzo della Nato, le sanzioni e i negoziati”. Una strategia a lungo termine, in cui chi attacca e chi si difende diventino finalmente riconoscibili.

  • Paola Peduzzi
  • Scrive di politica estera, in particolare di politica europea, inglese e americana. Tiene sul Foglio una rubrica, “Cosmopolitics”, che è un esperimento: raccontare la geopolitica come se fosse una storia d'amore - corteggiamenti e separazioni, confessioni e segreti, guerra e pace. Di recente la storia d'amore di cui si è occupata con cadenza settimanale è quella con l'Europa, con la newsletter e la rubrica “EuPorn – Il lato sexy dell'Europa”. Sposata, ha due figli, Anita e Ferrante. @paolapeduzzi