A tu per tu
Il gemello di Matteo Renzi
L’amicizia con il premier (c’entra il Risiko). Le strade parallele e il futuro. Affari e politica. E poi Berlusconi (mai votato, ma...). A tu per tu con Marco Carrai.
Milano. “Un giorno a Greve in Chianti, al mio paese, venne Giacomo Billi, il segretario del Partito popolare italiano, quello della scissione. Avevo vent’anni, credo fosse il 1995, ero un ragazzino appassionato, facevo un po’ di politica, dirigevo con un amico un giornale parrocchiale, si chiamava Quelli che il Chianti. Ecco, in quell’occasione, alla riunione con Billi, qualcuno mi suggerì: guarda che a Firenze ci sono dei giovani che s’incontrano ogni settimana alle Cure, nella sezione del partito, perché non ci vai? Dovevo un po’ distrarmi, avevo problemi di salute, anche se non mi fermavo mai. Allora presi le mie stampelle, mi feci accompagnare in macchina da mia madre, e andai a vedere”. Ma lì non trovò quattro o cinque ragazzi di paese grezzi come le panche dove sedevano, “ci trovai Matteo Renzi”. Fondarono un giornaletto, “scrissi il mio primo articolo su La Pira”, e da allora lui e Renzi, che di anni ne aveva anche lui venti, non si sono più lasciati, “un’empatia fenomenale”, sempre insieme, tra politica e accanite partite di Risiko (“capitava pure che ‘qualcuno’, non ti dico chi, vedendo che stava per perdere, mandava ‘accidentalmente’ il tabellone per aria”). Prima è quasi un gioco: la lista per le elezioni universitarie, “ovviamente vincemmo noi”. Ma poi si comincia a fare sul serio, “eravamo ancora bambini e ideammo un questionario da distribuire a tutti i nuclei famigliari di Firenze per avere un riscontro sull’operato di Leonardo Domenici, che era allora sindaco di Firenze”. Sempre più sul serio: “Matteo divenne segretario provinciale del Ppi e io il suo assistente”, poi Renzi divenne segretario provinciale della Margherita “e io il suo assistente”, poi divenne presidente della provincia di Firenze “e io caposegreteria e consigliere comunale”, poi sindaco “e per un breve periodo io suo consigliere”, e poi su, su, lungo le pareti ripide della rottamazione, dentro il Pd, fino a Roma, fino a Palazzo Chigi, dove lui però non è andato. Allora gli chiedo brutalmente: ma che lavoro fai oggi? “L’imprenditore”, risponde. E alzando lo sguardo incontro due occhi vivaci e mobilissimi di trentanovenne brevilineo, scrupoloso nei gesti, il volto segnato da una cicatrice sul labbro superiore, unico segno visibile di sofferenze passate e mai dimenticate, che però gli dà carattere. Congetture d’ogni genere volteggiano intorno a Marco Carrai. E glielo dico: sei il lobbista di Renzi, il suo Gianni Letta, il Richelieu, gli hai presentato tutte le persone che si devono conoscere, anche gli americani e gli israeliani. Ma sono illazioni che forse gli graffiano i nervi. “Non funziona, non è vero”, sorride. “Certo che gli ho presentato le persone che conosco. Facciamo così sin da ragazzi, siamo amici. Non è ovvio che succeda? Ma lui fa un mestiere, io un altro. E nessuno dei due confonde l’amicizia con i rispettivi ruoli. Gianni Letta per Berlusconi è stato, o è, un’altra cosa”. Lo conosci Letta? “L’ho conosciuto”. E… “e penso che sia un pezzo di storia d’Italia”. Berlusconi? “Mai visto”. E Denis Verdini? “L’ho conosciuto”. A Firenze? “No, a Roma, l’ho visto una volta, a pranzo… con Giuliano Ferrara”, e si mette a ridere, d’una risata spontanea, contagiosa.
Gli dico che l’elenco delle cariche che ricopre, in svariate società, è impressionante, infinito. “Sono società interamente mie o società di cui sono socio. L’unica società nella quale lavoro come manager è l’aeroporto di Firenze. Ma tutte queste cose spesso vengono raccontate come se ci fosse qualcosa di male”. Balzac diceva che dietro ogni grande fortuna si nasconde un delitto. “E io invece penso che dietro le grandi fortune si nasconde un’intuizione geniale. O una grande determinazione. Sono ottimista sulla natura umana. E sono anche molto, molto meno ricco di quello che si favoleggia in giro”. E insomma, dice, esiste tutta una tipologia di persone che troppo presto si rassegna all’idea che la vita sia un inganno. E così, invece di combattere e darsi da fare, criticano, mal pensano, e chiamano il mondo triviale e baro: dimenticando che la loro stessa critica finisce per essere una trivialità e un imbroglio. Gli chiedo se è vero che è stato berlusconiano, come ho letto sull’Espresso. “Nel 1993 ho fondato e tenuto in piedi, per alcuni mesi, un circolo di Forza Italia. Ma poi vidi che tutte le persone che frequentavano casa mia, che erano della vecchia Dc esplosa, andavano dall’altra parte. Andavano con la sinistra. Allora lasciai. Ma io non ho mai votato Forza Italia. Il mio primo voto lo diedi a Raffaele Tiscar, che era candidato alla Camera per il Partito popolare”. E qui Carrai mi spiega che in quegli anni ebbe un’immediata simpatia emotiva per Berlusconi. Era rimasto dolorosamente colpito da certi eccessi e dalla violenza un po’ giacobina che in Italia montava assieme all’inchiesta di Mani Pulite. Gli chiedo allora se Renzi è mai stato berlusconiano. Mi assicura di no.
Carrai parla col garbo d’una fierezza temperata di humor, una cadenza toscana non esibita, ma presente. Dopo i primi cinque minuti di conversazione si comporta con te come se tu fossi un vecchio amico che non rivedeva da tanto tempo. “Il mio carattere mi ha aiutato, anche nel lavoro”, mi dice. “Io capisco le persone, o almeno credo. Capisco le loro esigenze. E non do importanza al denaro, che non è un fine ma un mezzo”. Dunque la Bentley con sedili in pelle umana posteggiata qui sotto non è tua? “Io ho una Cinquecento L. E’ una macchina fighissima”. Che ne pensi di Sergio Marchionne? “E’ un bravissimo manager che ha saputo capitalizzare l’intuizione di Paolo Fresco, che fece l’opzione con la General Motors salvando così la Fiat”. Posso chiederti quanto guadagni? “Certo”. Quanto guadagni? “Compresi i dividendi azionari?”. Non lo so, fai tu. “Diciamo, all’incirca, all’incirca…”, e mi dice una cifra per la verità non spaventosa. Poi aggiunge, sornione: “In realtà guadagno di più”. E a questo punto mi fa l’occhiolino. Poi siccome riesce misteriosamente a leggere i miei appunti, e vede che scrivo tutto, viene improvvisamente assalito da una pericolosa ombra associativa, insomma realizza l’equivoco potenziale, e ridendo mi urla: “Fermo! Non scriverlo così! Poi quelli pensano che ci sia il nero! Io stavo dicendo una cifra al netto dei dividendi”. E ride, ride ancora, con un non so che di carezzevole, di giovane. E mentre lo osservo, penso che dove il suo amico Matteo Renzi appare arruffato e distratto nel vestire, tanto che una volta, al Quirinale, Giorgio Napolitano lo rimproverò per un certo abbagliante completo color ghiaccio, lui invece è attento, d’un eleganza asciutta, di taglio inglese, come sono certi fiorentini di buona famiglia: la giacca di lana blu gli cade morbida sulle spalle e sul gilet, ton sur ton, camicia celeste, niente patacche al polso, l’orologio d’oro quasi non si vede…
[Vai dal sarto? “Solo per le camicie. E’ un lavoro bellissimo quello del sarto. George Bernard Shaw diceva che la persona più intelligente che lui conoscesse era proprio il suo sarto. ‘Perché mi prende le misure tutti i giorni’. Ma ti dico una cosa. Io sto per lanciare un’azienda che permetterà di confezionare vestiti su misura facendo semplicemente passare le persone sotto un laser”. Ne parla in tono grave, e tuttavia carico di aspettative romanzesche]
… mi spiega che una certa attenzione per il codice d’abbigliamento l’ha ereditata dal nonno paterno. “Nel Dopoguerra era il proprietario di un’impresa di demolizioni industriali”, mi racconta, “smantellavano e rivendevano il metallo alle ferriere. Era una famiglia molto ricca e antica, ma finirono quasi sul lastrico, erano grandi possidenti terrieri in origine, tra i più grandi produttori di giaggiolo in Italia”. Giaggiolo? “Serviva nell’industria profumiera: serviva a fissare il profumo. Purtroppo però a metà dell’800 il prezzo del giaggiolo crollò e loro perdettero tutto, o quasi. Poi mio nonno si reinventò nell’attività industriale, e negli anni Ottanta era proprietario di diversi magazzini edili, attività che ha proseguito anche mio padre”. Un nonno paterno raffinato, collezionista e rivenditore d’arte, “casa sua è ancora per certi versi un museo”, che fu fascista e poi amnistiato da Togliatti, e un nonno materno invece di sinistra, ma cattolico, proprietario d’un negozio d’alimentari, “lavorava i maiali e produceva salumi. Era una persona umile e di grande dignità. La notte lavorava i maiali, preparava dei prosciutti che poi consegnava gratuitamente alla mensa d’un orfanotrofio ecclesiastico. Lo faceva quasi in segreto. Una volta mi disse che ‘le opere di carità si fanno in silenzio’. Da lui ho anche imparato ad amare la mia terra e le mie origini”. Famiglia cattolica e formazione cattolica, dunque, un padre che giocò nelle riserve della Fiorentina, “con mio grande orgoglio”, e una mamma maestra di scuola, “che abbandonò il lavoro per starmi dietro negli anni in cui sono stato male”.
A sedici anni Carrai fu ricoverato in ospedale per un’operazione banalissima, era il 1993. Ma le cose si complicarono. E ne uscì definitivamente soltanto sei anni dopo, che ne aveva ventidue. “Mi ero perso la maturità con i compagni di classe, le prime serate in discoteca, le partite di pallone, tutto… Ma in quegli anni in ospedale io ho scoperto la vita, ho fatto mille cose, e non mi sono più fermato. Il tempo è l’unica variabile economica non recuperabile”. Bellissimo concetto. “Infatti è di Adam Smith”, dice ridendo. Ed è come se in quegli anni, di cui mi racconta con pudore l’essenza, lui avesse messo in banca un capitale di sottigliezze che adesso spende un poco alla volta nella vita. “Mio nonno mi diede il primo gruzzoletto, mi aprì un conto in banca, e io cominciai a giocare in Borsa. Dal letto d’ospedale. Ancora non esisteva il trading on-line, allora facevo l’home banking, compravo azioni al telefono, e seguivo l’andamento delle quotazioni sul televideo. Diceva mia madre: ‘Te, dal letto di casa, governi un monte di cose’. E in effetti fondai un giornaletto parrocchiale, poi credo d’aver letto qualcosa come duemila libri, Pirandello, Sciascia, Tolstoj, i francesi e i russi, qualsiasi cosa. In quel periodo ho letto i due libri che più mi hanno segnato: Resistenza e resa di Dietrich Bonhoeffer, e Terra degli Uomini di Exupéry. Poi quando stetti un po’ meglio, nel 1998, mi diplomai al liceo scientifico, feci tre anni in uno. Fondai anche una squadra di calcetto”. Ma non potevi giocare. “Ero il presidente”. Uomo mite, cordiale, sembra non abbia trovato in tutta la vita un solo affare o interesse, o passione, che non gli abbia avviluppato l’anima come un serpente: “Io mi annoio molto rapidamente. Devo sempre fare e inventare cose nuove. Apro continuamente delle start-up”. E insomma crede in Dio, crede in se stesso, qualche volta si può avere l’impressione che sia una fede unica. Ma quando glielo si fa notare s’impensierisce. Si fa serio. “Cerco di essere modesto. Se posso”. Poi torna spiritoso, gli è venuta in mente una battuta: “Woody Allen dice che gli ebrei sono tutti intelligenti, e quando uno non lo è lo battezzano. Ecco io mi ritengo mezzo ebreo”.
E in cosa ti sei laureato? “Non sono laureato. Mi iscrissi a Medicina, e poi a Economia e commercio. Appena cominciai le lezioni di Economia e commercio seppi che ero stato ripescato a Medicina, dove probabilmente qualcuno aveva rinunciato al suo posto a numero chiuso. Ma non ci andai. A quei tempi facevo politica in paese, ero assessore a Greve in Chianti. Un giorno ero all’università per un esame, e mi avvicinai al professore chiedendogli se potevo dare l’esame subito, per primo, visto che avevo un impegno di lavoro a Verona e mi trovavo un po’ in difficoltà. Quello mi rispose così: ‘I suoi impegni di lavoro non sono compatibili con l’università’. Allora io gli risposi che aveva ragione. Quindi gli voltai le spalle e all’università non ci rimisi più piede. Qualche mese dopo lavoravo al Mit di Boston, come consultant. A volte la laurea non serve. Un cervello ce lo dà nostra madre quando ci mette al mondo, l’altro ci viene dallo studio, ma il terzo ci viene da una vita giusta”. E di che ti occupavi a Boston? “Mi occupavo di innovazione e digitalizzazione applicata ai servizi di pagamento bancario”.
Quella in cui mi ha ricevuto, al terzo piano di un bel palazzo su una strada molto borghese e trafficata di Milano, è una grande stanza disadorna, senza niente alle bianche pareti, come d’operoso minimalismo, da ufficio del catasto, ma lindo, con i segni evidenti d’un posto in cui si è lavorato e ancora oggi si lavorerà: un paio di bottiglie d’acqua minerale e dei blocchetti per appunti su un lungo tavolo ovale esposto al livore del neon. In un angolo invecchiano una decina di grossi, indecifrabili volumi rilegati in verde. Dalle finestre, al piano terra del palazzo di fronte, si può leggere questa intestazione, in grossi caratteri dorati: “Della Valle”. Sono gli uffici del signor Tod’s. Siete amici? “E’ un grande imprenditore, che rispetto. Anche se mi dispiace quando critica Renzi. E sbaglia”. In questa azienda cosa si fa? “Ci occupiamo di consulenza strategica e di analisi dei big data. Siamo una delle prime società del mondo nel campo dei big data, lavoro con partner americani e israeliani, anche con il Mit di Boston”. Casa dov’è? “A Firenze. Poi viaggio. Un giorno alla settimana lo passo a Roma, due li passo a Milano, e il resto sono in giro, spesso vado a Tel Aviv”. Non hai casa a Milano? “No. A Milano dormo in un albergo della catena Star Hotel, che appartiene a una mia amica fiorentina. Il giglio prima di tutto”. Libro sul comodino? “’Io confesso’ di Jaume Cabré”…
[Mi siede di fronte, al di là del tavolo, si è leggermente reclinato sulla sedia, eppure, da una distanza non indifferente, noto che continua a leggere quello che scrivo sul taccuino. E infatti: “No, no, stai sbagliando, non si scrive Cabret, è spagnolo. Si scrive Cabré”. Ma che fai mi controlli? Lui sorride, candido. “No, scusa. E’ che sono un po’, come dire, autistico”. Si mette a ridere, come rivolto a un pensiero lontano. “Pensa che da bambino giocavo Fiorentina-Juventus da solo, in camera da letto”]
[**Video_box_2**]Ancora non ho capito che lavoro fate qui. “Analizziamo i dati su internet. Dall’analisi dei dati puoi capire tutto del mondo e delle persone. Sai quanti byte vengono trasferiti nel mondo in un solo giorno?”. No. “50 miliardi di miliardi. E’ come se ogni giorno ‘Guerra e Pace’ venisse stampata centocinquanta miliardi di volte. Se tu analizzi tutte queste informazioni, se le studi, puoi rendere la vita delle persone e della società molto più semplice. Puoi rispondere ai bisogni”. E insomma, dice, con l’analisi dei big data è come se tutta questa imprecisa agglomerazione di futuro, sospesa sul mondo, trovasse all’improvviso uno scopo, contraendosi in un presente ben delimitato e affrontabile. “Noi adesso abbiamo elaborato un software che fa predizioni, cioè analizza i social network e ti dice quale prodotto devi proporre sul mercato per avere maggiori chance di vendita”. La sua cotta per le scienze della new economy, le scienze della natura digitale, gli è maturata nella persuasione di una loro onestà e validità. E’ come se tenerne ben presenti le conclusioni gli paia un impegno di coscienza, non solo un obbligo di coerenza intellettuale. E in questo mondo incorporeo mantiene una fede umilmente, dolcemente incrollabile, sorda a ogni scetticismo, superiore a ogni ironia. “Anche Bonhoeffer, che era un teologo, fa una grandissima storia di come si può anticipare il futuro. Anche quelli sono big data… Ma tu lo sai come funzionava la campagna elettorale di Obama? Lui analizzava i big data, e sapeva che in un determinato caseggiato c’erano 200 appartamenti: 100 di repubblicani, 50 di indecisi, e 50 di democratici. Lui andava lì, e già sapeva dove bussare”. E qui arriviamo a una certa filosofia di vita, che forse è anche quella di Renzi, chissà. “Prendi Twitter”, mi dice. “Twitter è un grande rivelatore di dati e di informazioni”. Testa ordinata linearmente, Carrai cerca di far quadrare i dati, salvo alzare da questa pedana i suoi voli speculativi: “Twitter sta ai giornali come la politica moderna sta a quella antica. Twitter rapprensenta la velocità, i giornali la profondità, come i nuovi sistemi economici sono la velocità mentre i vecchi la profondità. La banca, l’istituto banca, dal 1500 in poi ha fondato la sua economia sul banco, dove le persone gestiscono le operazioni con un rapporto personale nei confronti del bancario. Ma ora si fanno sorpassare da Apple pay. Oggi se pensi di essere soltanto profondo senza essere anche veloce non riesci. Se tu pensi di aggredire il mondo solo con la profondità, il mondo non ti ascolta. Pensa a Papa Francesco. Lui parte da uno slogan, ma poi è profondissimo”. Obietto: Angela Merkel non usa Twitter. Risposta secca: “Merkel è il più straordinario, simbolico, grande e funzionante esempio della politica com’era una volta, e come non potrà più essere”. Okay.
Domanda: ma con Renzi ci giocavate al computer da ragazzi? “Forse alla Playstation, ma soprattutto accanitamente Risiko, anche adesso qualche volta giochiamo con i suoi figli”. E a calcio? “Io a pallone ero bravo. Quando mi operarono, quel giorno disgraziato, ai medici infatti chiesi di intervenire sulla gamba sinistra. Insomma a pallone io ero forte, anche se non gioco più. Matteo invece non gioca a pallone” (sorriso allusivo). Come non gioca! Ho visto le foto. “Faceva l’arbitro”. Ma a pallone gioca! “Di solito a chi non sa giocare cosa gli fanno fare gli amici?”. A me mi mettevano in difesa. “E a lui lo mettevano a fare l’arbitro”.
A questo punto faccio a Carrai una raffica di domande, tipo: parli bene l’inglese? (“Parlo americano”); a New York hai casa? (“No, ma dormo sempre nello stesso albergo. All’Hotel Michelangelo, che è uno Star Hotel, sempre la stessa catena di alberghi fiorentina. Invece in Israele dormo all’Hilton, ma solo perché non c’è uno Star Hotel”). Film preferito? (“Qualcuno volò sul nido del cùculo”). Dove vai in vacanza? (“Mi piace il mare d’inverno”). A Pranzo mangi? (“Io sono allergico a tutto. Mangio pochissime cose. Oggi, per esempio, pesce lesso, verdure cotte e riso in bianco”). Ecco, andavo facendogli questo genere di domande, quando, all’ennesima sulla sua vita privata, lui mi interrompe. Pausa scenica. Sguardo sornione: “Sai che c’è?”. Prego. “Sembri il mio omeopata. Mi fa le stesse domande”. Allora sollevo lo sguardo e lo vedo, con le braccia incrociate e il suo risolino sulle labbra. Contempla la sua vittima in atto di vivissima soddisfazione. Gli dico: anche Renzi ha la battuta pronta. E lui, con l’aria del gemello omozigote del presidente del Consiglio: “Abbiamo qualcosa in comune… Anche se lui tifava McEnroe, mentre io ero per Lendl”. Al che, io, al massimo della confusione, gli dico: purtroppo di calcio non ci capisco niente. E sembro Totti con l’inglese. Sicché lui mi guarda con un’espressione dolce e rassegnata, quella con cui si ascoltano gli avulsi. “Veramente è tennis. Comunque adesso tifiamo entrambi per Federer”. Lo lascio così, che ancora sorride, e ha l’aria di chi si sente preso per il gomito dalla buona sorte e si lascia fiduciosamente sospingere verso gioiose scadenze.
La collana “A tu per tu” di Salvatore Merlo ha ospitato finora Ferruccio de Bortoli (19 febbraio 2014), Ezio Mauro (22 febbraio 2014), Giancarlo Leone (1° marzo 2014), Flavio Briatore (7 marzo 2014), Fedele Confalonieri (15 marzo 2014), Giovanni Minoli (29 marzo 2014), Luca di Montezemolo (3 aprile 2014), Urbano Cairo (10 maggio 2014), Claudio Lotito (2 luglio 2014), Giovanni Malagò (26 luglio 2014), Beppe Caschetto (9 ottobre 2014), Bruno Vespa (29 novembre 2014), Vincino (10 gennaio 2015).
Il Foglio sportivo - in corpore sano