A Yale finalmente c'è una rimpatriata di tutti i censurati dal pol. corr.
Il fenomeno del disinvito nei campus americani ha subito una repentina accelerazione, dovuta al fatto che ci sono sempre più temi che si possono discutere fuori dal canovaccio della correttezza politica.
New York. Quello degli oratori disinvitati dalle università è un club molto esclusivo, e l’aggettivo è da intendersi in senso letterale, visto che i membri sono stati esclusi dalle istituzioni liberali che avevano dapprima deciso di invitarli a dibattere o a tenere discorsi. Il fenomeno del disinvito nei campus americani va avanti da almeno quindici anni con una certa regolarità, ma di recente c’è stata una repentina accelerazione, dovuta al fatto che ci sono sempre più temi che si possono discutere fuori dal canovaccio della correttezza politica, sempre più sensibilità da rispettare, sempre più diritti da violare, sempre più minoranze da tutelare, poco importa se rappresentano frazioni minime della popolazione universitaria. Ayaan Hirsi Ali era troppo esplicita sull’islam per la sensibilità degli studenti della Brandeis University, il commentatore George Will troppo critico con l’Amministrazione Obama per un gruppo di manifestanti dello Scripps College, Robert Zoellick troppo a favore della guerra in Iraq del 2003 per lo Swarthmore College, Condoleezza Rice troppo conservatrice per Rutgers, Christine Lagarde troppo capitalista per lo Smith College, e si potrebbe andare avanti per ore con l’elenco degli esclusi.
Per gli studenti del William Buckley Program, associazione di Yale dedicata al grande intellettuale conservatore, la lettera scarlatta che le università perbene hanno fissato sul petto degli esclusi è in realtà un marchio di qualità, una tessera da esibire con orgoglio. Garantisce l’estraneità al pensiero mainstream che domina i campus americani e in attesa che si producano attestati di disinvito da affiggere al posto della laurea dietro la scrivania, l’associazione ha organizzato la prima “Disinvitation Dinner”, gran cena di gala in un hotel newyorchese per far parlare quelli che sono stati silenziati dai guardiani ideologici della cultura ufficiale liberal. Buckley quella cultura l’aveva sbertucciata con arguzia nel suo pamphlet “God and Man at Yale”, denuncia dell’esclusione della sensibilità cristiana dal reame delle opinioni legittime nel campus del Connecticut. Lo diceva chiaramente: “I liberal dicono di voler dare spazio anche ad altre opinioni, ma poi sono scioccati e offesi quando scoprono che esistono anche altre opinioni”. Ora quella massima s’è arricchita di un valore profetico, e nella logica del disinvito si esprime in forme che forse nemmeno Buckley avrebbe immaginato.
[**Video_box_2**] Lo scorso anno una studentessa di Harvard ha messo in forma esplicita il senso di offesa che i liberal provano alla scoperta che esistono anche altre opinioni. In un commento sul giornale dell’Università suggeriva di abbandonare la finzione scenica della “libertà accademica”, che è il principio per il quale le università tendono a invitare anche ospiti che non la pensano come la maggioranza del corpo docenti. Meglio dirlo chiaramente, scriveva la ragazza, e invitare soltanto chi è in linea con una invisibile – ma in realtà visibilissima – linea ideologica vigente nell’accademia. Gli organizzatori della “Disinvitation Dinner” credono ancora nella libertà accademica e per riparare al ricatto illiberale del disinvito hanno creato una dépendance di libero scambio e dibattito. Iniziativa commendevole. Ma è un peccato che per sentire un’opinione discordante, scorretta si debba andare in un hotel di New York, e non in un’aula universitaria.
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