Draghi, Renzi e Bankitalia a favor di capitali esteri (ma in Mps coi contribuenti)
I conti che escono in questi giorni dalle principali banche italiane dimostrano che il sistema dopo tagli, rettifiche e pulizie sta cominciando un serio processo di rigenerazione e riforma sotto la spinta della Bce.
Roma. Non è primavera ma gli investitori volano su Piazza Affari dai nidi di Wall Street e della City. Un po’ come nel 2014, quando a sorpresa i grandi money manager americani fecero buoni affari comprando a prezzo di saldo titoli bancari europei che quasi nessuno voleva. Ora il copione potrebbe ripetersi, in un clima migliore. L’anno scorso era urgente garantire alle banche il carburante affinché il motore non si fermasse, perché a corto di capitali. Ora i conti che escono in questi giorni dalle principali banche italiane dimostrano che il sistema dopo tagli, rettifiche e pulizie sta cominciando un serio processo di rigenerazione e riforma sotto la spinta decisiva della vigilanza della Banca centrale europea di Mario Draghi, assecondata dalla sintonia tra Banca d’Italia e governo (a giudicare dai provvedimenti a lungo rimandati ora messi in cantiere). Dalla riforma delle undici banche popolari più capitalizzate da trasformare per decreto in società per azioni e diventare così contendibili sul mercato, all’istituzione di un veicolo con garanzia pubblica per la gestione della massa di crediti deteriorati (cosiddetta bad bank) che limitano l’erogazione di prestiti alla clientela. Il combinato disposto dovrebbe agevolare aggregazioni delle banche di medie dimensioni.
Non sono certo piccole le mani interessate al nuovo corso a giudicare dal rialzo del 18 per cento del Monte dei Paschi all’indomani della pubblicazione di perdite record per 5 miliardi di euro e l’annuncio di un aumento di capitale da 3 miliardi; più consistente del previsto e già avallato dalla Bce. Avere riportato perdite comporta l’impossibilità di rimborsare allo stato la cedola sui prestiti (contro salato interesse) non ancora rimborsati, detti Monti bond. Il Tesoro riceverà dunque azioni in cambio di denaro e da luglio sarà il primo azionista di Mps (10 per cento) con la prospettiva di diluirsi al 3 post aumento di capitale, dice Reuters. La presenza dello stato, unita alla bad bank in fieri, funziona come una polizza anti fallimento gradita agli investitori, che già hanno virato sui titoli bancari sulla scorta della determinazione governativa sul dossier Popolari. Nell’Italia dei mille campanili, i potentati locali, laici e cattolici, non vogliono perdere influenza sulle banche, soprattutto del nord, dove esprimono gli organi di vertice. Partiti di opposta estrazione (Forza Italia, Lega nord, Movimento 5 stelle, Sinistra e libertà) si sono uniti nella battaglia per orchestrare l’opposizione parlamentare al decreto varato dal governo il 16 gennaio. Caduta la pregiudiziale d’incostituzionalità verso lo strumento decretativo, giudicato “dirigista”, l’intento pare quello di arrivare a un compromesso introducendo modifiche al testo gradite alla Assopopolari. L’associazione ha cercato di avanzare l’ennisima proposta di autoriforma, fuori tempo massimo.
Tuttavia nel dibattito pubblico si discutono accorgimenti suggeriti da quell’area che limiterebbero la contendibilità dell’azionariato in chiave anti-scalata e di conservazione dello status quo. L’introduzione di un tetto ai diritti di voto o l’istituzione delle “loyalty shares” – azioni privilegiate per azionisti con almeno due anni d’anzianità – non piacciono oltre confine. E i grandi fondi d’investimento non sono estranei alle popolari – americani BlackRock, Dimensional Fund Advisor, Vanguard Group, inglesi Silchester e la norvegese Norges bank detengono nel complesso il 7,7 per cento della capitalizzazione di 6 istituti su 7 quotati in Borsa con un capitale investito di 1,5 miliardi circa, secondo Bloomberg – ma spesso restano sotto la soglia del 2 per cento, oltre la quale scatta l’obbligo di uscire allo scoperto.
[**Video_box_2**]I sospetti di insider trading per i rialzi anomali delle Popolari nei giorni precedenti e successivi al decreto hanno spinto la Consob a indagare per abuso di informazioni privilegiate. La stampa ha dato qualche emicrania al governo adombrando sospetti su Davide Serra, fondatore del fondo Algebris e sostenitore del premier Matteo Renzi, e sulla banca Etruria, il cui titolo è schizzato all’insù del 43 per cento, che vede ai vertici il padre del ministro per le Riforme Maria Elena Boschi. Il commissariamento per “gravi perdite patrimoniali” della banca aretina disposto dalla Banca d’Italia in accordo con il ministero dell’Economia dovrebbe avere chiuso la questione, secondo la Boschi, e dimostrare l’intento del governo di procedere spedito. L’Etruria è l’unica banca quotata delle 16 commissariate dalla Banca d’Italia, la maggiore parte sono di credito cooperativo, le più piccole con legami stretti con il territorio che ne aumentano l’opacità. Rimaste intoccate dalla riforma renziana, le trecento banche locali non potranno sottrarsi a un processo di rapida integrazione: “Non è più rinviabile”, ha detto ieri il capo della Vigilanza, Carmelo Barbagallo, perché la situazione complessiva si sta deteriorando per qualità del credito, debole redditività – ben al di sotto degli istituti concorrenti in Europa – e incapacità di rapide ricapitalizzazioni. L’aria pare cambiare anche qui.
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