Quel che resta del Maidan
A un anno dalla cacciata di Yanukovich, a Kiev vince il senso di abbandono: l’est pare perduto, l’ovest pare sordo. E a Mosca? Si sentono discorsi sulla guerra nucleare
L’accordo di pace siglato a Minsk per il cessate il fuoco tra governo ucraino e separatisti dell’est è “molto fragile”, dice la cancelliera tedesca Angela Merkel, è “terribile”, dice un diplomatico inglese citato da John Vinocur sul Wall Street Journal, è “molto simile a quello siglato a Minsk a settembre, che è già fallito”, dice al Foglio Matthew Kaminski, uno dei commentatori più accreditati sulle questioni legate all’Europa dell’est (è nato a Varsavia), per anni nell’editorial board del Wall Street Journal e ora direttore dell’edizione europea del magazine Politico di prossima pubblicazione (vorremmo parlare molto di questa nuova avventura editoriale con lui, promette che la prossima settimana ci racconterà tutto). A Minsk è stata siglata più una tregua che una pace, sostengono ormai tutti, compresi quelli che la settimana scorsa hanno celebrato la nottata di negoziati – gli occhi stanchi della cancelliera tedesca, l’aria preoccupatissima del presidente ucraino Petro Poroshenko, le risate del russo Vladimir Putin con il padrone di casa bielorusso, Alyaksandr Lukashenka – come se sancisse la fine del conflitto.
E’ una pausa, nemmeno troppo pacifica: i reporter nell’est dell’Ucraina dicono che a Debaltseve, lo snodo ferroviario vicino a Donetsk diventato il simbolo della battaglia più recente, la tregua è durata in tutto quaranta minuti. C’è chi aggiunge che il cessate il fuoco vale dappertutto, tranne che a Debaltseve, la cui conquista per alcuni separatisti è addirittura “una questione morale, non abbiamo il diritto di smettere di combattere”, ha detto uno dei loro leader alla Reuters. Il colonnello Andriy Lysenko, un portavoce dell’esercito di Kiev, ha detto che i separatisti hanno colpito “88 volte” le loro postazioni soltanto lunedì. Stando a un video trasmesso dall’emittente russa Life News, se affidabile (è una tv vicina al Cremlino, secondo i servizi segreti ucraini si tratta di un’organizzazione paramilitare), almeno ottomila soldati ucraini sono intrappolati nelle vicinanze di Debaltseve, perché l’unica strada d’accesso è controllata dai separatisti, che dichiarano di aver “circondato” i militari di Kiev. I separatisti sostengono che molti di questi soldati si sono già arresi, che altri sono scappati, che altri ancora sono stati uccisi. Poroshenko smentisce, ripete che Debaltseve è ancora sotto il controllo dell’esercito ucraino, ma intanto ieri mattina entrambe le parti avrebbero dovuto iniziare il ritiro dell’artiglieria pesante dalla linea del fronte, e nessuno l’ha fatto: dobbiamo ancora valutare i dettagli, dicono, anche assieme agli osservatori dell’Osce che sono entrati nel paese sempre in seguito agli accordi firmati a Minsk e ai quali però è vietato l’accesso a Debaltseve (in passato molti di questi funzionari sono dovuti scappare dall’est ucraino, sono stati rinchiusi in caserme o altri locali e poi lasciati uscire soltanto con la promessa di non farsi vedere mai più).
Il logorio pare non debba finire mai, gli esperti parlano di guerra perpetua, alcuni iniziano a pensare che una soluzione federale sia la più indolore, non si sa bene per chi, il ministro degli Esteri italiano, Paolo Gentiloni, sostiene che il modello “del nostro Sud Tirolo potrebbe tornare utile”. Kaminski dice che prima di tutto sia l’Europa sia gli Stati Uniti dovrebbero prendere atto che “è in corso una guerra e che Vladimir Putin è un presidente di guerra, e questo lo ha reso di nuovo popolare nel suo paese: è riuscito a convincere i russi di essere sotto attacco dell’occidente, e così il suo consenso è tornato enorme”. Non ha senso nemmeno definire tutta la questione come “la crisi ucraina”, aggiunge Kaminski, non è l’Ucraina in crisi, “è che c’è stata un’invasione”.
La Crimea non tornerà mai indietro, l’est dell’Ucraina rischia di staccarsi pezzettino per pezzettino, e lo spirito di unità e di abbraccio occidentale che soltanto un anno fa vinceva il gelo e i cecchini del regime di Kiev è un ricordo offuscato. “Nessuno avrebbe mai immaginato allora – dice Kaminski – che entro un anno l’esistenza stessa del paese sarebbe stata in pericolo”. In questi giorni si celebra il primo anno del Maidan, anche se in realtà le proteste filo occidentali nel centro della capitale ucraina erano iniziate mesi prima. Ma il 20 febbraio del 2014 ci fu il picco di morti in piazza, almeno 90 persone uccise dalla polizia – e dai cecchini in uniforme parte della temutissima forza d’ordine Berkut – in quarantotto ore, centinaia erano i feriti. Da settimane ci si interrogava sulla strategia dell’allora presidente Viktor Yanukovich: negozia o manda i carri armati?, e quel giorno parve chiaro che stava scegliendo la seconda strada (chi c’era allora in piazza ancora ricorda la paura e la tensione dopo che fu annunciato “lo sgombero” del Maidan). Il 21 febbraio, Yanukovich disse di aver raggiunto un accordo con l’opposizione, in presenza di emissari europei e russi (anche lì ci fu una nottata di trattative, il presidente si presentò stravolto alla mattina con la penna in mano in una sala della sua residenza): rinunciava ad alcuni poteri, fissava nuove elezioni nel giro di qualche mese. Soprattutto annunciava un’inchiesta sui responsabili delle uccisioni in piazza, che non erano mai state così gravi dalla Seconda guerra mondiale. Secondo una ricostruzione pubblicata dal New York Times a gennaio, proprio la paura di essere incastrati nell’inchiesta creò il panico nel regime: tutti telefonavano a Yanukovich chiedendogli di trovare il modo di farli scappare, e in fretta. In poche ore, le forze dell’ordine tornarono nelle caserme, ma nel frattempo si era sparsa la voce che ai manifestanti del Maidan fosse arrivato un carico di armi sottratto al regime, e non essendoci più l’ordine di sparare, i manifestanti a quel punto sembravano invero pericolosi. I sostenitori del regime si organizzarono per partire – a migliaia, dicono alcune fonti – e di lì a poche ore avrebbe lasciato Kiev anche Yanukovich: fuori dal suo palazzo, non c’erano nemmeno più le guardie a proteggerlo.
La situazione dei combattimenti nel Donbass aggiornata al 16 febbraio, in una cartina presentata dal ministero della Difesa ucraino. Il cessate il fuoco è iniziato ufficialmente il 15 febbraio
Matthew Kaminski è appena stato a Kiev, ha tuittato una foto in cui mostra che “quel che resta del Maidan” è un cartellone con affisse delle immagini, “i volti di chi è stato ucciso”, sotto ci sono appesi alcuni fogli, sembrano dei proclami, Kaminski controlla, prova a leggerli, “era buio, non si capisce molto, sembrano delle liste”. Altri nomi di ucraini uccisi. “Se parli con i ragazzi che erano là un anno fa senti che sono disillusi, si sentono abbandonati”, racconta Kaminski, e proprio il senso di abbandono è quello che scandisce il resoconto che il giornalista fa dei suoi giorni a Kiev. Il suo metro di paragone è solido, conosce bene la città, ci ha lavorato per il Financial Times e per l’Economist per buona parte degli anni Novanta, quando la dissoluzione dell’Unione sovietica era notizia recente, dice “che era un paese che tornava alla vita, aveva una grande coscienza della sua identità nazionale”, non è vero che il confine che separa l’Ucraina dalla Russia è soltanto una linea effimera e imposta che divide due nazioni in realtà uguali, “il paese voleva vivere la propria indipendenza, la propria libertà, voleva costruire istituzioni forti, modellate sulla propria identità appena riscoperta”, guardava a ovest con speranza. Quello che non è riuscita a creare, l’Ucraina, è stato uno stato. “Ancora oggi molti denunciano la corruzione che c’è in ogni ministero, la riforma della polizia promessa dopo le proteste non c’è stata, e ora non ci sono nemmeno più i soldi”, l’elemosina del presidente Poroshenko presso il Fondo monetario internazionale continua. “Se mi chiedi se il governo di oggi è migliore di quello che c’era prima delle proteste del Maidan – dice Kaminski – la risposta è ‘of course’, ma il paese continua a pagare il prezzo dell’incapacità dei suoi leader passati di costruire uno stato forte”.
[**Video_box_2**]Basta guardare l’esercito, nemmeno quello è stato creato in tutti questi anni. E’ impreparato allo scontro in atto, “avremmo dovuto mandare aiuti militari già da tempo, ora sono più che necessari”. Kaminski non comprende il dibattito attorno alla possibilità o no di armare gli ucraini, perché ancora una volta secondo lui la questione è compromessa nei suoi termini iniziali: “L’occidente non vuole prendere atto del fatto che la Russia, uno stato nucleare, ha invaso l’Ucraina, c’è stata un’aggressione e Putin non tornerà indietro, ma l’Europa e gli Stati Uniti continuano a non affrontare la realtà: Kiev non ha bisogno di armi per aggredire la Russia, ne ha bisogno per difendersi dalla Russia”. La leadership ucraina è “esausta”, racconta Kaminski, in questo anno di guerra sono accadute tante cose, dall’annessione della Crimea alla Russia alla guerra nell’est dell’Ucraina, “è stato anche abbattuto un aereo di linea malese, 300 morti”, e ogni volta pareva che il corso dello scontro sarebbe cambiato, ma è prevalsa l’opinione di chi esclude ogni “soluzione militare”. Così l’unica soluzione militare rimasta è quella della Russia. “Il regime del Cremlino è diventato molto forte, rivendendosi come presidente di guerra, Putin è riuscito a ricomporre tutte le fratture interne che nel 2012 erano molto forti, e oggi può permettersi di perseguire i suoi obiettivi: non è soltanto una questione territoriale, sul futuro federale o di altro genere dell’est dell’Ucraina, è che Putin non lascerà mai che la via democratica e filo occidentale prevalga a Kiev”. Il presidente russo insomma non vuole aggiungere un’altra enclave filorussa alla sua collezione, piuttosto vuole un’influenza diretta o indiretta su tutta l’Ucraina.
Kaminski ci parla al telefono da Varsavia, è appena atterrato da Mosca. Ha scattato un’altra foto poi postata su Twitter, un muro di magliette con l’immagine di Putin-condottiero, in varie forme, a cavallo o con gli occhiali da sole: “Putin swag. Moscow Feb ’15”, scrive, il bottino di Putin nel febbraio del 2015. “Ho ascoltato conversazioni allarmanti in questi giorni in Russia – racconta – Molti parlano di guerra nucleare”. Ma chi, le televisioni? “Tutti, i tassisti, le persone che ho incontrato in giro, anche le televisioni, naturalmente”. Eppure la recessione si sente, “l’economia si è contratta del 5 per cento”, ci sono pochi occidentali, gli alberghi di lusso sono vuoti – allora vuol dire che le sanzioni funzionano? “Certo – dice – ma bisogna valutare anche altri passi da fare”. Soltanto con le misure economiche la minaccia non sarà contenuta: parlare di scontri nucleari è pauroso e forse eccessivo, “ma a Mosca questi discorsi li senti dappertutto”. La guerra lunga non sembra finire, e certo non sarà il fragile cessate il fuoco di Minsk 2 a fermarla. L’atmosfera è “deprimente” sia a Kiev sia a Mosca, dice Kaminski, ma le ragioni sono diverse, perché il governo ucraino si sente abbandonato, mentre quello russo si sente sott’attacco. L’occidente non sa come muoversi, Putin invece lo sa benissimo, “ancora regge la sua versione secondo cui i separatisti sono autonomi, non sono coordinati dai suoi uomini”. Finirà mai questa guerra? “Il finale sarà brutto – conclude Kaminski – bisogna capire per chi sarà più brutto, se per gli ucraini o per i russi”. E non serve inoltrarsi per le strade di Kiev, sentire la disillusione a ogni angolo o sperare che chi, tra coloro che erano nel Maidan un anno fa, dice “siamo più forti perché siamo nel giusto” abbia ragione, per sapere che oggi il finale brutto sembra ancora una volta sulle spalle di Kiev.
Il Foglio sportivo - in corpore sano