Chi aspetta Atene a braccia aperte

Stefano Cingolani

La Merkel rassicura, l’Europa “ha sempre saputo trovare un accordo”. Ma in caso di Grexit, chi gode? Le mire espansionistiche di Mosca, quelle economiche cinesi, gli anglosassoni tra Nato, finanza e Churchill.

Roma. Chi è arrivato a leggere fino al punto 40 del programma economico-elettorale presentato da Syriza a Salonicco nell’autunno dello scorso anno, scagli la prima pietra. Le menti europee ossessionate dall’economicismo non si sono spinte oltre le proposte sul debito. Qualcuno più motivato ideologicamente a sinistra, s’è inebriato per le nazionalizzazioni, le misure contro la povertà o l’assunzione di altri dipendenti pubblici. Eppure il punto 40 è forse il più abrasivo perché propone la chiusura di tutte le basi militari straniere (cioè americane) e l’uscita dalla Nato. Ai tedeschi angosciati per i loro prestiti o a quegli italiani che si preoccupano di “non pagare per gli altri”, la cosa è indifferente. Ieri intanto la Banca centrale europea avrebbe alzato a 65 miliardi di euro, dai precedenti 60 miliardi, la disponibilità di fondi di emergenza (l’Emergency liquidity assistance) a favore delle banche greche, pure per contrastare una fuga dei correntisti che non s’interrompe dallo scorso mese. “L’Europa si è sempre distinta per la sua capacità di raggiungere accordi”, diceva ieri una quasi rassicurante Angela Merkel. Mentre il neo premier greco Alexis Tsipras e il presidente dell’Eurogruppo, l’olandese Jeroen Dijsselbloem, hanno concordato che da oggi riprenderanno gli incontri a livello tecnico per confrontare il programma internazionale di aiuti valido fino al 28 febbraio e le proposte del nuovo governo. In attesa del nuovo incontro di lunedì. Ma quel punto numero 40 del programma di Salonicco non è affatto un aspetto di poco conto per la Russia, la Cina e per gli Stati Uniti. E mentre Berlino, Bruxelles, Roma perfino, farebbero volentieri a meno di Atene, in molti sono pronti ad aprirle le braccia, per spartirsela, per gettare zizzania in occidente o magari soltanto per non regalarla al nemico.

 

Con Mosca e Pechino, non si tratta di ammiccamenti. Le telefonate e gli inviti amichevoli hanno il sapore di una vera e propria corte nei confronti di Alexis Tsipras il quale, furbescamente, se ne vanta sperando di aumentare il proprio potere contrattuale. Per la verità, non ci sono solo convenevoli. La Russia ha offerto sistemi missilistici di difesa aerea Tor-M1 e Osa-Akm di fabbricazione sovietica: con quali soldi li pagherà il nuovo governo di Atene? Un segnale allarmante ancor più di tutti quelli politico-mediatici inviati nei giorni scorsi, compresa la minaccia che la Russia e la Cina si comprino il debito se fallisce l’accordo con l’Unione europea. Dunque, Tsipras diventa il cavallo di Troia per l’espansionismo militare di Putin e per la penetrazione economica cinese? Non è un caso che sia stato presto smentito lo stop alla vendita del Pireo alla Cosco (China Ocean Shipping Company).

 

Ian Bremmer, politologo che ha fondato Eurasia Group, immagina che Putin possa dire: “Vi salvo io, ma voi uscite dalla Nato, aderite alla Shanghai Cooperation Organization, e ci date accesso alle basi”. Anche i cinesi potrebbero essere della partita, visto quel che hanno investito nel Pireo. Pechino cerca in modo frenetico una rete di scali mercantili che consenta di evitare la circumnavigazione dell’Africa per sbarcare a Rotterdam. Oggi nessuno dei grandi porti italiani, francesi, spagnoli, sono approdi sicuri, garantiti e competitivi. Il Pireo può diventare la chiave per una vera svolta dalle enormi conseguenze non solo economiche, soprattutto se si saldasse un asse con la Russia. La Cina non vuole perdere il rapporto preferenziale con gli Stati Uniti, ma il nuovo imperatore Xi Jinping, che a settembre si recherà a Washington, potrebbe giocare d’astuzia, sulla base di una sorta di divisione del lavoro, lasciando a Putin il viso dell’arme, mentre lui raccoglie i frutti economici. E gli americani, impegnati su troppi fronti, si fanno dare scacco matto?

 

La mossa del cavallo potrebbe venire ancora una volta dall’Inghilterra. Il 5 marzo 1946 a Fulton, Missouri, Winston Churchill nel discorso che sarà conosciuto per la denuncia della Cortina di ferro, giurava eterna fedeltà: “Gli spasmi della Grecia possono sembrare minuscoli, ma i greci sono il centro nevralgico del potere, della legge e della libertà nel mondo occidentale”. Il vincitore morale della Seconda guerra mondiale pochi anni prima aveva scritto: “Non sono i greci a battersi come eroi, sono gli eroi a battersi come greci”, e si era dannato per costringere il suo paese a intervenire più volte contro Mussolini, contro Hitler e poi contro Stalin nella guerra civile che insanguinerà l’Ellade e i cui strascichi non sono ancora scomparsi. L’ex premier Tony Blair è sceso in campo per smuovere dall’apatia la classe dirigente britannica e il governo di David Cameron: ha proposto “una terza via” (ça va sans dire) basata su crescita e riforme. Ma non è il solo. Basta fare il conto degli articoli comprensivi pubblicati da autorevoli quotidiani dell’establishment finanziario come il Financial Times. Da Martin Wolf a Wolfgang Münchau è tutto un mettere in guardia dal rischio politico e non solo economico, di un collasso ellenico.

 

[**Video_box_2**]L’ultimo dei periodici rapporti che la grande banca svizzera Ubs dedica alla Grecia, si chiede se “l’Europa può evitare una tragedia greca”. Le conseguenze di una uscita dall’euro sarebbero disastrose per la Grecia con il probabile fallimento dell’intero sistema bancario, ma a macchia d’olio colpirebbero i paesi creditori (tra i quali l’Italia con 40 miliardi di euro), le Borse, la Bce come prestatore di ultima istanza (senza trascurare la difficoltà di rinegoziare le quote e gli equilibri interni). E nessuno può essere sicuro delle conseguenze sull’intero assetto della Ue. La finanza privata inglese non è così esposta su Atene, invece; e Londra si è tenuta lontana dagli strumenti europei di salvataggio. “Quanto interessa la Grecia all’Europa?”, si chiede Stephen Fidler sul quotidiano americano Wall Street Journal, rievocando proprio Churchill. Il paese è piccolo, con appena 11 milioni di abitanti e un prodotto lordo pari al 2 per cento di quello dell’Unione. E’ entrato nella Ue nel 1981 dopo la caduta del regime dei colonnelli. La loro dittatura è durata sette anni, dal golpe del 1967 al 1974, ed è stata la conseguenza della lunga guerra civile nel fronte meridionale della Guerra fredda. In qualche modo quello di Bruxelles è stato un gesto riparatore e una garanzia di stabilità. Pochi allora avrebbero pensato che quell’abbraccio sarebbe diventato un boomerang.

 

Oggi la convinzione comune, e non solo in Germania, è che l’indisciplina greca metta a repentaglio la stabilità e il benessere dell’Unione. Jonathan Eyal del Royal United Service Institute, influente think tank strategico londinese, sostiene che “i greci sono stati molto abili nel trarre vantaggio dalla Ue, ma non hanno mai mostrato quella solidarietà che adesso chiedono agli altri”. E tuttavia, come ignorare che il paese resta per la Nato una portaerei rivolta verso il medio oriente (proprio mentre la Turchia si islamizza) e potrebbe diventare per la Russia la porta del Mediterraneo? Gli americani finora si sono limitati a una “moral suasion” economica, un invito insistente – anche attraverso le organizzazioni internazionali più influenti come il Fondo monetario internazionale e il G20 – a perseguire una soluzione ordinata della nuova crisi. Una soluzione che possibilmente contempli la correzione di alcune storture dell’Eurozona a trazione tedesca che da anni allarmano Washington. Così se adesso gli eventi precipitassero, nemmeno gli Stati Uniti si farebbero troppi problemi a mettere Angela Merkel di fronte alla dimensione politica della nuova campagna di Grecia.