Il problema non è Sanremo in sé, ma il Sanremo in me
Non se ne esce. Il discorso da fare su Sanremo, quello utile (nel senso di complicato e per questo, oggi, inutile), sarebbe sulle nostre reazioni al fatto che il Festival esiste e persiste, ovvero su tutti i cliché in cui ci ficchiamo con gli occhi sbarrati da marionette per prendere posizione sulla kermesse per eccellenza.
Non se ne esce. Il discorso da fare su Sanremo, quello utile (nel senso di complicato e per questo, oggi, inutile), sarebbe sulle nostre reazioni al fatto che il Festival esiste e persiste, ovvero su tutti i cliché in cui ci ficchiamo con gli occhi sbarrati da marionette per prendere posizione, a prescindere da cosa offra, sulla kermesse canora per eccellenza, quella che ci inculca annualmente la nostra resilienza di italiani: non importa quanto odiamo noi stessi e quanto ci sentiamo inadeguati, continueremo per sempre a essere esattamente così.
Ma alla fine, invece di chiederci cosa sia questa compulsione al commento sanremese e perché ci illudiamo che prendere le distanze da quell'eterno kitsch e dalla sua retorica ci renda diversi o “migliori”, preferiamo lamentarci delle canzoni, della conduzione, dell'inutilità delle vallette (o come diavolo si chiamano adesso) e dei capi firmati scelti per loro. Forse il nostro problema è che, come sentiamo ripetere da decenni, “Sanremo è Sanremo”, e quindi non si può metterne in discussione la natura. Ma perché no? Sul serio: perché dev'esserci per forza Sanremo? E perché non può evolversi? Perché due versioni sostanzialmente identiche, quella “progressista” di Fazio e quella “tradizionale” di Conti, vengono spacciate per libere interpretazioni di un brand mentre ne sono entrambe schiave?
La visione del Festival, quest'anno, mi ha fatto sentire più fuori luogo e noioso del solito. Non annoiato, proprio noioso. Petulante. Un brano insulso dopo l'altro non riuscivo a trovare un commento che fosse scevro da quel classico tono di sufficienza antisanremese, o dal brutale fastidio per l'idea di musica propugnata. La profonda italianità delle canzoni, la loro in fondo viscida aderenza agli stilemi della canzone-che-va-a-Sanremo, mi suscitavano un misto di imbarazzo e pena, ed entrambi i sentimenti erano diretti al contempo verso gli artisti e me stesso. Carlo Conti era talmente “italiano” da finire per sembrare un alieno: perché un presentatore deve ancora prestarsi al giochino ruffiano della deferenza verso i super ospiti stranieri? Perché l'unico modo per gestire un attore internazionale è fingersene incantati, ammaliati, sopraffatti? Perché parlando con Will Smith faceva dell'umorismo da camerata di un campo estivo pieno di scout e diaconi? E perché quello lo assecondava anziché trasformarsi in pietra davanti a quell'arcano umorismo secondo cui loro sarebbero andati a scuola insieme e Conti era bravo in matematica e Smith in inglese? E poi Emma e Arisa, in modi diversi ma complementari paralizzate dai propri ruoli, perché erano lì? Due cantanti a cui non veniva chiesta alcuna escursione nel proprio campo di competenza, nessuna opinione, non veniva neanche dato loro un copione dignitoso grazie a cui vincere l'ingessata timidezza d'ordinanza e imporsi con le proprie personalità. Ci hanno provato, un pochino, ma era sempre la tensione a vincere, la paura di essere sopra le righe ed essere giudicate male. Nonostante gli “anestetici” di Arisa. Nonostante la veracità addomesticata di Emma. Insomma queste due donne, accompagnate dalla solita bellezza esotica da esposizione il cui apporto è stato la “sorpresa frangetta”, erano lì solo in quanto tali, cioè in quanto femmine. E quelle, a Sanremo, servono da sempre a essere mostrate.
Guardando Sanremo ci viene proposta con maniacale insistenza un'idea di noi stessi che ha più di qualche decennio. Sotto ogni punto di vista, Sanremo è uno spettacolo che affonda la propria identità nella perseveranza della tradizione a prescindere dalla realtà. Basti guardare chi ha vinto. Un trio-pretesto di giovani tenori che aveva la vittoria in tasca dal primo ritornello, con una canzone tutta gola dal testo talmente poco originale da sembrare una parodia, in cui si parla nel modo più vago possibile di un “Grande amore”. Neanche più lo sforzo di provare a raccontarlo, questo amore che ci fregiamo di provare, tanto basta nominarlo, evocarlo. Blande ossessioni da catalogo. Sanremo è una finestra smerigliata e appannata a forza di cantarci davanti, su un'Italia che non capiamo più e in cui non ci riconosciamo. Guardo il Festival e mi sento insultato da quell'immaginario, il cui solo effetto è farmi sentire minoritario, isolato. Oltre a una musica che nessuno ascolta né compra più e che viene inspiegabilmente scritta, prodotta e promossa da professionisti, vedo ancora donne cristallizzate che vengono umiliate tanto dalle critiche quanto dalle lusinghe sul loro aspetto; riesco a prevedere dal primo istante se e quando il pubblico dell'Ariston farà “buu”, “nooo” e quando farà la standing ovation; vedo famiglie ancestrali con sedici figli che inneggiano allo Spirito Santo ma neanche una traccia delle mille rifrazioni famigliari dell'Italia del Ventunesimo secolo.
[**Video_box_2**]Sanremo non solo non è lo specchio di questo paese come ci compiacciamo di pensare, critici e non, ma ci offre l'opposto di un riflesso e ci ricorda che, se non sapremo trovare nuovi modi di raccontarci, di mettere in scena come stiamo al mondo oggi, ovvero di capire chi siamo, tanto vale smettere di provarci per indossare i panni di qualcun altro. Basterà lasciare che la famosa esterofilia italiana prenda il sopravvento. Nel frattempo – perché il processo sarà lungo e puntellato di chissà quante altre canzoni sull'amore intonate da anaffettivi – abituiamoci a convivere con la nostra pigra versione del mal de vivre, con questa specie di saudade automatica, con il Welstschmerz digitale che mettiamo in scena twittando e postando come se ce ne importasse qualcosa.
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