Eddie Huang, autore del libro “Fresh Off the Boat: A Memoir”

Com'è difficile essere un asiatico in America. La storia di Eddie Huang

Giulia Pompili

E’ facile identificarsi in un gruppo in America, dice Eddie Huang. Se sei nero, ti identifichi con i neri, se sei bianco, ti identifichi con i bianchi. Ma com’è essere asiatico? E’ come essere Eddie Huang, ovvero l’americano asiatico più famoso d’America, almeno in questo momento.

Roma. E’ facile identificarsi in un gruppo in America, dice Eddie Huang. Se sei nero, ti identifichi con i neri, se sei bianco, ti identifichi con i bianchi. Ma com’è essere asiatico? E’ come essere Eddie Huang, ovvero l’americano asiatico più famoso d’America, almeno in questo momento. La sua non è la classica storia di un riscatto sociale, del bambino che smette di essere soltanto il figlio di due immigrati taiwanesi diventato improvvisamente uno degli chef più famosi di New York. Il suo successo non è solamente la rivincita dello studente vittima di un bullismo feroce, “evidente, palese e violento”, come scrive il New York Times. Eddie Huang è diventato oggi il simbolo di una generazione di cittadini americani che faticano a integrarsi e ad avere il loro spazio nel sogno americano. Gli asiatici d’America, che non hanno mai avuto il loro Martin Luther King.

 

Huang è nato a Washington trentatré anni fa. Sua madre aveva studiato nelle migliori scuole di Taipei, ed era emigrata in America con i genitori a diciassette anni – verso la fine degli anni Settanta avviene il primo vero flusso migratorio da Taiwan verso gli Stati Uniti: Washington infatti tutelava il piccolo stato sovrano dell’Asia dell’est mentre la Cina vietava ai suoi cittadini di trasferirsi Oltreoceano. Il giovane Eddie cresce in un quartiere bene di Orlando, in Florida. Ma non conosce l’integrazione. Cresce immerso nella cultura americana, soprattutto quella afroamericana, si interessa alla musica hip-hop (gli piacciono 2Pac, Dr. Dre), parla come parlano i ragazzi di strada. Ma è incazzato con la gente che continua a chiamarlo solo un “chink”. Ed è un insulto razziale che dice molto, chink, perché tecnicamente è l’abbreviazione di cinese ma è la parola dispregiativa con cui l’americano medio chiama gli “yellowface”, gli asiatici, come a dire: cinesi, taiwanesi, giapponesi e coreani sono tutti uguali. Privi d’identità, appunto. Anche negli insulti. Eddie capisce la forza delle parole, delle storie e del riscatto leggendo i libri sui neri d’America, guardando il basket e vedendo come, almeno in quello sport, i neri avessero la loro rivincita (la domanda, nella sua testa, restava sempre la stessa: e gli asiatici?). Nel suo libro diventato bestseller in America, “Fresh Off the Boat: A Memoir” (Spiegel & Grau, 276 pp., 26 euro – in ristampa adesso con il lancio della sitcom sulla Abc raccontata qui sotto da Mariarosa Mancuso), Eddie racconta delle risse, della sua ossessione per le scarpe da basket (quelle che andavano negli anni Novanta in America), di quando iniziò a spacciare marijuana e i porno tra i compagni di scuola. Anche solo la copertina del libro è il ritratto di una famiglia asiatica tipo: ci sono le espressioni compassate e dignitose dei genitori e dei nonni, e poi c’è Eddie, sei anni, che strilla e guarda in direzione contraria. Il suo libro su Amazon è venduto tra i libri di cucina, ma è molto più di un libro di cucina. E’ il ritratto di tre generazioni di taiwanesi, della cultura nel senso più etimologico del termine, della tradizione attraverso le zuppe. E non è un caso, ha raccontato Eddie al New York Times, che le prime bozze del libro le abbia mandate negli stessi giorni in cui il Wall Street Journal titolava “La superiorità delle mamme cinesi” a proposito del famoso libro di Amy Chua “Il ruggito della mamma tigre”.

 

I primi capitoli della sua particolare autobiografia Eddie li dedica al ritratto dettagliato dei personaggi della famiglia (“In ogni momento avevo intorno i miei fratelli, le mie zie, i miei zii, i miei cugini o i miei genitori. Mangiavamo insieme, andavamo a fare shopping insieme, lavoravamo insieme. Qualche volta eravamo cinque, qualche volta in dodici, nel weekend eravamo tutti”). “Penso che mia madre  fosse maniaca, ma i cinesi non credono nella psicologia. Quando le cose vanno male, semplicemente beviamo più tè”, spiega Eddie. La madre va in giro con la mascherina anti-Sars ed è morbosa in tutto, anche nel cibo.  Il senso dell’autorità, tipico della cultura asiatica, gli impone di non interrompere mai il nonno, il capofamiglia, quando parla. Eddie sa che quando viene chiamato con il suo nome cinese, Huang Xiao Wen, è il momento in cui deve stare zitto. E’ terrorizzato dal dover avere il suo primo appuntamento, a scuola, con una ragazza cinese, e si tranquillizza solo quando vede un lontano cugino di Pittsburgh sposato con un’americana. Ma è come se il giovane Eddie, americano con gli occhi a mandorla, vivesse una doppia vita, diviso tra l’unità impermeabile della famiglia e il mondo esterno, altrettanto impenetrabile, dove “almeno tre volte all’anno, anche oggi, c’è qualcuno che mi urla di tornarmene in Cina”.

 

[**Video_box_2**]Nonostante il bullismo, e il razzismo, Eddie non smentisce le statistiche degli asiatici super istruiti d’America (secondo i dati del 2013 dell’Ufficio del censimento americano, il 41,5 per cento dei taiwanesi ha una laurea magistrale, il 73,2 per cento un diploma di laurea) e conclude il suo quinquennio di Legge all’università di Pittsburgh. Poi prende un dottorato alla Benjamin N. Cardozo School of Law di New York. Finisce come associato alla Chadbourne & Parke, ma solo per non farsi guardare più dall’alto in basso da qualcuno, dice lui. E infatti, nel 2009, toglie giacca e cravatta e fonda, al 137 di Rivington Street, a New York, quello che oggi è uno dei ristoranti di street food asiatici più famosi d’America: il Baohaus. E più che il cibo, è stata la sua presenza sul web, sui social network, ma soprattutto il suo racconto quotidiano sul blog personale a dargli il successo. La madre però – da vera asiatica, dice lui – gli ha consigliato di tenere attiva comunque la licenza da avvocato. Non si sa mai.

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  • Giulia Pompili
  • È nata il 4 luglio. Giornalista del Foglio da più di un decennio, scrive soprattutto di Asia orientale, di Giappone e Coree, di Cina e dei suoi rapporti con il resto del mondo, ma anche di sicurezza, Difesa e politica internazionale. È autrice della newsletter settimanale Katane, la prima in italiano sull’area dell’Indo-Pacifico, e ha scritto tre libri: "Sotto lo stesso cielo. Giappone, Taiwan e Corea, i rivali di Pechino che stanno facendo grande l'Asia", “Al cuore dell’Italia. Come Russia e Cina stanno cercando di conquistare il paese” con Valerio Valentini (entrambi per Mondadori), e “Belli da morire. Il lato oscuro del K-pop” (Rizzoli Lizard). È terzo dan di kendo.