Quelli che “se arriva il Jobs Act ti assumo anche oggi”

Cristina Giudici

Veneto, Piemonte, Marche. Viaggio tra gli imprenditori che aspettano il via libera per dare spazio a nuovo lavoro.

    Milano. I primi a rompere le righe sono stati i veneti, impazienti di entrare nella nuova èra del Jobs Act. Sin dai primi giorni del 2015, sfruttando i benefici degli sgravi fiscali previsti dalla legge di stabilità per ogni nuova assunzione, hanno cominciato ad aprire le porte degli stabilimenti a nuovi dipendenti. Per la maggioranza degli imprenditori, la legge delega detta Jobs Act significa una cosa sola: contratto a tutele crescenti. Lo ripetono come se fosse un mantra, lo considerano uno spartiacque fra il passato e il futuro. Capace di abbattere la gabbia dell’incerto presente, intrappolato nell’attesa di riforme strutturali sempre disattese e ogni volta riformulate. Questa volta, sperano, se non ci sarà il fatidico ultimo intoppo, il maledetto muro del trentesimo chilometro che fa crollare i maratoneti, la marcia della legge delega del Jobs Act arriverà al traguardo. Nel Consiglio dei ministri del 20 febbraio dovrebbero essere approvati due nuovi decreti attuativi, fra cui quello più agognato come il vessillo di una nuova epoca: il nuovo contratto a tutele crescenti. Ossia il superamento, di fatto, del totemico articolo 18 che permetterà di interrompere un rapporto di lavoro attraverso un indennizzo.

     

    L’intoppo, al momento, rimane in agguato dietro l’angolo, lo sanno gli imprenditori e lo sa Matteo Renzi. La commissione Lavoro della Camera ha rinviato alla prossima settimana (nonostante il termine scadesse ieri) il suo parere sui decreti attuativi. Il rinvio è un chiaro segno che l’accordo sui licenziamenti collettivi non c’è ancora. E il presidente della commissione, Cesare Damiano, ha ribadito che “la proposta pd al Senato su cancellazione licenziamenti collettivi va in giusta direzione”.

     

    Ma è questa la sfida più importante da vincere per il premier nel 2015: approfittare della (quasi) fortunata congiuntura economica internazionale per completare la riforma del mercato del lavoro e incentivare gli investimenti. Nel frattempo però, nel cosmo dell’economia reale e dentro le imprese che annusano un segnale di ripresa, il clima sta cambiando. Sergio Marchionne si era già sbilanciato a gennaio: “Con il Jobs Act assumerò mille lavoratori a Melfi”, mentre il presidente della Confindustria veneta, Roberto Zuccato, ha già anticipato l’oroscopo regionale per il 2015: “Con il Jobs Act, prevedo una fiammata di assunzioni”, ha azzardato. Luciano Miotto, presidente di Imesa spa, un’azienda della marca trevigiana che produce ed esporta lavatrici industriali formato gigante anche in Arabia Saudita, ha assunto i primi quattro dipendenti. E messo in lista d’attesa altri collaboratori con contratto a termine, da inserire in azienda dopo l’approvazione del decreto attuativo con le nuove regole. “Un mio collaboratore mi chiama quasi tutti i giorni per sapere quando verrà assunto. Io gli rispondo sempre allo stesso modo: un’ora dopo l’entrata in vigore del nuovo contratto, sei dentro”, racconta al Foglio Miotto, che è anche vicepresidente vicario della Confindustria veneta, per far capire che il tempo della fiducia sarà però limitato. “Mi pare dannoso continuare a insistere con la descrizione dell’archetipo negativo dell’imprenditore assetato di sangue dei lavoratori”, ragiona. “Se io investo su un giovane per insegnargli le conoscenze tecnologiche necessarie a costruire o gestire macchine complesse che mi costano un milione di euro, il mio interesse è quello di tenermelo in azienda. E garantirgli stabilità contrattuale”, spiega. “Il nuovo contratto previsto dal Jobs Act permette semplicemente di fare delle scelte che non siano irreversibili e mettersi al riparo da infiniti contenziosi. Mi pare corretto che il lavoratore sia protetto da discriminazioni, ma al contempo mi sembra logico che in azienda si introduca la possibilità di divorziare dal proprio lavoratore, consensualmente”. E infatti, alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo contratto – si presume dai primi giorni di marzo se le ultime schermaglie verranno superate – la metafora preferita dagli imprenditori è quella del matrimonio, che ben si confà alla libertà e al rischio d’impresa. “Se si sposa un lavoratore, si deve essere liberi anche di divorziare”, osserva Licia Mattioli, presidente degli industriali torinesi. Anche se poi il lavoro non lo creano i decreti. Fra gli imprenditori che hanno annunciato nuove assunzioni, c’è stato anche chi, come Fabio Franceschi, titolare di Grafica Veneta, un padovano che con le sue edizioni ha fatto il giro del globo riuscendo a stampare Harry Potter pure in Russia, ha dichiarato di aver previsto cinquanta nuove assunzioni nel 2015. Convinto che non ci si debba rompere la testa sui decreti attuativi: “Se stiamo sempre lì a pensare che una volta fatta la legge è creato l’inganno, non si va da nessuna parte. Sono fiducioso sul Jobs Act”, afferma. D’accordo, i veneti ci tengono a dimostrare di essere i primi della classe, soprattutto dopo aver fatto i conti con il tramonto del miracolo economico degli anni 90 e con la sconfitta del modello “piccolo è bello”; ma c’è anche chi, discretamente e senza fare annunci, ha fatto investimenti rilevanti. Con elenchi di assunzioni a due zeri. Anche in Piemonte l’atmosfera è di attesa mescolata a un morigerato ottimismo sabaudo. Le piccole aziende ricorrono a nuove assunzioni attraverso i contratti interinali, mentre le più grandi, che se lo possono permettere, non attendono i tempi della politica e stanno investendo in capitale umano. In generale però, l’attesa è talmente trepidante che, paradossalmente, molti imprenditori decisi a fare nuove assunzioni, già dalla fine del 2014, stanno rimandando per timore di un nuovo rinvio, di qualche intoppo dettato da tempi lunghi della politica, che non sono quasi mai in sintonia con i ritmi veloci del mercato e dell’economia. Al governo chiedono una cosa sola: fate in fretta. Prima che il clima di fiducia provocato da qualche piccola percentuale di ripresa economica venga meno.

     

    A Roma, si attende la commissione Lavoro di Montecitorio. Non si sa ancora se il paletto dei contratti a termine in ogni azienda si fermerà al 20 per cento o se verrà ampliato al 30 per cento per andare incontro alle esigenze delle piccole imprese artigiane, che riescono a tenere la barra dritta grazie al ricorso ai contratti a termine. Si presume che la semplificazione già adottata dal ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, cancellerà definitivamente dal codice dei contratti alcune forme odiose, come il lavoro a chiamata e l’associazione in partecipazione, che hanno provocato molti abusi e amplificato la “flessibilità cattiva”, il colesterolo che nuoce alla salute del metabolismo imprenditoriale. Insomma c’è da disboscare la giungla contrattuale. Proprio ieri, Poletti ha convocato per mercoledì 18 i sindacati. Sarà un weekend di schermaglie a mezzo stampa. In nome della flexsecurity, si dovrebbero anche limitare le proroghe dei contratti a tempo determinato a due anni. E molti industriali – quelli che nella narrazione tragica fatta in questi mesi dai sindacalisti più oltranzisti sono stati descritti come dei cloni del perfido e avaro Scrooge di Dickens – plaudono alla scelta: è ovvio, lapalissiano, che due anni sono sufficienti per valutare doti, capacità e talento di un lavoratore. L’obiettivo del Jobs Act, nella testa dei suoi ideatori, non è solo quello di regolare la flessibilità cattiva. Ma di aiutare i protagonisti dell’economia reale a non avere più alibi né preoccupazioni e spingerli a fare investimenti e cavalcare la piccola onda della ripresa appena accennata (173 mila assunzioni nell’ultimo trimestre del 2014).

     

    Indipendentemente dal duello sulle cifre per il 2015: l’aumento previsto del pil da parte dell’Ufficio studi di Confindustria del 2,1 per cento è parso azzardato alla Commissione europea, che invece ha calcolato una stima molto più bassa, con un segno positivo limitato allo 0,6 per cento.

     

    Chi le regole le ha già cambiate

     

    Forse i detrattori della riforma non sanno che per molte aziende di nuova generazione, nate o risorte dalle ceneri grazie al matrimonio felice fra manifattura e hi-tech, incubatrici di laboratori in perenne evoluzione, il Jobs Act non è una rivoluzione epocale, ma piuttosto un adeguamento coerente allo spirito dei tempi (e delle loro aziende). Come dimostra l’esempio del gruppo marchigiano Loccioni. Immerso nella campagna, a Rosora, tra Fabriano e Ancona, l’azienda ha 450 dipendenti, età media 33 anni, e si definisce una sartoria tecnologica, anche se in realtà è un’open company di ingegneria che lavora con le multinazionali in diversi settori: energia, automotive, biomedicale ed elettrodomestici. Creata grazie a un ponte mai interrotto con scuole e università, la sua identità è stata forgiata da un patto generazionale. Infatti chi va in pensione, può restare come consulente e diventare membro della “silver zone”. Ossia tutor di neo laureati o dottorandi, che entrano in azienda con un progetto proprio da realizzare. L’anno scorso la Loccioni ha assunto 100 collaboratori che vengono chiamati “intraprenditori” (alla Loccioni il concetto di dipendente è considerato superato) e nel 2015 ne verranno assunti altri 100 perché il turnover aziendale è una norma, non l’eccezione. “Per noi la riforma del lavoro è auspicabile per le sue agevolazioni fiscali, certo, ma mi permetta di dire con presunzione che col nostro passo sostenuto, l’abbiamo preceduta da tempo. E quindi la vediamo più che altro come una filosofia coerente con la nostra cultura d’impresa”, spiega al Foglio il direttore generale del gruppo Loccioni, Renzo Libenzi. A Rosora ogni anno vengono ospitati mille studenti, sin dalla scuola elementare fino all’università, che poi possono tornare e proporre un proprio progetto da realizzare attraverso un tirocinio. In sintonia con la filosofia del Jobs Act che vorrebbe incentivare il tasso di produttività, nella open company di ingegneria fondata da Enrico Loccioni, i contratti a termine non superano i 24 mesi, e lì non hanno mai avuto il dilemma dell’articolo 18 per via del turnover. In azienda si fanno molte sperimentazioni, vi lavorano anche filosofi neolaureati che studiano e scrivono manuali di una nuova cultura aziendale incentrata sulla “tradinnovazione”.

     

    [**Video_box_2**]Certo, intorno al piano del lavoro, che rappresenta la grande sfida o un azzardo, dipende dalla prospettiva da cui lo si guardi, rimangono diversi nodi da sciogliere. Per gli allievi di Marco Biagi, come il professor Michele Tiraboschi, le legge delega del Jobs Act è eccessivamente focalizzata sul lavoro a tempo indeterminato, senza tener conto del mercato del lavoro oramai caratterizzato da un’estrema flessibilità. E vede nel Job Acts un tentativo di smantellamento della filosofia del lavoro di Marco Biagi. Nella newsletter della sua Associazione per gli studi comparati sul diritto del lavoro, si legge: “Costruire una riforma sulla centralità del contratto a tempo indeterminato significa non cogliere la molteplicità dei mestieri e delle professioni della digital economy, del capitalismo 2.0. Il lavoro va nella direzione della valorizzazione della persona e delle sue competenze, ridurre un soggetto alla legge e non alla realtà dei fatti sarebbe uno sbaglio enorme, che un governo riformista non può permettersi”. Anche le aziende artigiane, con pochi dipendenti non vedono nel Jobs Act molti benefici, tranne per l’eliminazione della casuale (l’obbligo di specificare le motivazioni e le mansioni di un contratto a termine), che ha ridotto i contenziosi e controversie in tribunale. I piccoli si sentono esclusi da una riforma, che per ora, secondo loro, ha ignorato le esigenze del popolo delle partite Iva. Le loro lamentele hanno indotto il ministro del Lavoro Poletti a promettere una correzione per estendere alcune tutele anche ai lavoratori autonomi.

     

    Poi c’è il dilemma, sollevato soprattutto dalle osservazioni del giuslavorista Pietro Ichino, relativo alla Pubblica amministrazione. Il nuovo contratto a tutele crescenti deve o non deve essere esteso alla pubblica amministrazione? Nella task force di Palazzo Chigi, che sta lavorando alla legge delega, si sostiene che sia impossibile perché la morfologia della Pubblica amministrazione non può essere assimilata a quella dell’impresa privata, fondata sul rischio d’impresa. Pietro Ichino invece non è d’accordo e nel suo blog ha riportato una riflessione di Francesco Verbaro, professore della Scuola nazionale della pubblica amministrazione, il quale spiega in punto di complessi argomenti giuridici le ragioni per cui sarebbe errato limitare il perimetro del Jobs Act solo al settore privato perché si verrà a creare un problema di come garantire lo stesso trattamento ai neoassunti nel settore pubblico e nel privato, senza creare una sorta di apartheid.

     

    E’ probabile, quindi, che si affronti questa discrasia in una seconda fase, dopo la riforma della Pubblica amministrazione, ma la verità pare la seguente: ora la priorità del governo è aiutare le aziende che contano su fatturati rilevanti e stanno gonfiando le vele, prima che sia troppo tardi. I maratoneti del Jobs Act sono ottimisti.