Renzi in Libia. Paradosso e fenomenologia
Il premier è il vero commander in chief della possibile guerra. E si ispira a Giorgio La Pira, uomo di pace
Il La Pira dei tempi nostri va alla guerra: non da solo come era ovvio fin dall’inizio ma, quando sarà, nel quadro delle Nazioni Unite, come parte di un’ampia coalizione con robusta presenza musulmana, appoggiata dagli Stati Uniti e, si deve presumere, benedetta dalla Russia. Sarà anche battaglia di terra, di stivali nel deserto. Le parole pronunciate l’altro giorno da Renzi alla direzione del Partito democratico, “non si può passare dall’indifferenza all’isteria”, “non è il momento della guerra ma della politica e della diplomazia”, hanno frenato precedenti slanci ministeriali che avevano dato adito a fraintendimenti, e a qualche polemica, disegnando un orizzonte da cui non è affatto esclusa la guerra. Pare addirittura che nel suo cerchio ristretto il premier ne parli insistentemente da mesi, mostrando coraggio a chiamare le cose con il loro nome, a non cedere al piagnisteo politicamente corretto che quella parola vorrebbe espungere dalla storia, dalla memoria, dal vocabolario. Matteo Renzi dunque si vede non solo come innovatore e gran comunicatore, primo rottamatore d’Italia, ma anche come potenziale comandante in capo: la decisione in merito alla guerra appartiene al Parlamento, dichiararla nelle buone e dovute forme è compito del presidente della Repubblica che come recita l’articolo 87 della Costituzione presiede anche il Consiglio supremo di difesa. Ma in quel gruppo che siederà attorno a un piccolo tavolo tondo ci sono pochi dubbi su chi sarà il vero commander in chief. Pensa dunque alla guerra il premier che si ispira a Giorgio La Pira, uomo di pace se mai ce ne sono stati, di cui lui stesso, allora giovane autorità con fascia tricolore, inaugurò alla chiesa dell’Isolotto la statua in marmo rosso delle Ande. Fa notare perfidamente il giornalista Cesare Buquicchio, sul blog minima&moralia, che in occasione dei due confronti televisivi per le primarie Pd il nome di La Pira non era finito nel pantheon personale di Renzi solo perché al primo giro Bersani e Vendola si erano già giocati rispettivamente un Papa (Giovanni XXIII) e un cardinale (Carlo Maria Martini) e lui aveva preferito sterzare verso gli esteri e il mondo giovanile (Nelson Mandela e la blogger tunisina Amina). E al secondo giro, scelse il radicamento e gli equilibri interni al partito facendo i nomi dell’ex segretario Ds di Firenze, Meme Auzzi, e di don Primo Mazzolari. Ma, come dire, La Pira è più che mai vivo e lotta insieme a lui. Alla prima esperienza del sindaco santo di Firenze, oggi in via di beatificazione, è dedicata la tesi di laurea in Giurisprudenza del premier, come viene puntigliosamente ricordato in tutte le biografie. Da quando è presidente del Consiglio lo cita ogni due per tre: nel discorso di fiducia alle Camere, poi nel discorso dei “mille giorni” e proprio sulla politica estera, “occasione per rimettere al centro il Mediterraneo che La Pira avrebbe definito il prolungamento del lago di Tiberiade”. Qualche giorno prima, alla Fiera del Levante di Bari, lo evoca per difendere la superiorità della politica, della buona politica, sulla tecnocrazia perché “fare politica è la più alta forma di servizio”. Nel corso del viaggio in Vietnam, la citazione non è solo opportuna ma doverosa: La Pira fu uno dei pochi a vedere giusto e per tempo l’esito della guerra, lavorò per la pace, incontrò Ho Chi Minh, insieme redassero una bozza di accordo che gli americani rifiutarono nonostante contenesse condizioni molto più favorevoli di quelle che Nixon e Kissinger dovettero accettare anni dopo.
Quando La Pira morì, Renzi portava ancora i pannolini. Se ne ha fatto oggetto di studio, materia di riflessione e fonte di ispirazione per l’azione politica, perché è scattato qualcosa di fronte a questo provinciale dimesso, animato da fede e passione, determinato nella lotta alla povertà, che sale dalla Sicilia e arriva a Firenze di cui sarà sindaco amato e sempre rimpianto. E a cui darà ulteriore lustro nel mondo.
La Pira fu a suo modo un’anomalia nella storia democristiana, un ossimoro vivente, l’utopista concreto, santo così santo da non cercare il sacro nella relazione particolare che aveva con Enrico Mattei, imprenditore di genio e primo grande corruttore dei costumi repubblicani. O con Amintore Fanfani che prima di essere cavallo di razza fu lupo solitario dalle robuste zanne che amava il potere molto meglio se concentrato nelle sue mani, un talento innato per fare e far fare. Insieme costituirono un terzetto fuori dal comune che seppe resistere al fascismo e alle pulsioni liberali, deboli in verità, della Dc sturziana, gettando le basi dell’economia sociale di mercato a leva pubblica che ancora oggi è il fiore all’occhiello della politica cattolica. In La Pira Renzi scopre anche il fascino dell’uomo solo contro tutti, mal visto da una parte consistente del suo stesso partito, dai comunisti, dai socialisti. Un illuminato che però tirava dritto per la sua strada e difendeva ciò in cui credeva. Molte assonanze, dunque.
Fu anche lui uomo di reti e cenacoli con cui formò collaboratori, attrasse talenti. A cominciare da quel Nicola Pistelli che chiamava affettuosamente Nicolino e che fu sua ombra operosa e vigile, educato a centesimi e libertà, a capire che non c’è questa senza quelli, senza cioè un’oculata amministrazione della cosa pubblica. Nicola Pistelli, padre di Lapo, l’attuale viceministro agli Esteri che mise il piede di Renzi nella staffa della politica salvo poi pentirsene quando fu buttato giù da cavallo, cose che capitano anche fra consanguinei democristiani.
[**Video_box_2**]Insomma ci sono molte ragioni per cui il premier tiene La Pira in cima al suo pantheon personale. Le male lingue dicono che in realtà lo sceglie solo perché per il mondo e per la politica di oggi è un ricordo sbiadito, un nome che non impegna, esime da faticose autocritiche e da acrobazie ideologiche. Senza nemmeno il sospetto di relazioni pericolose con il denaro, senza la macchia dell’arricchimento personale: passò puro e immacolato anche gli anni non proprio fragranti della presa dorotea sulla bianca balena. A differenza di De Gasperi, Fanfani e Moro che hanno dovuto e voluto battagliare in grande, La Pira ha rappresentato il solidarismo cattolico in una città sola, un approccio universale con raggio d’azione limitato. Per questo nel suo nome si può fare tutto e il contrario di tutto, sognare e sperimentare, scappare in avanti o, se la mischia si fa pericolosa, magari inginocchiarsi, pregare e buttare la palla in angolo. Fu accusato di statalismo e di “comunismo bianco”, La Pira. Don Sturzo e altri dc non ne sopportavano il “marxismo spurio”, il rifiuto dei principi dell’iniziativa privata, dell’antistatalismo e dell’interclassismo. Lui: “10 mila disoccupati, 3 mila sfrattati, 17 mila libretti di povertà. E cosa dovrebbe fare il sindaco? Dire che se ne lava le mani perché non è statalista ma interclassista?”, replica di assoluto buon senso che starebbe benissimo in bocca a Renzi. Una foto in bianco e nero del Professore con lo sguardo febbrile e l’aureola che quasi s’intravvede è un passepartout per recriminare o pugnalare, difendersi o attaccare, manifestare spinte religiose se non addirittura mistiche e poi chiamare al telefono, ieri Mattei per sollecitare prosaici salvataggi di fabbriche in difficoltà, oggi Marchionne o Carrai o Guerra o chi per loro. L’amicizia assolve da ogni peccato. Ma questo in patria, nella politica interna. Fuori, invece, conta la visione del mondo, contano i simboli. E Giorgio La Pira ebbe una sola bandiera: il dialogo ad ogni costo e con chiunque. Non c’è stato satrapo del terzo mondo con venature delinquenziali o precursori di imperi del male e stati canaglia con cui lui non avesse un contatto, un canale aperto, una sponda: sovietici, cinesi, cubani, vietnamiti. Il mondo intero nelle braccia del terziario domenicano e francescano, che da giovane subì il fascino che non ti aspetti, di un D’Annunzio e un Marinetti, ma poi a folgorarlo davvero fu un coro di suore. Così racconta la sua conversione, “la Pasqua del 1924, l’alba nuova della vita in cui ricevei Gesù Eucaristico e risentii nelle vene circolare una innocenza così piena, da non potere trattenere il canto e la felicità smisurata”.
Sarà ricordato il Professore per quello che fece come sindaco e come servo di Dio. Ricostruì i ponti distrutti dalla guerra, riedificò il teatro comunale, creò quartieri satelliti, fece edificare case popolari e un numero spropositato di scuole, anche questa ossessione renziana. E fu colui che ricevendo, addirittura nel lontano 1958, un alto dignitario di Pechino gli disse di riferire al suo governo che la Repubblica popolare di San Procolo, cioè la sua, da lui fondata con i poveri di Firenze, riconosceva la Repubblica popolare di Cina. Tutti a sganasciarsi dalle risate, a sfotterlo, solo oggi si può capire quanto avesse ragione.
Se fosse ancora vivo, metterebbe in guardia il suo erede spirituale da nemici pericolosi perché animati dall’assoluto cui noi abbiamo rinunciato da tempo. Ma Renzi non può fare altro che tirare dritto e infilarsi stivali da guerra.
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