Io non sono Andre Agassi
Non è solo la testa: Djokovic tira. Risponde veloce, lungo, si sposta, prende il campo, domina il gioco. Non è solo la concentrazione: Novak attacca. Serve laterale, sposta l’avversario, gli fa fare il tergicristallo, destra, sinistra, dritto, rovescio, contropiede.
Non è solo la testa: Djokovic tira. Risponde veloce, lungo, si sposta, prende il campo, domina il gioco. Non è solo la concentrazione: Novak attacca. Serve laterale, sposta l’avversario, gli fa fare il tergicristallo, destra, sinistra, dritto, rovescio, contropiede. Anche a Federer, a Murray, a Nadal. E’ forte, con una forza tutta sua, diversa, ampia, totale. Perché per differenziarlo da Federer e Nadal, con cui s’è spartito la gloria e i tornei degli ultimi 5 anni, s’era creata quella categoria: campione mentale. Roger era la classe, il talento, l’eleganza. Rafa la potenza, la grinta, il coraggio. Djokovic la serenità, la capacità di gestire i momenti fondamentali, l’equilibrio. Per anni il tennis s’è convinto che fosse il terzo in una sfida tra due, una specie di affascinante guastafeste, la variabile diversa ma certa in grado di movimentare uno sport che stava diventando una diarchia. Non aveva ancora capito, il tennis. Guarda ora: numero uno del circus mondiale dal 7 luglio 2014, dopo esserlo stato già dal 4 luglio 2011 al 2 luglio 2012 e dal 5 novembre 2012 al 30 settembre 2013. Quarantanove tornei vinti, tra cui otto grandi slam e 20 Masters 1000. Terzo di che? Terzo di chi? Djokovic a 27 anni è vero, forte, completo. E’ unico. Puoi continuare con le differenze sì, puoi alimentare le categorie: avrai sempre Federer come la classe, il talento, l’eleganza. Avrai sempre Rafa come la potenza, la grinta, il coraggio. Però devi aggiornare Novak: è un cerchio che si chiude, uno che sa fare tutto, che sa giocare ovunque, che s’adatta a superficie, clima, avversario rimanendo se stesso. La precisione, la capacità di anticipare il movimento dell’avversario, la coordinazione, la rapidità delle gambe, la tenuta atletica, lo spirito da combattente. Non serve sudare o avere tutti i tic del mondo per essere un lottatore. Lo puoi fare anche così: da freddo e da lucido. Che poi freddo e lucido sono caratteristiche strane se le associ a lui, perché in realtà è passionale, carico, grintoso. Non mollare e non molla. Novak che il mondo del tennis e non solo conosce come Nole è il personaggio più intrigante del tour proprio perché è sfaccettato, anomalo, particolare: mescola modi di essere che nella storia di questo sport fino ad ora non si sovrapponevano mai. Perché se avevi lo showman alla McEnroe sapevi che in campo il suo carattere sarebbe prima o poi venuto fuori. E allora liti, polemiche, follie, rabbia, ma poi esultanza, battute, risate. Con Nole il carattere è multiforme. Volete il miglior imitatore dei vizi e delle follie delle star del tennis? Djokovic si esibisce sul campo centrale di New York imitando la Sharapova, Nadal, Federer e tutti. Risate in diretta tv globale come mai accaduto. Dieci minuti prima, però, era concentrato sul gioco come un automa, con gli occhi sbarrati e l’aspetto di uno che stava calcolando qualunque possibile traiettoria del gioco per poterlo gestire a proprio piacimento.
Nole è moderno, ecco. Di più: contemporaneo. Un talento naturale, ma arricchito dalla costruzione, dall’allenamento, dalla perseveranza. Vuoi, puoi. Devi, fai. Vinci. Ma attenzione: qui non c’è nulla della follia di Agassi, delle imposizioni dall’alto, di un padre o una madre o un allenatore che ti impongono di diventare forte. Qui c’è la scelta. Qui c’è l’individuo che liberamente decide: voglio essere il migliore. C’è un carattere preciso, c’è un posto in cui tirano le bombe a metà degli anni Novanta, cioè la Serbia, c’è una famiglia che guarda, segue e accompagna. C’è Kopaonik il paese dove i genitori Srdjan e Dijana gestiscono durante l’estate una pizzeria. C’è una scuola tennis che il governo comunista ha deciso di aprire proprio di fronte alla pizzeria. Il piccolo Nole trascorre ore davanti alla recinzione, aggrappato alle maglie metalliche, per seguire le lezioni. Dirà: “Qualcosa nel ritmo disciplinato di quel gioco mi ipnotizzava. Alla fine, dopo avermi visto lì per diversi giorni, una donna mi si avvicinò. Si chiamava Jelena Gencic”. Lo invitò a venire il giorno dopo. Lui si presentò con un borsone “pieno di tutto quello che avrebbe usato un professionista: racchetta, bottiglia per l’acqua, asciugamano arrotolato, maglietta di ricambio, polsini e palline, tutto in ordine e ben piegato”. “Tua madre ti ha preparato ben borsa”, disse Jelena.
“L’ho preparata io. Io voglio giocare a tennis, non mia madre”, rispose Nole, a sei anni.
Per tutti questa frase è la miglior spiegazione di ciò che Djokovic sia. Lo è anche per Nole stesso che l’ha citata nella sua autobiografia come inizio di qualcosa che l’avrebbe cambiato per sempre. Perché quello fu l’inizio di una vita infinita di allenamenti, ma soprattutto il principio di una costruzione identitaria che avrebbe fatto della forza di volontà, del talento educato, alimentato, coccolato, della forza cercata e trovata il suo centro. Il contesto, poi. Lo ha scritto e detto, Novak: “La guerra è stata fondamentale”. “Per settantotto notti di fila la mia famiglia e io ci siamo nascosti nel rifugio antiaereo del palazzo di mia zia. Ogni sera alle otto una sirena annunciava il pericolo, allora tutti uscivamo di corsa dalla nostra casa. I boati si susseguivano fino all’alba: quando gli aerei volavano bassi il frastuono era terribile. Mi allenavo in luoghi di Belgrado ogni giorno diversi, e li sceglieva Jelena. Lei era sempre con me, mi aiutava a vivere normalmente. Andavamo dove c’erano stati gli ultimi attacchi, pensando che probabilmente in quella zona non avrebbero bombardato di nuovo. Giocavamo senza rete, sul cemento pieno di crepe”.
Dove si vede tutto questo adesso? Nole non ha rabbia. Allora dov’è l’eredità? E’ dappertutto, ecco la verità. Djokovic è il risultato del se stesso cresciuto in quel modo, in quel posto, in quel periodo. Lo dice. Lo dimostra. E’ nella capacità di adattamento a ciascun contesto si presenti in un match. Il tennis è lungo, il tennis cambia: in una partita ne giochi anche 5, a volte 10. Nole cambia con loro. Offensivo, difensivo, potente, scaltro. Sceglie la modalità migliore a seconda del momento. Prendi la finale dell’ultimo Wimbledon: vale più di molte altre. Perché c’era lui, numero due che vincendo sarebbe diventato numero uno. Contro c’era Federer, che dopo una stagione orribile s’era preso la finale del torneo più importante per tutti e soprattutto per sé. Quello considerato suo dal mondo: vinto sette volte come Sampras. Quella avrebbe potuto essere l’ottava. Avrebbe dovuto, anzi: perché nell’immaginario collettivo la purezza di Roger merita un numero che dica all’umanità che lui è il migliore di sempre. Otto Wimbledon è quel numero. Era l’attrazione, Federer, con Djokovic spalla di uno spettacolo non suo.
[**Video_box_2**]La partita l’ha raccontata Maurizio Caverzan: “Una sequenza di colpi vincenti, con i 15 mila spettatori del Centre Court a lustrarsi gli occhi davanti alle volée ricamate di Roger e ai passanti zigani di Novak. Federer perde nuovamente il servizio e il campione serbo vola fino al 5-2 e sul 5-3 si appresta a servire per la conquista dei Championships. Niente da fare, Federer non concede nulla e ritorna sotto. Sul 5-4 per Djokovic che risponde c’è il primo match-point che Roger annulla con un ace. Nel game successivo Nole perde il servizio a zero e successivamente il set (cinque giochi consecutivi vinti dal campione svizzero). Si va al quinto, con Djokovic che appare in difficoltà, sorpreso dalla reazione e forse anche dalla personalità dell’avversario. Il campione serbo è preoccupato e meno sicuro: l’occasione svanita ha lasciato il segno. Ma tiene, sul ciglio del baratro pericolosamente vicino. Come sul 3-3, quando deve fronteggiare una palla break, che annulla con un dritto vincente”. Nole gira, colpisce, svolta. Vince. Come nessun altro avrebbe potuto fare. Perché il suo tennis è un altro sport: è tenersi aggrappato a un match con ogni mezzo, è la possibilità di riprendersi da una caduta, è sedersi concentrarsi e studiare il prossimo game, come se fosse il primo. Vince tutte le partite che gli altri perderebbero. Cioè: se è tirata, combattuta, difficile, la percentuale che sia lui a trionfare sale. Nole costruisce le sue vittorie, sempre. In campo, fuori. L’ha spiegato Francesco Marinelli: “Ha una preparazione impeccabile, continua, sempre al di là del limite. Se le sue gambe sono così esplosive, se quel dritto è così potente, se il respiro sembra non piegarsi neanche dopo una partita lunga 5 ore e 53 minuti – come nella finale degli Australian Open vinta nel 2012 contro Nadal, la più lunga di uno Slam – non lo si deve soltanto al suo talento e alla sua forza di volontà. Il suo tennis si accompagna alle conoscenze di un nutrizionista, che gli hanno consentito di formare un profilo formidabile: in campo Djokovic alterna un’impeccabile concentrazione a una frenesia incontrollabile, l’ossessione negli scambi e la calma di un drop shot improvviso”. Perché si può dominare avendo preparato ogni cosa. Dal piatto della racchetta, al peso del telaio, alla tecnica del servizio che è cambiata. E’ carattere, questo. E il carattere si unisce al colpo preciso, a una tecnica di base che non prevede il genio di Federer ma la certezza di mettere la palla nel posto giusto dove si può fare punto oppure dove si può mettere in difficoltà l’avversario per fare il punto alla palla successiva. E’ la Serbia degli anni 90. E’ una dote rara, per questo Djokovic è un campione che non c’era e che ora c’è. Diverso, speciale. Unico non in senso alto, non in senso letterario ma letterale. Perché non ce ne sono altri così. Non ce ne sono stati prima, non ci sono ora. Gioca con il corpo, gioca con la testa, gioca con il braccio, gioca con l’alimentazione. Contemporaneo, a prescindere da quanto durerà.
Il Foglio sportivo - in corpore sano