Matteo Salvini (foto LaPresse)

Non guardate la felpa

Maurizio Crippa

Il codice invisibile della Lega. Indagine politica sull’estetica di Salvini&Co. Ci fu il tempo delle corna dei barbari sul Sacro Prato, delle ampolle, del rito della pizza in viale Arbe, le notti insonni di Ponte di Legno. E’ iniziata l’èra Village People.

Milano. Dall’underwear all’outfit. Con predilezione all’ammiccamento giovanilista metropolitano, felpe e t-shirt, le clarks ai piedi come ogni fuoricorso che si rispetti. Fosse solo questione di look, come spesso preferiamo ridurre le cose della Lega, sarebbe risolta lì. Sulle canottiere di Bossi ci fece un libro persino Marco Belpoliti, è archeologia decotta. Sul guardaroba di Matteo Salvini ci inzuppiamo tutti la penna, ogni volta che non sappiamo che altro dire di questo cambio d’abito che è un cambio di pelle. O di estetica. Converrebbe partire da altrove. “Un tatuatore e un’estetista che il destino ha portato chissà come a essere dirimpettai in una galleria commerciale di Jesolo”. Sono i protagonisti dell’ultimo film che Carlo Mazzacurati ci ha regalato, prima che il tumore lo portasse via. Mazzacurati è uno dei pochi che in questi anni abbia saputo giudicare con un criterio estetico, dunque politico, il nord-est (con la Lombardia non ci hanno mai nemmeno provato, e qualcosa vorrà dire). C’è più estetica nei protagonisti della “Sedia della felicità” che in tante analisi. Il Veneto è questo, tatuaggi e centri commerciali. Pìcari di landa e di collina, a caccia di sghej mangiati dalla crisi. L’estetica del nord è tutta lì. La vuoi rappresentare ancora con le corna dei celti e il Leòn?

 

Il gesto di sfilarsi la camicia e mostrare quel che c’è sotto – le radici – guardava al passato. Invece il gesto principe di Matteo Salvini è mettersi sempre qualcosa “di sopra”. La felpa con scritto su “Sicilia” è un sussulto di incoscienza, un messaggio in una bottiglia ancora da riempire. Le t-shirt infilate sopra le camicie, sopra ai pullover. E le scritte stampate sopra alle t-shirt, puro messaggio – uomo sandwich, gli ha rinfacciato Vittorio Feltri: basta euro, no sanzioni, stop invasione. Tutto in vista, casomai non si capisse. E sotto il vestito? Detto in filosofia, Salvini sarebbe letteralmente un epifenomeno. Volendo dirla in estetica, l’estetica che la nuova Lega produce e trasmette, con il suo outfit politico e di branco – il gruppo del Capitano, più fan che militanti, che lo segue ovunque – è invece un’epifania. L’apparizione dell’anima. Sotto non c’è più niente che rimandi al passato, al muscolare puzzo di stalla e valli, alle giacche tirolesi. Le sezioni si svuotano, il rutilante ufficio gadget, quintessenza del pop padano, langue. A via Bellerio hanno cambiato le serrature, fuori tutti. L’immagine parlante sono gli scatoloni dei dipendenti che escono smarriti, come gli esodati di Lehman Brothers, “mai successo quando c’era Bossi”. Un’estetica streetfighter, segnata dalla crisi. Salvini s’è preso la Lega come un cambio di pelle. Lui, milanese, giovane di professione, agit-prop per vocazione, è Dna metropolitano e fiuto di periferie, di fabbriche incazzate, di campi rom troppo nelle vicinanze. Di zero euri.

 

Ci fu il tempo delle corna dei barbari sul Sacro Prato, delle ampolle, del rito della pizza in viale Arbe, le notti insonni di Ponte di Legno. Il vento del nord. La Lega della prima ora, che svapora ormai nel mitologico. Quando Roberto Calderoli, per dire, esibiva improbabili camiciole a quadretti, e braghette orribilmente corte sulle lunghe gambe. Un caso particolare, Calderoli, l’allampanato leader dalle battute spaccone e controproducenti, il genio cinico del porcellum. Adesso passa per un gran mago di mene d’aula, per un costruttore di regole. Con gli anni, la barba e il grigio lo hanno migliorato, quasi uno Sean Connery bergamasco. La Boschi fa finta di filarselo, lui fa finta di lasciarsi filare. Ma dell’estetica e dell’epopea popolana, immaginifica, che è stata il collante di “popoli”, si diceva così, senza epopea, resta più nulla.

 

Il sospetto però è che la battaglia estetico-politica di Salvini non sia tra quelle due visioni del mondo. Ma il contraltare di un’altra cosa. Dopo i barbari e i celoduristi, c’è stata (c’è?) la generazione di mezzo. Gli avvocati di provincia, un po’ vitelloni, ma più che Fellini servirebbe la malinconia di Piero Chiara a raccontarli. Bobo Maroni, avvocato di Varese, provinciale di qualche noia e di qualche libro, ma anche di rhythm ’n’ blues. Che a un certo punto si rifece il look, quand’era a Roma, con l’occhiale rossonero. Rassicurare per governare, era la parola d’ordine. L’estetica di Flavio Tosi, la barba rada, la camicia quasi sempre senza cravatta. Le giacche chiare, qualche buon tweed. Il delfino designato, fino a un paio d’anni fa. Ora invece è per Salvini l’immagine di “quel che non siamo, quel che non vogliamo”. Maroni più istituzionale, la pochette verde, le cravatte non proprio divine, col nodo largo, baffo e pizzetto. Sul palco di Pontida, anche le ultime volte, quando il popolo dei Barbari sognanti era con lui, sembrava sempre l’amministratore passato per sistemare il contratto d’affitto. Luca Zaia a nord-est e Roberto Cota a nord-ovest si sono persi un po’ via. soprattutto Cota, col suo non-look da ragioniere. La generazione di mezzo, la Lega più di governo che di lotta è stata questo. Governare, rassicurare. Esponenti di un sindacato territoriale, più avvezzo ai rapporti politici che alla piazza. E’ da questa rappresentazione di se stessa, da questa interlocuzione con il ceto medio del nord politicamente succube al berlusconismo che Matteo Salvini vuole segnare la distanza. Lui, la giacca, non la mette mai.

 

“La moneta locale è la tega, non l’euro, al cambio nero una tega oscilla tra le millecinque e le millesei, quanto il prezzo di un’acqua e vin, a voler ragionare in vecchie lire. Questa terra non ha niente da offrire”. Così, nel suo linguaggio sputazzante Francesco Maino raccontava il Veneto, nel suo esordio letterario “Cartongesso”. E’ il paesaggio in cui bisogna muoversi. Tornare dall’euro ladrone alla tega. Diverse visioni del mondo. Non c’è solo l’abito, il grido politico della nuova Lega nasce da lì, niente più quote latte da mungere, niente (quasi) più sistemi bancari da stringere. No euro e più confini è un messaggio politico differente, difficile da dare con la pochette verde nel taschino. Un gran bergamasco come Feltri è stato ruvido come una stoffa inglese: “Ha accantonato i sogni (o meglio i deliri) padani, le manie di secessione e le illusioni autonomiste”. Adesso le cause sono nazionali, guerra ai banchieri, all’immigrazione selvaggia. Argomenti lepenisti per delusi grillisti e di Forza Italia. Ma “l’elettorato più sofisticato, anche se la pensa come Salvini, ha bisogno di un lui esteticamente più affidabile”. Salvini forse non sa, ma intuisce, cosa rispondere. E’ vero che il partito si è svuotato, ma c’è l’entusiasmo del “prima eravamo morti”. Però quei simboli popolareschi, da partito pesante, come era la Batelada padana sul Lago di Como organizzata dal Sindacato padano sono finiti, via. I voti raccolti casa per casa, frazione per frazione, contati sezione su sezione che ancora la Lega non sa se dovrà rimpiangere, o ancora coltivare, sono un’incognita. Le regionali saranno il primo vero test, con il Cav. o senza. Quel che è chiaro è che il partito di governo e di niente lotta non paga. Il look di Forza Italia non ha più nulla di quel tratto americanista che ebbe, e nemmeno del pop della bandana, della tracimante Santanchè. Fitto è funzionariato puro, invisibilità. Se anche Giovanni Toti si presentasse nudo in una conferenza stampa, non se ne accorgerebbe nessuno.

 

[**Video_box_2**]Ci sono altri luoghi mentali che la nuova Lega geneticamente modificata deve andare a occupare. Come togliersi ad esempio quel che avanza dell’antico machismo rurale. Certo, poi sotto le felpe ci sono quelle foto da Village People su Oggi, e quella generale carenza di testosterone quasi esibita. E la scomparsa quasi totale delle donne, dalla classe dirigente. Quasi fosse un clan di compagni di scuola, di bar. Appartenenze e “vissuti” diversi, direbbero forse i sociologi. Del resto, il partito al Bossi gliel’hanno rovinato proprio le donne, le mogli, le badanti. I figli. Il familismo è un tratto della tribù del nord che è andato velocemente in soffitta. Come il machismo. Riposizionarsi. Almeno su alcuni grandi temi mainstream, di quelli che se li tocchi muori. “I gay? So purtroppo che esistono, loro sono malati, diversi, sbullonati. Se li vedo baciarsi, sputo a terra per lo schifo”, disse il bossiano della prima ora Santino Bozza, consigliere regionale in Veneto alla “Zanzara” di Radio24. Ora non si può più, e alleluja. Ma la Lega, in questo, tolte alcune uscite da campanile e da tutela del presepe a Natale, è sempre stata un oggetto più sfaccettato di quel che sembrasse. Anche prima di Salvini. C’era anche l’insospettabile intellò Mario Borghezio, quello del disinfettante per pulire i sedili dei treni dalle tracce del culo delle nigeriane, che in tempi non sospetti proclamava:  “Noi chiusi ai gay? Per niente, la Lega deve essere aperta a tutti, anche agli omosessuali e alle loro associazioni. Non abbiamo preclusioni per nessuno”. Gli archeologi del bossismo si ricordano che negli anni 90 c’erano i Los Padanos, l’associazione gay friendly (“Los” stava per “Libero orientamento omosessuale”). Barcamenarsi ora tra il putinismo e la cultura dei socialmedia non sarà facile. Salvini si incazzò molto per la cena di Berlusconi con Vladimr Luxuria: “Sono disposto a parlare di diritti ma la mia posizione personale è che il matrimonio è tra un uomo e una donna, le adozioni le fanno un uomo e una donna e un bambino deve avere una mamma e un papà. La Russia ha scelto di sospendere le adozioni con tutti i paesi stranieri tranne che con l’Italia, perché qui non ci sono coppie gay”, disse. “Se è così, viva la Russia”. E nei giorni scorsi ha bacchettato Flavio Tosi, reo di avere annunciato di voler introdurre a Verona il registro delle famiglie di fatto: “Penso che le emergenze per i sindaci siano abbassare le tasse e aprire scuole, asili e ospedali”. Ma Tosi, con le sue giacche televisive e la sua lista trasversale, senza Berlusconi ma con il Pd, è un colpo d’occhio anomalo per Salvini. Perché l’estetica è politica, e Tosi oggi dice di essere pronto a candidarsi alle regionali contro Luca Zaia. Il giochetto sulle coppie di fatto è solo un segno in più, nel sistema della moda politica, che per la Lega ci sono strade diverse.

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  • Maurizio Crippa
  • "Maurizio Crippa, vicedirettore, è nato a Milano un 27 febbraio di rondini e primavera. Era il 1961. E’ cresciuto a Monza, la sua Heimat, ma da più di vent’anni è un orgoglioso milanese metropolitano. Ha fatto il liceo classico e si è laureato in Storia del cinema, il suo primo amore. Poi ci sono gli amori di una vita: l’Inter, la montagna, Jannacci e Neil Young. Lavora nella redazione di Milano e si occupa un po’ di tutto: di politica, quando può di cultura, quando vuole di chiesa. E’ felice di avere due grandi Papi, Francesco e Benedetto. Non ha scritto libri (“perché scrivere brutti libri nuovi quando ci sono ancora tanti libri vecchi belli da leggere?”, gli ha insegnato Sandro Fusina). Insegue da tempo il sogno di saper usare i social media, ma poi grazie a Dio si ravvede.

    E’ responsabile della pagina settimanale del Foglio GranMilano, scrive ogni giorno Contro Mastro Ciliegia sulla prima pagina. Ha una moglie, Emilia, e due figli, Giovanni e Francesco, che non sono più bambini"