Elogio dell'imperfezione di Saul Goodman, l'avvocato di "Breaking Bad" che ora ha una serie tv tutta sua
"Better Call Saul" si è confermato essere tutto ciò che di meglio puoi chiedere a uno spin-off. Siccome gli americani le cose le fanno per bene, è allo stesso tempo in grado di vivere autonomamente e in grado di solleticare il piacere dei fan di Breaking Bad, che ritrovano i personaggi noti e le storyline.
Scrivere una serie perfetta è l’ambizione di tutti gli showrunner. Vince Gilligan con "Breaking Bad" ci è riuscito. Era il 2013 quando la season finale ci svelava finalmente la verità sul protagonista. Fino a quel momento Walt White era un professore di chimica cinquantenne malato di cancro, che aveva deciso di cucinare cristalli di metanfetamine sotto l’identità di Heisenberg, aiutato da Jesse Pinkman, un suo vecchio pessimo studente, per sostenere economicamente la propria famiglia. Questa è la prima di una lunga serie di decisioni moralmente discutibili. Siamo al confine: tra US e Messico, tra bene e male, tra legale e illegale, tra fedeltà e infedeltà. Tra perfezione e godimento, in una delle serie che ha segnato e plasmato il nostro immaginario culturale. Nel finale decide di dir(si) la verità: ha agito per puro egoismo. Breaking Bad è la storia di un uomo in piena solitudine morale che crede di meritare di più dalla vita, e che messo al bivio con la propria esistenza decide di smettere di fallire passivamente e iniziare a fallire attivamente.
Saul Goodman: Congratulations, you've just left your family a second-hand Subaru. (Breaking Bad: 4 Days Out)
"Breaking Bad" è stato un fenomeno culturale della serialità di prestigio capace anche di raggiungere il pubblico: l’ultimo episodio è stato visto da oltre dieci milioni di spettatori. Tra questi, anche gli amici di Bob Odenkirk il quale, quando è stato scelto nel ruolo di Saul, il mitico battutista e squallido avvocato, non aveva mai visto una sola puntata della serie di cui tutti parlavano. “E' la migliore in televisione, accetta”, gli ripetevano. Il resto della storia lo conoscete. Quando scrivi una serie perfetta che entra nel canone televisivo, finisce che desideri di più: scriverne una intenzionalmente imperfetta incentrata su quel personaggio marginale: Saul Goodman.
“Better safe than sorry. That's my motto” (Breaking Bad: Better Call Saul)
"Puoi fidarti di Saul", si legge sui fiammiferi che James McGill usa come biglietti da visita. Siamo nel 2002, a Albuquerque, sei anni prima che McGill scelga di farsi chiamare Saul Goodman, ed esca di scena da un seminterrato dicendo a Walt White che è finita, it's over; ben prima di tessere una rete sociale di criminali ("Conosco un tizio che conosce un tizio che ha un amico"); prima di tanti cellulari spaccati a mani nude; di essere l'Olivia Pope (Scandal) del New Mexico per il sottoproletariato spiantato. Prima di tutto questo Saul non era Saul. Ma è James McGill.
Saul non è Saul neppure all’inizio della puntata pilota, che temporalmente è collocata nel post "Breaking Bad", segnalato con un bianco e nero e un montaggio da arty slow cinema. La sua nuova identità è Gene, lavora da Cinnabon, e rende il posto un luogo delizioso, o così si legge sulla spilla che ha appuntato al grembiule. Capiamo che nonostante la copertura in Omaha in Nebraska, non si sente al sicuro. Passa le giornate solo, deprimendosi nella noia invernale di fronte al meteo o a scadenti venditori in TV, interrompendo lo spleen per riguardare vecchi nastri della precedente vita, quella del Saul Goodman che ti conveniva chiamare. Quegli slogan che dicevano “non è mai troppo tardi per la giustizia” e “Io indago, sostengo, convinco, ma soprattutto – pausa d’effetto – vinco”.
Saul non è ancora Saul, è James McGill. Ha un claustrofobico e disordinato ufficio nel retro di un salone di bellezza vietnamita, dove capita di sentire "Se bruciasse la città" di Ranieri, così come in "Full Measure", puntata numero 13 della terza stagione, capitava sentir Gale cantare una bella canzone in milanese, Crapa Pelada, interpretata dal quartetto cetra (se negli anni trenta il crapa pelada era Mussolini, in Breaking Bad è Bryan Cranston/Walter White nella sua parabola discendente da zero alla mascolinità distruttiva e antieroica). La scelta di canzoni che sottolineano la tensione è maestria insuperata degli sceneggiatori, i quali sono in grado di costruire macchine narrative a cubo di Rubik, dove twist e musica sono tutti artifizi per intrattenerci con intelligenza.
James non è ancora l'ammaliante e persuasivo avvocato che conosciamo. Non riesce a convincere il fratello paranoico a ritirarsi dallo studio che ha co-fondato e riscuotere le azioni milionarie, né la giuria che copulare con la testa di un cadavere è una bravata qualsiasi da ragazzi, né a farsi risarcire da due truffatori che gli hanno sfondato il vetro dell'auto; non convince neppure il posteggiatore (Mike, che ci fai lì?) a chiudere un occhio sul bollino mancante del parcheggio, santiddio, e a lasciarlo uscire senza pagare. Perché non ha un soldo. Perché scrivere fidati di me sui fiammiferi non è sufficiente.
La mirabolante tecnica dello stordimento a chiacchiera continua con cui lo abbiamo conosciuto e amato non si palesa fino a una tipica scena bivio: o vita o morte. Attenti a qualche spoiler. Siamo nel deserto. La scena del rapimento di Saul e degli skater che hanno tentato di truffare il pericoloso Tuco diventa l’occasione per giocare sulla relatività della verità: che parte bisogna interpretare per salvarsi la pelle? Dire ai criminali che sei un avvocato irlandese che ha convinto due ragazzini a truffare una donna, nella speranza che fiondarsi in soccorso di quest’ultima gli tornasse utile ad acquisire un cliente, o raccontare di essere un agente dell’FBI? Cos’è più inverosimile della verità di un avvocato che sta violando la legge e finisce nelle mani di un criminale messicano che, guarda un po’, è anche un paranoico e spietato?
"Tu sei il peggior avvocato" gli piagnucola uno dei due skater quando McGill lo accompagna in ospedale, dopo aver raggiunto un compromesso. In quel momento di mediazione tra gli interessi personali e gli interessi di un criminale folle si è intravisto un principio di Saul Goodman, un brav’uomo dalla parlantina di chi ha trenta secondi per convincerti a non sparargli.
"Better Call Saul" si è confermato essere tutto ciò che di meglio puoi chiedere a uno spin-off. Siccome gli americani le cose le fanno per bene, è allo stesso tempo in grado di vivere autonomamente e in grado di solleticare il piacere dei fan di Breaking Bad, che ritrovano i personaggi noti e le storyline. La pilota ha fatto fare alla AMC circa 4.4 millioni di spettatori. La critica soddisfatta e il prestigio culturale è salvo, la nicchia di fan anche, e il pubblico pagante della cable, pure. Merito, questa volta bisogna dirlo, del protagonista, uno che per vent’anni ha sempre recitato in ruoli minori o fatto da spalla a qualcun altro.
“If you're committed enough, you can make any story work. I once told a woman I was Kevin Costner, and it worked because I believed it” (Breaking Bad: Abiquiu)
La scelta di Bob Odenkirk per l'avvocato a cui a prima vista non ti affideresti mai, è dovuta alla sua carriera come stand-up e comico, è così che Gilligan lo ricordava. Solo nel pilot, Odenkirk parla più che in 3 intere serie di Breaking Bad. Ci vuole mestiere per girare scene lunghe. Sono un sacco di battute da ricordare, anche per un attore di talento naturalmente predisposto al ruolo, avendo con Saul molti punti in comune: mezzo irlandese, ha lavorato da MacDonald in passato, ha vissuto un periodo di penuria, per venticinque anni ha scritto sketch senza grossi riconoscimenti fuorché degli emmy per il "Saturday Night Live", e ha collezionato una serie di rifiuti (poi finiti in un libro intitolato amabilmente Hollywood say No!). Generalmente la reazione al suo nome sono due: “chi il cazzo è Bob Odenkirk”, e “E un genio”.
In un’intervista al Times, Odenkirk ha detto del suo personaggio: “Gli americani amano le persone che a 14 anni vanno a Harvard e diventano medici a sedici. Poi a 17 anni diventano campioni di basket. Il resto di noi sono trentenni che non sanno ancora quello che vogliono fare. Poi intorno ai cinquanta diciamo: hey, aspetta, lo so che faccio, quello che ho fatto per vent’anni”. Chiamasi: calarsi molto nella parte. Lungo una fila ci sono i prodigi e lungo l’altra quelli un po’ sbagliati che però alla fine ce la fanno. E si divertono parecchio.
Some people are immune to good advice. (Breaking Bad: Confessions)
[**Video_box_2**]In uno dei promo della serie, Bob Odenkirk dice una frase sul suo abito: “È stato fatto in Italia ed è stato intenzionalmente confezionato un po’ largo e un po’ sbagliato, difficile da fare”. È quel che si può dire dello stile di Vince Gilligan. Saul pare proprio così, un po’ sbagliato come i vestiti che porta. Un avvocato per criminali che è cresciuto come “Jimmy lo scivolone”, l’imbroglione da chiamare per fregare il prossimo. Uno che ha fondato il proprio studio in un salone di bellezza. Uno che conosce tipi loschi, i quali conoscono altri tipi loschi, i quali di solito ti fanno sparire i problemi — o te ne creano di più grandi. Non che non sia una brava persona, ma il confine morale è sempre oltrepassato. Saul vuole essere rispettato, vuole avere successo. Questa serie è esattamente come quell’abito: appena fuori moda in modo ricercato e intenzionale, e quindi cool. L’architettura minore della serie lo confermava già in Breaking Bad, fatta di autolavaggi, scuole pubbliche, bar e fast food, sale giochi, deserto. Fosse stato girato in italia avremmo visto sale Snai, Conad, vecchie pasticcerie, lunapark; ovvero sarebbe stato ambientato a Riccione. I luoghi preferiti sono a un passo dall’abbandono. Sono luoghi dove generalmente non ci trovi i vincenti, ma dove ti scontri per caso con quelle persone che per natura o per istinto di sopravvivenza fanno scelte sbagliate. A volte trasgrediscono la legge. A volte vengono arrestate. Altre volte incontrano Saul.
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