E' morto David Carr, il gigante del New York Times che sapeva raccontare storie come pochi
Tre ore prima di morire David Carr stava chiedendo a Edward Snowden se gli davano abbastanza da mangiare. Se ne stava lì assieme alla squadra degli eroi della trasparenza a parlare del documentario CitizenFour e contestualmente a sbracare nel solito dibattito sul futuro del giornalismo, di quelli che faceva in continuazione senza prenderli sul serio.
Tre ore prima di morire David Carr stava chiedendo a Edward Snowden se gli davano abbastanza da mangiare. Se ne stava lì assieme alla squadra degli eroi della trasparenza a parlare del documentario "CitizenFour" e contestualmente a sbracare nel solito dibattito sul futuro del giornalismo, di quelli che faceva in continuazione senza prenderli sul serio: “Per quel che ne so, il futuro del giornalismo indossa un cartellino e parla su un palco”. Poco dopo è morto, collassato nell’open space del New York Times, dove lavorava, probabilmente dalle parti della scrivania che è familiare a chi ha visto “Page One” di Andrew Rossi.
Carr era di fatto il protagonista di quello spaccato di vita della Gray Lady, e non necessariamente perché avesse più spazio o fama dei suoi colleghi, ma perché quella faccia scavata montata su un collo troppe esile per sorreggerla bucava lo schermo. Almeno quanto la penna bucava la pagine. Appena si è diffusa la notizia su Twitter il fiume dei suoi ammiratori ha detto e scritto all’unisono la stessa cosa: fa che non sia vero, così leggeremo il migliore articolo di sempre: Carr che commenta la falsa notizia della sua morte. Una breve nota del direttore del New York Times, Dean Baquet, ha confermato: il “miglior reporter della sua generazione” s’era accasciato in redazione ed era morto in ospedale. Si occupava di media, Carr, aveva un mucchio di teorie sul mestiere e pure un pizzico di retorica anglosassone sul cane da guardia del potere, ma quello che lo distingueva era l’infinita capacità di raccontare storie, di scovarle e farle vivere. Una volta ha detto che il reporter è come un eroinomane che si sveglia e sente l’impulso di uscire alla ricerca della droga, poi torna a casa e se le inietta, o inala. Il cronista esce alla ricerca di una storia, poi torna a casa e la scrive, la mette online.
Lui nel crack c’era finito per davvero, lo ha raccontato in un libro costruito come un esperimento di giornalismo vagamente lacaniano in cui l’autore raccoglie prove e testimonianze attorno al se stesso di una vita precedente. Dote rara saper portare senza impacci il cappello dell’intervistato e quello dell’intervistatore, contemporaneamente poi. Forse anche per queste cose portava male i suoi 58 anni. Della sua età in un settore di ragazzini rideva spesso, ieri mattina ha scritto su Twitter che il collega Nick Bilton gli lascia i messaggi sulla segreteria telefonica perché è abbastanza vecchio per ascoltarli. Di Brian Stelter, giovanissimo e fenomenale vicino di scrivania alla Cnn, diceva: “Non riesco a togliermi di dosso l’impressione che sia un robot assemblato nello scantinato del New York Times con lo scopo di distruggermi”. E’ una battuta che sembra scritta da Aaron Sorkin, e infatti lo sceneggiatore l’ha citata una volta durante un’intervista a Carr (Sorkin intervistava Carr, non viceversa). E poi le frustate di umorismo, l’autoironia, la capacità di allontanare per un attimo la telecamera mentale, ridere della cosa serissima di cui si stava occupando, e poi rimettere a posto lo zoom.
Era contemporaneamente il cronista più cool e più goffo di New York, e infatti non poteva che vivere in New Jersey, in un paesaggio suburbano più simile a quello del Minnesota in cui è cresciuto. Memorabile la chiosa che ha fatto al ceo di Vice, Shane Smith, che faceva un po’ troppo lo sbruffone parlando delle coraggiose inchieste nella Liberia violenta dove in mancanza di latrine la gente fa i bisogni sulla spiaggia: “Quando ancora non c’eri il Times raccontava genocidio dopo genocidio, metterti un elmetto da safari in testa e vedere un po’ di cacca non ti dà nessun diritto di giudicare”. Era cristiano di specie “churchgoing”, cattolico in pratica più che in teoria (strana specie in tempi spirituali-ma-non-religiosi), contento di “non dover inventare un mito della creazione per i miei figli” e affascinato da quel bene di cui s’era sentito oggetto negli anni drammatici del recupero dalla dipendenza: “Lungo il cammino sono stato aiutato da tutti questi sconosciuti che si vedono in una stanza, fanno terapia di gruppo e vivono secondo certe regole; una delle regole è che devi aiutare chi ha bisogno di aiuto. E mi sono detto: beh, è notevole. Non solo non è un impulso umano, ma non è un impulso che sento dentro di me. Fra tutte le altre cose sono una persona davvero fantastica e generosa? Oppure c’è una forza più grande di me che mi fa agire in modo altruista e disinteressato e questo conduce a un bene più grande? Questo è il massimo a cui sono arrivato”.
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