Il commiato delle matite blasfeme
La lista nera degli islamisti “funziona”: molti vignettisti hanno cambiato lavoro e tanti altri “non torneranno più”
Roma. “Carsten Juste getta la spugna”, recita il titolo del quotidiano danese Berlingske. Chi è Juste? E’ il primo da sinistra in alto nella lista di Inspire, il magazine qaidista che ha elencato i giornalisti, vignettisti e attivisti “blasfemi” condannati a morte. La strage a Charlie Hebdo e l’attentato a Copenaghen hanno dimostrato che quella lista un senso, di morte, ce l’ha. Sia Stephane Charbonnier, rimasto ucciso a Parigi, sia Lars Vilks, obiettivo scompato all’attacco al caffè danese, comparivano nella black list di Inspire. E a guardare la lista, l’islamismo ha di che essere felice. Caporedattori che hanno mollato, personaggi diventati invisibili, prepensionati, naturalizzati, o nel peggiore dei casi, che riposano al cimitero.
Come caporedattore del giornale danese Jyllands Posten, Carsten Juste prese la decisione di pubblicare le vignette blasfeme su Maometto. Soltanto che da allora Juste prima ha chiesto scusa con una lettera aperta ai musulmani sul quotidiano arabo el Watan: “E’ di fondamentale importanza notare che queste vignette non erano destinate a danneggiare la persona del Profeta (pace su di lui), né a diminuire il suo valore, ma sono state proposte come preambolo al dialogo sulla libertà di espressione. Offriamo le nostre scuse e il nostro più profondo rammarico per ciò che è accaduto”. Dopo l’autodafé, Juste ha anche lasciato il giornalismo e il suo posto al Jyllands Posten. E’ un uomo mite, silenzioso, schiacciato dal peso di quella condanna a morte.
L’artista olandese Rachid Ben Ali è originario della cittadina di Taza, in Marocco. La sua arte è cruenta, cruda, erotica, denuncia l’oppressione, il fondamentalismo, la discriminazione. Rachid è stato fisicamente attaccato da giovani olandesi-marocchini dopo essere comparso sulla copertina di un magazine gay due mesi dopo l’omicidio del regista Theo Van Gogh. Poi il Museo Cobra di Amsterdam ha esposto i quadri di Ben Ali come esempio del successo del multiculturalismo. Sono schizzi arrabbiati che includono attentatori suicidi e “imam dell’odio”, una sorta di Guernica islamica. L’artista inizia a ricevere minacce di morte da estremisti islamici e deve cambiare casa e laboratorio. Ben Ali oggi continua a esporre, ma non parla più di islam.
Stessa sorte per l’artista inglese Sarah Maple, sotto protezione della polizia perché i suoi lavori, ispirati all’esperienza personale di cittadina britannica di origine musulmana, hanno scatenato la rabbia assassina degli estremisti islamici. Sarah ha ricevuto minacce di morte e la Salon Gallery di Londra, dove erano esposte le sue opere, è stata oggetto di un attentato. L’artista di origini pakistane, Shabana Rehman, è una delle figure pubbliche più controverse in Norvegia. Prima ha guidato una protesta contro i delitti d’onore e un gruppo di donne musulmane velate ha inscenato una protesta contro Rehman e l’ha simbolicamente “scomunicata”. Poi, nel 2008, ha minacciato di bruciare una copia del Corano sul palco di un festival letterario nella città rurale di Lillehammer. Ha tenuto una candela accesa vicino al libro, prima di mettere giù il Corano, da lei definito “il libro che ha più potere di qualsiasi altro libro del nostro tempo”. Il 24 agosto 2008, tre mesi dopo che aveva minacciato di incenerire il Corano sul palco, dei terroristi hanno sparato contro le vetrate del ristorante a Oslo di proprietà di Fahrina Rehman, la sorella di Shabana. Da allora, l’artista ha tenuto un profilo a dir poco più basso.
Una taglia da 50 mila dollari è stata offerta dagli islamisti per la testa di Ulf Johansson, il direttore di Nerikes Allehanda, il giornale locale svedese che pubblicò per primo la vignetta di Lars Vilks. Johansson ha lasciato il giornale per cui lavorava. C’è una fatwa sulla testa del giornalista ed editore Martin Rynja, proprietario della Gibson Square, la casa editrice che ha pubblicato un libro sulla moglie di Maometto. Rynja ha lasciato la sua casa di Lonsdale Square nel quartiere di Islington, dopo che i servizi segreti inglesi hanno sventato un attentato contro di lui. Il predicatore Anjem Choudhary ha detto che “è chiaro nella legge islamica che ogni attacco all’onore del Profeta comporta la pena di morte”. Dal Libano, l’imam fondamentalista Omar Bakri aggiunge: “Se qualcuno attaccherà quell’uomo (Rynja, ndr), io non lo condannerò”.
Nel dicembre 2011 anche il vignettista olandese Gregorius Nekschot, che firmava sotto pseudonimo per il settimanaleHP/De Tijd, ha annunciato che non avrebbe più firmato i suoi disegni irriverenti. La sua vignetta più celebre mostra la scritta “Islamsterdam” e un imam con un coltello fra i denti. Il nome nasce da Gregorius, in onore di Gregorio IX Papa dell’Inquisizione, e la parola olandese Nekschot, che significa: “Giustiziato alla nuca”. In un’intervista a Volkskrant, il vignettista ha così spiegato la scelta di smettere di disegnare: “Posso essere di nuovo me stesso, non ho bisogno di essere misterioso sulla mia vita personale, non devo più preoccuparmi che la mia identità diventi nota. E’ la fine della paura”. E della libertà d’espressione.
Proseguendo nella lista troviamo Kurt Westergaard. Il vignettista danese è in pensione e nella sua ultima vignetta c’è Don Chisciotte a cavallo, armato di carta e penna. Dietro di lui non c’è Sancho Panza, ma un asino con un’incudine sulla quale spiccano le parole “libertà di espressione” e una bomba accesa. Un commiato. Nella seconda riga della lista c’è Geert Wilders. Una storia che può essere sintetizzata con le prime righe della sua autobiografia: “Ho perso la mia libertà e sono diventato un prigioniero politico nel mio paese”. Contro Wilders si aprirà a breve un nuovo processo politico in Olanda, sempre per “islamofobia”. Il giorno in cui venne ucciso Theo van Gogh neppure gli uomini della scorta sapevano dove avrebbero dovuto portare Wilders, hanno vagato per ore, in attesa di istruzioni. Alla fine sono andati nei boschi al confine con il Belgio, in una caserma in disuso. Da quel giorno di novembre del 2004, Wilders si sposta in continuazione. Ha vissuto nelle carceri, nelle caserme, in appartamenti, in ville del governo. Quando scende di auto deve spesso camuffarsi con un impermeabile marrone e un cappello. Il Parlamento olandese lo ha dovuto collocare in un punto non visibile dal pubblico, per meglio tutelarlo da possibili attentati. Wilders indossa un giubbetto antiproiettili ogni volta che parla in pubblico. Quando va al cinema, l’ultima fila è riservata a lui e ai poliziotti. E’ stato ribattezzato “l’uomo invisibile”.
Alcuni giorni fa il Seattle Post ha pubblicato un articolo sulla “scomparsa Molly Norris”, vignettista americana. “Lei non ha detto addio, o niente”, racconta l’amica Shannon Perry. “Se ne è andata e basta”. Tom Fuentes, un ex agente dell’Fbi e un analista della Cnn, ha detto che per lei la fatwa “ha significato lasciare tutto – famiglia, amici, lavoro, casa – e probabilmente non tornerà mai più”.
[**Video_box_2**]Nella lista, al fianco di Wilders, c’è Lars Vilks, l’artista svedese postmoderno che hanno provato a uccidere in tutti i modi: a colpi di fucile, come tre giorni fa a Copenaghen; aggredendolo dentro a un’aula universitaria; gettando benzina dentro la sua finestra di casa; lanciando una donna kamikaze dagli Stati Uniti. Da ieri, anche Vilks è uccel di bosco. Un fantasma. Stephane Charbonnier, prossimo nella lista, già direttore di Charlie Hebdo, riposa al cimitero. Flemming Rose, il terzo danese in lista, ha scritto che la battaglia per la libertà d’espressione è persa e ha vinto “la tirannia del silenzio”. Poi ci sono due agitatori che poco hanno a che fare con la libertà di espressione: Morris Swadeeq, l’avvocato copto che fece produrre il film volgare “The innocence of Muslims”, e il pastore Terry Jones.
Di Salman Rushdie conosciamo tutti la storia. Lo scrittore giapponese Kazuo Ishiguro ha scritto che Rushdie ha a lungo vissuto come gli ostaggi a Beirut. Ma al posto di Rushdie hanno pagato con la propria vita vittime collaterali, come il traduttore giapponese dei “Versetti satanici”, Hitoshi Igarashi, che indomito aveva deciso di tradurre il romanzo. I sicari iraniani gli tagliarono la gola. E poi il critico letterario Asim Bezirci e il poeta Nesimi Cimen, due turchi bruciati vivi. Rushdie è stato così accusato di essersi dimenticato dei caduti della sua fatwa. Come Ettore Capriolo, il traduttore italiano dei “Versetti”, che il 3 luglio 1991 a Milano fu trafitto al torace, al collo, agli avambracci e al volto da uno studente iraniano. Alcuni giorni dopo, Capriolo rilasciò una intervista al Corriere della Sera in cui criticava Rushdie, che “dal suo bunker protetto da decine di guardie del corpo non ha avuto il buongusto di mandare un telegramma”.
Chiude la lista Ayaan Hirsi Ali. Ha lasciato l’Europa per l’America, dopo aver scoperto che il governo olandese e i suoi concittadini erano imbarazzati a ospitare una dissidente islamica. Apostata sfrattata senza diritto di passaporto, Ayaan è stata accusata in Olanda di aver provocato un “trauma” nel dialogo interreligioso, la sinistra e le femministe hanno usato epiteti come “fondamentalista” e “razzista”. Prima di al Qaida, è stato il suo paese a metterla a tacere. L’ultimo giorno in Olanda i servizi segreti la portarono alla base aerea di Valkenburg. Ad aspettarla c’era un aereo da trasporto, un Orion. Gli oblò erano chiusi. L’aereo era pieno di soldati. Stava lasciando un paese in guerra. Atterrarono in una base militare nel Maine, negli Stati Uniti. Andarono in auto nel Massachusetts. Hirsi Ali rimase lì in un motel per settimane. In quel posto nessuno avrebbe potuto riconoscerla. In Europa, intanto, scendeva la notte.
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