L'eroe conservatore
Il “Diario di un disperato” dell’aristocratico Reck-Malleczewen, ucciso a Dachau, racconta come nessuno la vittoria dei dèmoni in Germania, e la loro sconfitta. Nascosto in una scatola di latta, ritrovato dopo la guerra, ha raccontato il periodo dal 1936 al 1944.
Se questo Folle fosse stato ucciso in tempo, Weimar avrebbe potuto sopravvivere e l’attuale guerra avrebbe potuto essere rimandata, o perfino evitata. Stando così le cose, gli uomini devono morire con gli occhi aperti, per compensare il cieco margine del caso”. Era il 1942, quando Arthur Koestler dava sull’Observer la sua interpretazione sull’ascesa al potere di Hitler, in un articolo intitolato “Il Grande Folle”. L’autore di “Buio a mezzogiorno” non poteva sapere che un uomo, in Germania, continuava anche in quel momento a rimproverarsi di non aver colto l’occasione, che pure gli si era presentata dieci anni prima, di uccidere colui che non era ancora il Führer, ma che ai suoi occhi già rappresentava la futura malattia mortale della Germania.
Quell’uomo si chiamava Friedrich Reck-Malleczewen ed era un aristocratico nato nel 1884 nella Prussia orientale, in una famiglia di Junker protestanti. Diventato scrittore di libri per ragazzi e critico teatrale dopo aver completato gli studi di medicina, nel 1933 si sarebbe convertito al cattolicesimo. La sua inflessibile opposizione al nazismo – fu tra coloro che vissero e morirono a occhi aperti, quando sopravvivere significava spesso doverli chiudere o distorglierli – lo avrebbe portato all’arresto, nell’ottobre del 1944, e alla morte nel campo di prigionia di Dachau, dove fu giustiziato con un colpo alla nuca il 16 febbraio del 1945. Lasciò un diario che copre il periodo dal maggio 1936 all’ottobre del ’44: nascosto in una scatola di latta e seppellito nella proprietà bavarese di Reck, fu ritrovato dopo la fine della guerra, ma dovette passare un quarto di secolo perché fosse pubblicato. Si tratta di un documento impressionante, sia per la carica profetica (Reck riuscì a vedere la fine tragica della Germania nazista nel momento in cui essa sembrava invincibile, saldissima all’interno e temuta dal mondo) sia per l’assoluta originalità della prospettiva. Quel documento – che non si fa fatica, dopo averlo letto, a definire indispensabile, per capire meglio come sia stata possibile l’ascesa di Hitler – torna ora nelle librerie italiane per Castelvecchi, che lo ripropone nella traduzione di Matteo Chiarini pubblicata da Rusconi all’inizio degli anni Settanta e allora praticamente passata inosservata (pesava, come è noto, l’etichetta “di destra” di quell’editore). Si intitola, così come voleva il suo autore, “Diario di un disperato”, e nel 2013 ne è uscita una nuova edizione anche in America, nella collana Classics della New York Review of Books.
Ma ora lasciamo la parola a Reck e alla sua occasione mancata, perché ne vale la pena: “Fu in quell’autunno del 1932, carico di apprensioni, quando la febbre colpì l’intero paese. Ero a cena… all’Osteria Bavaria di Monaco, quando entrò, solo e senza le sue solite guardie del corpo. Colui che nel frattempo era diventato uno dei tedeschi più potenti sedeva lì, accanto al nostro tavolo! Si sentì osservato ed esaminato in modo critico da noi e divenne irrequieto. Il suo viso assunse subito l’espressione cupa di un piccolo impiegato entrato in un locale a lui solitamente inaccessibile, il quale, una volta seduto, pretende grazie al suo denaro ‘di essere servito e trattato bene come i raffinati signori che gli sono accanto’. Eravamo vicini al Gengis Khan vegetariano, l’Alessandro astemio, il Napoleone senza donne, la caricatura di Bismarck… Ero giunto in città con l’automobile e, poiché nel settembre del 1932 le strade non erano più così sicure, portavo con me una pistola carica. In quella sala semideserta avrei potuto ucciderlo senza alcuna difficoltà. Se allora avessi saputo quale ruolo avrebbe assunto quell’infame, e gli anni di sofferenza che ci ha fatto patire, lo avrei certamente fatto. Ma allora lo consideravo ancora un personaggio comico, e non sparai. Non sarebbe comunque servito a nulla, poiché la Provvidenza aveva già deciso il nostro martirio. Se anche qualcuno lo avesse incatenato ai binari, il treno sarebbe deragliato prima di raggiungerlo”.
A differenza di Koestler, Reck era convinto dell’ineluttabilità del baratro in cui era precipitato il suo paese, ma almeno dall’agosto del 1936 (data del brano prima riportato) era altrettanto convinto di due cose: il mondo stava andando verso la guerra mondiale e la guerra si sarebbe conclusa con la sconfitta di quella “colonia megalomane” che era diventata la Germania. Un anno dopo, nel settembre 1937, Reck si rivolge idealmente agli amici già riparati all’estero: “Dopo essere stati circondati da tutti gli agi della civiltà, comprenderete che la solitudine mortale della nostra vita e l’atmosfera di catacomba satura di sofferenza che respiriamo da tanto tempo hanno reso i nostri occhi chiaroveggenti, capaci di vedere nel futuro immagini che inizialmente potrebbero spaventarvi? Che ne è dell’ideologia del 1789, che vi circonda e resta il fondamento della vostra vita e del vostro pensiero, costituendo per voi qualcosa di ovvio, come per il gambero la sua corazza protettiva? Ma noi sappiamo che la filosofia degli enciclopedisti, e ancor prima quel processo di privazione del divino iniziato con il Rinascimento, hanno prodotto bagni di sangue… Non fatemi il torto di considerare le mie intuizioni come fantasticherie di un homo temporis acti o, peggio, come allucinazioni di un uomo in preda alla febbre perché contaminato dalla peste che lo circonda! Ciò che subiamo oggi in questo paese non è forse l’ultima conseguenza del 1789?”.
Reck arriva, per vie di “chiaroveggenza” (o, se si preferisce, di capacità di lettura dei segni dei tempi), a conclusioni non lontane da quelle che altri, come per esempio lo storico francese François Furet, faranno proprie nell’analizzare i fondamenti di tutti i totalitarismi. Quella particolare “demenza dello stato” che l’aristocratico tedesco vede incarnata in un “nazionalismo senza nazione”, dove “si vorrebbe che i nostri occhi brillassero di gioia per ogni bottone da pantaloni fabbricato in Germania”, laddove nel 1500 la Germania era una “nazione senza nazionalismo”, ha a che fare con i nuovi idoli che hanno sostituito Dio ma anche “i vecchi dèi”. I segni premonitori della grande crisi mondiale sono per lui evidenti nelle stesse “costruzioni della ragione umana che vi sembravano così sicure”, scrive ancora idealmente agli amici esuli, che spera possano leggere, a incubo finito, le sue parole. E non era stata forse quella “negatività di tipo intellettuale (oserei dire universitaria)” ad aver depotenziato e ridotto al silenzio un genio come Oswald Spengler? Il “Diario di un disperato” si apre proprio con la morte dell’autore del “Tramonto dell’occidente”, del quale Reck disegna un ritratto al limite dell’irriguardoso, ma senza mai attribuirgli inesistenti connivenze con il nazismo. Spengler appare come una specie di Pantagruel vestito di tweed e avvolto da mantelli lussuosi, ossessionato dalla gola e dal desiderio di ricchezza, schiavo della cucina succulenta della sorella-governante e capace di mangiarsi un’oca da solo al tavolo dove siede con altri commensali (tra i quali lo stesso Reck) tranquillamente lasciati a digiuno, all’epoca di razionamento del cibo coincisa con la fine della Prima guerra mondiale. L’aristocratico aveva più volte ospitato Spengler nella sua proprietà di Chiemgau, nell’Alta Baviera, quando ancora il filosofo non era né famoso né ricco, e prima che la “cricca” degli industriali tedeschi, vista da Reck come l’accolita di corruttori all’origine della degradazione della Germania, se lo comprasse per qualcosa in più che un semplice piatto di lenticchie.
Anche in ritratti dal vivo come questi – o come le tante scene di vita quotidiana ai tempi del Terzo Reich di cui è ricco il memoir di Reck – troviamo una possibile spiegazione del “come sia stato possibile”. Nelle pagine del “Diario di un disperato” ci imbattiamo in nobili asserviti al nuovo padrone della Germania, dimentichi delle elementari leggi dell’onore. Vediamo figli rinnegare i padri e madri rinnegare i figli; entriamo nelle case degli ebrei berlinesi cacciati da vicini desiderosi di cogliere la ghiotta occasione di allargare il proprio appartamento; leggiamo e ridiamo (novembre 1939) “dell’incredibile lettera aperta” con cui il compositore Hans Pfitzner “si lamenta presso tutti i direttori di teatro e naturalmente presso tutte le autorità naziste competenti che si trascuri proprio lui, il maestro tedesco per antonomasia, mentre Verdi, i cui libretti sono violenti e sanguinari, figura costantemente nei repertori… E’ davvero curioso che Pfitzner, il quale ha raffazzonato la musica più antimusicale che io conosca, osi accostare il suo nome a quello di un gigante come Verdi”; assistiamo a una cena (maggio 1937) alla quale partecipa una nipote di Churchill, Unity Mitford, “figura che è una via di mezzo tra la réclame del sapone da toeletta e l’arcangelo”. La quale “siede alla corte di Hitler, alla Obersalzberg, per diventare imperatrice dei tedeschi e avviare la grande riconciliazione tra la Germania e l’Inghilterra” (Reck annuncerà, nel gennaio 1940, quella che credeva fosse la morte della Mitford. Aveva avuto un’informazione sbagliata, perché la donna, disperata dopo la dichiarazione di guerra della Gran Bretagna alla Germania, sopravvisse a quello come a un precedente tentativo di suicidio; sarebbe morta nel 1948).
L’antinazismo di Reck è quello di un monarchico fino al midollo, di un antimodernista e conservatore accanito, di un aristocratico sprezzante verso l’accolita di “dattilografe, maestri di scuola ed ex ufficiali”, i grandi sostenitori del Führer, vestiti di pessime stoffe, con orribili stivali e – nel caso delle dattilografe – di dozzinali calze sintetiche Bemberg. A Hitler, prima ancora degli orrori, Reck rimprovera la volgarità mostruosa, il berretto da bigliettaio del tram con i fregi argentati che fa risaltare quel “viso rotondo stralunato, insulso, flaccido, in cui due occhi vitrei e malinconici spiccano come grani di uva secca. Così triste, così incredibilmente insignificante e rozzo che appena trent’anni fa, nel periodo più oscuro dell’età guglielmina, sarebbe stato impossibile trovare un ufficiale con quel viso, non fosse altro che per ragioni estetiche. Se avesse occupato la poltrona di un ministero, gli avrebbero rifiutato subito l’obbedienza – non solo gli alti funzionari, ma persino i portieri e le domestiche”. Reck scoppia di odio, ma questo non gli impedisce di pensare. Vede nel nazismo il risultato dell’asservimento dell’“uomo di massa” (ma, scrive, “non rinuncerò mai alla convinzione che l’uomo di massa è tutt’altra cosa rispetto all’operaio, che lo si può incontrare più frequentemente negli uffici direttivi delle grandi imprese e tra la dorata gioventù industriale”). Hitler è per lui l’“Anticristo piccolo-borghese”, il “Tamerlano vegetariano”, il “Machiavelli per domestiche”.
Chi cerca buoni sentimenti democratici, nel “Diario di un disperato” non ne troverà. Troverà l’orrore per quel ragazzo della gioventù hitleriana che stacca il crocefisso dal muro della classe, a Monaco (è il 1936), e lo lancia dalla finestra piangendo e urlando: “Sta’ lì, sporco giudeo!”. Troverà, riportata integralmente e datata 22 settembre 1939, la lettera di un giovane capitano dell’aviazione che scrive al suo vecchio e “grande amico Reck-Malleczewen”, raccontandogli l’entusiasmo per le prime missioni sulla Polonia e chiedendogli di comprenderlo: “Non so, Reck, se conosca la Polonia e fino a che punto riconosca il nuovo ordinamento che qui si è imposto in maniera definitiva. So una cosa sola: questo ordinamento resterà, a costo di ridurre l’Europa, Inghilterra compresa, in cenere”. Senza contare che “la sola idea che Vienna è città del Reich tedesco, senza particolarismi, mi procura ancora adesso in piena guerra un piacere fisico”. Non è, chiosa Reck, la lettera di un teppista o di un criminale evaso dalla prigione. L’autore “è un buon ragazzo dagli occhi azzurri luminosi, con l’eterno sorriso da bambino, del tutto inoffensivo nella vita civile… un uomo nato in una buona famiglia borghese della Renania non priva di tradizioni culturali. Ma le sue parole sono il risultato di tutte le vittorie ottenute senza difficoltà e dell’‘ortodossia’ nazionalsocialista”.
Al cuore della resa della Germania al nazismo, scrive Reck nel suo diario, c’è qualcosa che può essere spiegato con il ritorno di un antico dèmone, come se “le pulsioni represse, morbose di una personalità fallita si siano combinate con un capriccio della storia che gli ha permesso di giocare con le leve del suo congegno complicato, come un tempo ad Atene l’ha permesso al conciatore di pelli Cleone (il demagogo ateniese che fu per qualche tempo padrone della città, ndr). Penso che tutto questo sia coinciso con uno stato febbrile di questo popolo. Penso che questo dèmone, degno solo di essere compatito, uscito da una geenna fangosa di Strindberg, si sia presentato nel momento di suppurazione di un ascesso, come fu un tempo per Bockelson”. Reck si riferisce al protagonista della vicenda storica alla quale stava dedicando un libro mentre teneva il suo diario. Quella della città stato di Münster, fondata dagli anabattisti nel XVI secolo: “Mi sconvolge la lettura dei documenti medievali riguardanti questa eresia tipicamente tedesca. In ogni aspetto, perfino nei minimi particolari, rappresenta un presagio di quello che stiamo vivendo al giorno d’oggi. Proprio come la Germania attuale, per anni Münster si isola completamente dal mondo civile, riporta successi per un lungo lasso di tempo e sembra invincibile. E infine, d’un tratto, oltre ogni aspettativa, crolla per un’inezia… Come nel nostro caso, il grande profeta è un bastardo concepito nei bassifondi, di fronte al quale l’opposizione capitola fra lo stupore del resto del mondo. Come da noi – poiché recentemente, a Berchtesgaden, delle donne impazzite hanno ingoiato la terra che il nostro grazioso principe degli zingari aveva appena calpestato! – i sostenitori più attivi del regime sono donne isteriche, maestri di scuola elementare, preti scomunicati e la feccia di ogni ceto sociale”. Nella Germania di Hitler, “così come a Münster, un sottile strato di ideologia nasconde un fondo di oscenità, di avidità, di sadismo e di brama di potere”. Reck considera “uno scherzo che la storia ha anticipato di quattro secoli” la circostanza che “Dusentschur, il ministro della Propaganda di Münster, fosse zoppo come Goebbels”. E concludeva (era l’11 agosto del 1936, il nazismo è all’apogeo): “Mancano giusto alcuni dettagli per coincidere pienamente: nella città-stato assediata e ridotta alla fame le persone inghiottivano i propri escrementi e arrivarono a mangiare i propri figli. Tutto questo potrebbe capitare anche a noi, e su Hitler e i suoi accoliti incombere la fine inevitabile di Bockelson e di Knipperdolling” (un altro dei capi anabattisti).
Dell’uomo che morirà a Dachau a poco più di due mesi dalla liberazione del campo, la filosofa Hannah Arendt scriverà che fu tra i pochi che “si opposero senza esitazione a Hitler”, e accosterà il suo nome a quello del filosofo Karl Jaspers. Nell’aprile del 1939, Reck annotava nel diario la certezza che i giovani ufficiali arroganti e rumorosi incontrati in un locale di Monaco, che a prima vista gli ricordavano “un raduno di eroi che hanno vinto il drago o di arcangeli che hanno lasciato le loro ali in guardaroba per venti pfennig”, prima o poi sarebbero diventati “incapaci persino di sospettare l’abisso della loro degradazione”. Friedrich Reck lasciò in eredità un altro avvertimento: “Una volta trascuravo l’idea dell’unità europea, ma sono certo che al giorno d’oggi non ci possiamo più permettere il lusso di trascurarla. L’Europa, culla di grandi idee, si trova di fronte a questa scelta: o eliminare la possibilità di nuove guerre civili, o polverizzare le sue cattedrali e ridurre il suo paesaggio a una steppa… Allora non resterà che bruciare l’ultimo violino con l’ultima partitura di Mozart, e rassegnarsi a tornare dei barbari” (ottobre 1940).
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