Il capo comico dei grillini
La mafia. Mattarella. Gli amici del califfo. Il complottismo in servizio permanente effettivo. L’impegno (uh, che risate) contro la repubblica degli spritz. To be Alessandro Di Battista - di Marianna Rizzini
"C’è la mafia, non possiamo restare a casa”, ha detto Alessandro Di Battista, deputato a cinque stelle, a conclusione del ragionamento simil-deduttivo che l’Huffington Post, qualche giorno fa, ha così ribattezzato: “Di Battista ‘risolve’ l’omicidio di Piersanti Mattarella – e ovviamente c’entra Berlusconi”. Trattasi di un post in cui Di Battista elenca il suo teorema: si parte da Piersanti Mattarella, ucciso nel 1980, e, passando per il pentito di mafia Tommaso Buscetta e per Stefano Bontate e per Marcello Dell’Utri e (naturalmente) per Arcore, si adombrano, senza dirle, le peggio cose sulla “gentaglia” da cui il presidente Sergio Mattarella, fratello di Piersanti, dovrebbe oggi “guardarsi bene”.
“Essere Alessandro Di Battista”, potrebbe chiamarsi il nuovo film surreale d’avanguardia – altro che “Essere John Malkovich”, omonima pellicola di Spike Jonze, quella in cui un burattinaio-archivista con moglie antipatica e piccolo zoo domestico di cani, gatti, iguana e scimpanzé scopre, dietro a un mobile, il passaggio segreto che permette di entrare nella testa dell’attore (John Malkovich, appunto, non Dibba, sebbene Dibba sia parlamentare di ribalta prima che d’istituzione). Sono due anni infatti che calca le scene, il Dibba, diplomato al liceo scientifico “Farnesina” di Roma, laureato al Dams a Roma Tre nonché reporter sulle Ande – “diari della motocicletta”, scrisse l’Unità a firma Andrea Carugati a inizio 2014, quando fu chiaro a tutti che il Dibba, uno che volentieri ricorda pubblicamente le gesta del Che, non dimentica né dimenticherebbe per nulla al mondo le sue, di gesta sudamericane, e cioè i lunghi mesi da cooperante e giornalista in cerca di storie da raccontare nel suo “Sicari a cinque euro” (edizioni Adagio e occhio benevolo della Casaleggio Associati). Furono, per il Dibba, quasi due anni trascorsi tra Guatemala, Colombia, Ecuador, Panama, Cile, Bolivia, Perù, Nicaragua, Patagonia e Amazzonia: Di Battista è reporter prima di tutto, dice lui, e un giorno ha detto anche che non vedeva l’ora di tornare a fare quello – il reporter – invece del deputato che, come documentò in una sera di fine novembre l’agenzia Dire, deve aggirarsi tutto il giorno “con quelle merde” dei colleghi di altri partiti, uomini e donne “che in tv fingono di avere a cuore i problemi delle persone e poi vengono qui e non fanno altro che parlare dei cazzi loro”. 2018, fuga dal Parlamento e dalla “repubblica dello spritz” (quello che gli offrono invano, ha detto Dibba, i deputati di altri partiti che vogliono far finire tutto in caciara): questo dunque il sogno, ché l’altra fissa di Di Battista sono i lobbisti acquattati lungo i corridoi di Montecitorio, dove lui era entrato da Candide (noi i puri, noi quelli che volevano aprire la scatola di tonno) per ritrovarsi presto deluso e sofferente (“abbiamo aperto la scatoletta di tonno e dentro c’è la Piovra”, è stata la frase pronunciata da Di Battista a “Bersaglio mobile”, su La7, nella sera in cui il deputato di M5s ha anche spiegato che sì, i Cinque stelle indossano la cravatta “invece dell’elmetto” per “guardare la mafia negli occhi” (corollario: “Da romano mi viene da vomitare…romani sveglia, ci stanno fregando il futuro”).
Alessandro Di Battista a Porta a porta (foto LaPresse)
Essere Di Battista nel bene e nel male, dunque, vista la carica di vicepresidente non atlantista della commissione Esteri, mattatore in piazze piene e in piazze meno piene, allegre e tristi, in tempi di gloria e di decadenza a cinque stelle, e proconsole incoronato da Beppe Grillo nel Direttorio del movimento (con Luigi Di Maio, Carla Ruocco, Roberto Fico e Carlo Sibilia). Due anni in cui l’erede da palcoscenico del comico (mi rivedo in lui, disse un giorno Grillo), ha sfiorato la tragedia mediatica con i suoi commenti sull’Isis. Capitò così che in pieno agosto, all’apice del dramma mediorientale, tra sgozzamenti e bombardamenti, Dibba scrivesse un articolo per così dire comprensivo: “Se a bombardare il mio villaggio è un aereo telecomandato a distanza io ho una sola strada per difendermi, a parte le tecniche nonviolente che sono le migliori: caricarmi di esplosivo e farmi saltare in aria in una metropolitana” (tutti inorridirono, tranne Marco Pannella, che, da bastian contrario, invitò a “capire” che cosa mai Di Battista intendesse con quell’intervento in un certo senso “radicale”). In ogni caso l’opinione (reiterata) di Di Battista era questa: “L’obiettivo politico (parlo dell’obiettivo politico non delle assurde violenze commesse) dell’Isis, ovvero la messa in discussione di alcuni stati-nazione imposti dall’occidente dopo la prima guerra mondiale ha una sua logica”, scriveva il deputato, non dimenticando uno dei grandi classici (complottisti) delle bacheche a cinque stelle: “… L’attentato alle Torri gemelle fu una panacea per il grande capitale nordamericano”. E non bastava. A fine agosto, dopo la decapitazione del reporter americano James Foley, Di Battista, su Facebook, per difendersi dalle critiche alle sue precedenti esternazioni sul tema Isis, ci metteva (involontariamente?) il carico: “… A quel poveretto gli hanno messo addosso un divisa simile a quella indossata dai prigionieri a Guantanamo. Io penso che la violenza indecente, barbara, inaccettabile che ha subito quel ragazzo sia, in parte, figlia della violenza indecente, barbara, inaccettabile subita dai detenuti nel carcere di Abu Ghraib. Le violenze commesse in quella prigione furono senz’altro figlie di quel desiderio di vendetta che molti americani hanno provato dopo l’indecente, barbaro, inaccettabile attentato alle Torri Gemelle, quest’ultimo anche figlio dell’indecente, barbaro, inaccettabile imperialismo nordamericano che ha portato milioni di persone a morire di fame…” (anche quando parla dell’Italia, Di Battista non fa certo la Maria Antonietta: “La gente ha fame, voi gli avete tolto il pane!”, è il suo tormentone).
Molti mesi dopo, quando Bruno Vespa gli ha chiesto conto di quell’apparente giustificazionismo, Dibba ha detto che le frasi erano state estrapolate dal contesto, che lui vuole “capire le cause” e che comunque “se si usassero più fondi per la cooperazione” le cose cambierebbero. Variazione sul tema, le risposte di Dibba sull’attentato alla sede di Charlie Hebdo, raccontato dal blog di Grillo non senza dietrologie – non siamo al livello del deputato grillino Paolo Bernini, quello che crede al microchip sottopelle, tuttavia nel post si riflette con insistenza su ciò che “non torna”. Dibba dice che bisogna “comprendere le origini” del terrorismo e che il terrorismo, come il “cancro”, non può che aumentare se si affrontano solo “gli effetti”. Tutto il resto – il petrolio e i suoi proventi, per esempio, o l’eterogenesi dei fini che, gli ha detto a un certo punto Vespa, “fa parte della storia” (tipo finanziare qualcuno che poi ti si rivolta contro), è per Dibba da ricondurre al marcio del potere (forte, ovviamente).
Tuttavia non è sugli Esteri che il Dibba più verace si esprime. Su questioni non politiche, Dibba può essere di irruenza proverbiale (oltreché di cavalleria non proprio evidente). Capitò infatti, a inizio legislatura, che Marianna Madia, deputata pd poi ministro della Pa, conoscendo già il neoparlamentare a cinque stelle, ne parlasse ai colleghi con simpatia. Succo del ragionamento: eravamo catechisti insieme, ci siamo un po’ frequentati quando avevamo vent’anni, ma senza che succedesse mai nulla, neanche un bacio. Di Battista, invece, sul tema Madia, negli stessi giorni, esagerava un po’, diciamo, il livello di confidenza allora presente (orrore del galateo uomo-donna). Fin dal primo giorno di legislatura, comunque, c’è chi ricorda un Dibba-Fregoli, maschera diversa per ogni occasione: ecco il Dibba “didattico” che, nello scantinato di un albergo nei pressi di San Giovanni, nelle ore della incredibile e inattesa vittoria a cinque stelle (per dimensioni: 25 per cento), e nella ressa di telecamere, spiegava da principiante assoluto in Parlamento il perché e il percome della vittoria stessa. Era parso più calmo e pacato della massa di sconosciuti giunti alla Camera e al Senato previo voto online (candidati scelti con “parlamentarie” e video di presentazione). Ci si sbagliava: Di Battista era, in realtà, l’aspirante tribuno. La divisione di ruoli nei primi mesi nella “scatola di tonno”, infatti, prevedeva un Dibba di piazza, da cui, per naturale evoluzione, scaturì il futuro Dibba che sale sul tetto della Camera durante “la notte della Costituzione” contro il ddl sulle riforme, e una Roberta Lombardi e un Vito Crimi di governo (si fa per dire: alle consultazioni con Pier Luigi Bersani e poi con Enrico Letta i portavoce a turno del M5s, su indicazione del duo Grillo-Casaleggio, mantennero la linea del “no” a qualsiasi cosa, durante gli ormai mitologici streaming degli esordi).
Non era ancora emerso, allora, il lato bullo del Dibba pacifista che su Facebook tiene come foto quella da cartolina del meraviglioso mondo ong (profilo suo e profilo di un bimbo andino). Eppure un lato bullo si è manifestato a sorpresa, un anno fa, al cospetto del capogruppo pd Roberto Speranza, nei giorni del voto con “tagliola” sul decreto Imu-Bankitalia. (Scena: Roberto Speranza, con fare circospetto, si avvicina a una telecamera – dopotutto si è in sala stampa. Di Battista, preso da sacro fuoco contestatore, si mette in mezzo per impedirglielo. Speranza a quel punto dice “fascista”; Di Battista ribatte con un “avete sfasciato il paese”). Il tema “fascismo”, comunque, ha a lungo perseguitato il Dibba, ex elettore dichiarato di sinistra, per via della militanza missina, più che finiana, di suo padre Vittorio, imprenditore viterbese nel settore ceramiche. La fede politica di Vittorio fu tirata fuori a sorpresa da Daria Bignardi durante un’intervista “barbarica” in cui Dibba si era detto anche pronto a “sfidare Matteo Renzi” (successivamente, in altre trasmissioni, come posseduto da mantra auto-motivazionale, dirà anche “Siamo pronti a governare” o “alle prossime elezioni ci presenteremo con la squadra pronta”). Il padre del Dibba, in ogni caso, aveva rilasciato dichiarazioni in cui non rinnegava nulla del suo passato e si diceva orgoglioso del figlio, ferma restando la diversità di opinioni. Chiuso l’incidente. Man mano che passavano i giorni, però, spuntavano altre maschere del Dibba-Fregoli: il Dibba lirico, che quasi piange dopo il risultato inatteso delle elezioni europee (“sono momenti duri e vanno vissuti fino in fondo”, aveva scritto Dibba su Facebook, dopo aver visto che il Pd superava il 40 per cento e il M5s che si fermava al 21. E aveva arringato da Facebook le folle: “Il cambiamento culturale è lento, più lento del previsto, ma è inarrestabile…Buona notte a tutti! A riveder le stelle!”). Contemporaneamente si era visto in azione un Dibba vagamente (e simpaticamente) “mitomane”, quello che raccontava di essere stato avvicinato da un emissario di Silvio Berlusconi. Berlusconi mi vuole, ma io non mi faccio comprare, era il concetto, corredato di prova: un sms dell’emissario del Cav. spiattellato sui social network dal Dibba, sms da una cena in cui l’emissario del Cav. aveva informato Dibba che lì, al desco del Cav., si parlava bene di lui. Ma siccome il giorno dopo il Cav. aveva esclamato, per placare la fantasia dei retroscenisti, “Di Battista chi?”, Dibba aveva scritto che Berlusconi sembrava “un Renzi qualsiasi” (“non credo che, dopo le menzogne sui milioni di posti di lavoro o sull’Imu da ritirare alle Poste ci sia gente che ancora gli crede. Comunque, per dimostrare che non dico balle ecco l’sms. Non scherzate con i cittadini nelle istituzioni!”). Tutti, allora, andando a ritroso, andavano a leggere l’sms dell’anonimo emissario del Cav.: “Ale sono a cena da Berlusconi e parliamo di te… Bene”; risposta di Dibba: “Bene. Sempre meglio parlarne. Digli che può godersi i nipoti che al prossimo giro governiamo noi. Un abbraccio”. Non lo voleva dunque Berlusconi (Dibba talento incompreso?), ma neanche Eugenio Scalfari, in par condicio involontaria, l’aveva voluto (in pagina). Era accaduto infatti che Scalfari criticasse Beppe Grillo su Repubblica. Ed era seguito implacabile post di Di Battista: “Mai una parolina sull’uso ad personam del potere da parte dei potenti, vero? Non sia mai! Il suo giornale mi rifiutò un reportage sulle violazioni dei diritti indigeni perpetrate da Enel in Guatemala”…Stavo in mezzo alla selva a supportare popolazioni autoctone millenarie che lottano per il bene comune e la madre natura. Ho scritto e inviato il materiale al giornale che lei ha fondato, Direttore. Nulla”.
[**Video_box_2**]Nulla, in effetti, in confronto al Dibba animalista che, con tormento da non-emulo dell’ Oscar Wilde de “il miglior modo per resistere a una tentazione è cedere”, ammette con rammarico il peccato (“riesco a rinunciare alla carne per mesi ma poi, puntualmente, ci ricasco”). Dietro, c’è lo studio “sull’impatto sociale, ambientale ed economico degli allevamenti intensivi”. Tutto si tiene: il consumo occidentale di carne, ha scritto un giorno Dibba, ha spinto le classi dirigenti africane a “disincentivare l’agricoltura di sussistenza la cui perdita causa povertà, altra responsabile dell’immigrazione clandestina…”. Poi ci sono le guerre, combattute anche “per il rifornimento idrico fondamentale per l’industria della carne”, e le “mono-coltivazioni di cereali rivolte agli allevamenti intensivi”, una “delle cause dell’abbandono delle campagne da parte dei contadini che si riversano nelle periferie degradate delle città per poi fuggire direzione Ue o Usa”. E lì si torna: alla Ue matrigna e agli Usa canaglia.
E però il Dibba-Fregoli aveva in serbo pure la maschera da “stratega”, quella che lo consegnava per sempre al dubbio degli osservatori: ma Di Battista recita o fa sul serio? Vabbè che il già giovane deputato (36 anni) da ragazzo non avrebbe disdegnato di partecipare ad “Amici” come attore, ma possibile, ci si domandava attoniti, che il giovane deputato anche noto per parlare alla “pancia” del movimento poi si metta, in un giorno di fine gennaio, a ridosso dell’elezione del presidente della Repubblica, dopo aver detto che Renzi è il “nulla che avanza”, a proporre per il Quirinale, in streaming, nell’assemblea in cui i Cinque stelle fanno i nomi di chiunque, quasi quasi pure di Pluto, Pippo e Topolino, proprio l’uomo dello “scouting” Pier Luigi Bersani, colui cui per primo i cinque stelle opposero il gran rifiuto? Eppure questo accadeva: il Dibba si alzava, andava al microfono e, con volto serissimo, chiedeva di mettere nella lista dei votabili anche il nome dell’uomo capace, forse, di ostacolare il famigerato “patto massonico” (del Nazareno, ça va sans dire).
Il Foglio sportivo - in corpore sano