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Il caso libico va trattato con una strategia non-standard

Carlo Pelanda

Certamente l’Italia, perché nazione più esposta a rischi gravi sia sul piano della sicurezza sia su quello economico, deve farsi parte attiva per una strategia di stabilizzazione della Libia perché in via di somalizzazione a ridosso dei suoi confini e in procinto di diventare una piattaforma operativa dello Stato islamico.

Certamente l’Italia, perché nazione più esposta a rischi gravi sia sul piano della sicurezza sia su quello economico, deve farsi parte attiva per una strategia di stabilizzazione della Libia perché in via di somalizzazione a ridosso dei suoi confini e in procinto di diventare una piattaforma operativa dello Stato islamico. Ma i primi tentativi del governo appaiono di ingenuità imbarazzante. Il governo ha avuto espressioni di allarme generico e ha proposto soluzioni vaghe mentre questa materia andrebbe trattata con diplomazia riservata, strategia non-standard e tattiche di proiezione concentrata e segreta della massima violenza. La rubrica è consapevole che non si può criticare un governo per le sue espressioni aperte senza tenere in conto le azioni riservate in corso. E’ anche consapevole che i bizzarri appelli a un intervento Onu fanno parte di un rito necessario per la politica italiana che deve fare i conti con un consenso debellicizzato. Ma le parole in (geo)politica contano e, prima di esprimersi, il governo avrebbe dovuto pensare di più e meglio nonché preparare soluzioni che ancora non si intravedono. Inoltre, la rubrica ha  dubbi sulla chiarezza degli obiettivi.

 

Quello di stabilizzare la Libia nel breve periodo, come appare dalle espressioni nominali, con una iniziativa capace di riuscirci appare irrealistico. Esporre truppe occidentali a terra, le uniche capaci di tentare rapidamente un monopolio della violenza in loco sul piano tecnico, chiamerebbe una controreazione jihadista anticrociati che nessuna nazione occidentale vuole rischiare e che metterebbe l’Italia in una non conveniente posizione di prima linea e bersaglio primario. Riportare truppe italiane in Libia poi, con la storia che c’è e con la Roma cristiana come capitale, appare un azzardo irrazionale. In sintesi, la strategia più razionale per interventi nell’area islamica è quella di sostenere da lontano forze locali pro-occidentali o condizionabili o per lo meno compatibili per interessi, in totale silenzio, con l’eventuale aggiunta di operazioni segrete per annichilire risorse importanti del nemico  e/o per aiutare gli alleati locali a uscire da un guaio. Semplificando, va applicato un metodo di guerra per procura, senza apparire, nel caso libico con azioni dirette a terra ed aeree secretate. E’ lo stesso utilizzato dall’America, in tal caso da Obama (meno criticabile del solito), nei confronti dello Stato islamico. In questa materia il problema è convincere altri islamici, o comunque locali come nel caso delle truppe del Chad intervenute contro Boko Haram, a combattere. Un modo, emerso dai fatti degli ultimi mesi, è quello di lasciare che lo Stato islamico ed altri simili compiano efferatezze tali da provocare reazioni. Per esempio, ci è voluta la morte terribile di un pilota giordano per ingaggiare la riluttante Giordania e la quasi conquista di Erbil per mobilitare i curdi (eroici). Nella complessità delle centinaia di tribù libiche ci vorrà un nucleo dello Stato islamico che usi violenza totale per ricompattare alcune di queste tribù e ricostruire un precursore di ordine e un interlocutore. La strategia non-standard, nel caso, è quella di lasciar sviluppare lo Stato islamico fino a provocare una contro-reazione locale nei luoghi dove fungheggia. Ciò è indicibile, ma è la strategia giusta.

 

Ovviamente i governi occidentali hanno il problema di non essere destabilizzati nel caso la violenza totale degli islamisti ecciti imputazioni e domande di intervento da parte delle opinioni pubbliche. Ma questo problema va risolto con azioni segrete di dissuasione: assicurare morte certa a chi solo sfiora un occidentale. Tale capacità di controterrorismo simmetrico è ancora lontana dall’essere organizzata a livello di alleanza occidentale in quanto implica delicate questioni giuridiche. Ma una nazione come l’Italia può benissimo organizzare un corpo militare speciale per interventi selettivi ed esecuzioni. Segretezza combinata con proiezione della massima violenza selettiva: serve a dissuadere, ma anche a intervenire in momenti critici specifici. Le capacità informative italiane in Libia sono già ben organizzate per questa eventuale capacità. Mancano alcuni mezzi, per esempio: micromissili tipo “spike” che colpiscono una persona senza ferire chi gli sta accanto; droni a elevata capacità di intrusione furtiva; truppe con addestramento specifico per tali missioni e inquadrate in una giurisdizione speciale che le renda immuni dalla perseguibilità da parte della magistratura; con l’integrazione di una “legione islamica” composta da arabi non-mercenari, ma resi cittadini italiani dopo 5 anni di servizio attivo sia militare sia di spionaggio-infiltrazione. A tali risorse va aggiunta la capacità di continuare a dialogare segretamente con tutte le parti, buone e cattive, in particolare con le seconde in base al principio che in guerra la prima cosa da fare è poter parlare con il nemico, elemento fondamentale per la dissuasione intrabellica. In questo l’Italia è già ben organizzata.

 

In conclusione, la strategia qui accennata non permetterà di stabilizzare la Libia in breve tempo, ma ha la più alta probabilità di un esito stabilizzante nel medio termine, cosa che un intervento frettoloso, esplicito, con il criterio standard della “legalità internazionale” e poco meditato non riuscirebbe ad ottenere.

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