Venezia, bel suol di caos
Com'è complicato per la Lega decidere cosa fare in Veneto (e con il Cav.)
In lingua veneta direbbero forse “sbrojar el jemo”, “sbrogliare il gomitolo”, perché le matrioske da aprire, o le scatole cinesi, sono generi foresti. Sta di fatto che per il milanese Matteo Salvini il Veneto è una serie di scatole cinesi, di problemi incastrati l’uno dentro l’altro, non facile da mettere in ordine.
Milano. In lingua veneta direbbero forse “sbrojar el jemo”, “sbrogliare il gomitolo”, perché le matrioske da aprire, o le scatole cinesi, sono generi foresti. Sta di fatto che per il milanese Matteo Salvini – e per tutto il centrodestra, ma soprattutto per la Lega che lì ha la sua roccaforte – il Veneto è una serie di scatole cinesi, di problemi incastrati l’uno dentro l’altro, non facile da mettere in ordine. La scatola più grande, come dire l’involucro esterno e madre di tutti i problemi, è la strategia nazionale della Lega. La linea generale, avrebbe detto Lenin. Che però non c’è. E’ il dilemma della nuova Lega salviniana: essere partito di governo, come da vent’anni è nel nord con Berlusconi, e spesso pure con i cespugli centristi, oppure essere forza populista e antisistema, d’opposizione pregiudiziale. Non che il problema sia diverso in Lombardia, l’altra roccaforte rimasta al Carroccio, l’unica differenza è che lì non si vota a maggio. Ma ieri, ad esempio, il governatore Roberto Maroni ha rilasciato un’intervista al Corriere della Sera in cui in sostanza dice: caro Salvini, va bene tutto e va bene la nuova linea del partito, ma qui governiamo con FI e pure con Ncd, lasciaci lavorare. Peccato che il giorno prima, al Pirellone, la Lega con il centrodestra e pure con i consiglieri del Movimento cinque stelle abbia approvato il via libera a un referendum consultivo per chiedere più autonomia rispetto al governo nazionale. “Una boiata pazzesca”, per Giuliano Pisapia. Di certo, un segnale contraddittorio per un partito che vuole farsi, in sostanza, di “destra nazionale”. Il dilemma di Salvini non è solo questione giornalistica o d’immagine. Il politico è giovane ma scafato, in molti credono che alla fine ricalcherà i passi tante volte segnati in passato da Umberto Bossi: allearsi e comandare con i vecchi alleati, anche fingendo di litigare. Oltre a questo, c’è un altro aspetto che investe la strategia complessiva del Carroccio: continuare a essere forza di governo del territorio, o rischiare di abbandonare i posti che contano. Salvini vive un momento magico mediatico, lo sa, vede i sondaggi premiare la sua linea da street fighter e su questo fa i suoi calcoli. Che veda con fastidio il partito degli amministratori, la Lega in giacca e cravatta, è palese. Ma poi? In Veneto, e per il sindaco di Venezia, si voterà il 17 (o forse il 24) maggio. E per il 7 marzo Salvini ha annunciato un “grande evento” a Venezia, con Giorgia Meloni e (forse) la leader del Front national, Marine Le Pen. Tema l’immigrazione. Non proprio un approccio “di governo”.
Dentro alle prime due scatole cinesi, il Veneto rappresenta poi tutto il problema del centrodestra. Lungi dall’essere questione locale, è uno specchio magico per leggere i destini nazionali del (post) berlusconismo. La Lega in Veneto ha tre problemi: di governo, di alleanze e di leadership personali. Il governatore Luca Zaia ha personalmente un buon feedback, i sondaggi concordano che, in coalizione, è difficile che Lega e centrodestra possano perdere contro la sinistra a trazione Alessandra Moretti. Ma è meglio partire dal centrodestra. E da una strana idea di andare a votare col ballottaggio che potrebbe essere l’uovo di Colombo.
Le cose stanno così. All’inizio della legislatura, la prima del post Galan, il centrodestra viaggiava su due solide gambe: la Lega e il Pdl. A breve, il Consiglio regionale si scioglierà con ben sette gruppi. L’ultimo, appena nato, è l’ennesimo fuoriuscito dalla Lega. Tenere insieme una possibile coalizione così, alle elezioni, può non essere semplicissimo. Anche a prescindere dai roboanti niet che (per ora) Salvini oppone a possibili alleanze con Forza Italia e Ncd, anche a prescindere dai dualismi tra Zaia e il potenziale rivale Flavio Tosi, sindaco di Verona nonché segretario della Liga veneta. Così ha fatto capolino, per ora giace in una commissione, un progetto di modifica della legge elettorale regionale proposto da Diego Bottacin (gruppo Misto) e Francesco Piccolo (gruppo Misto) che punta a introdurre il doppio turno con ballottaggio, come già è ad esempio in Toscana. Bastone o carota? Chiaro che il doppio turno risolverebbe alla radice il problema delle divisioni di schieramento, e soprattutto quello dentro alla Lega. Ma persino al Pd potrebbe non andare male.
Perché il maggior problema, arriviamo alle scatole cinesi più interne, è nella Lega. Luca Zaia è ben messo personalmente nel giudizio degli elettori, ma è un decisionista e sconta il limite di non avere saputo costruire una regìa di governo e di rapporti, un sistema. Dalla sua ha il buon senso (nazionale) di Berlusconi, che suggerisce che il cavallo in carica non si cambia, e l’appoggio un po’ indifferente di Salvini: è la scelta più semplice, ha lasciato capire, senza molti entusiasmi. Poi c’è Flavio Tosi. Tosi è il vero rivale ideologico di Salvini e dell’alleanza classica col centrodestra (anche se ora, paradossalmente, potrebbe allearsi con i centristi e contro Zaia). Guida Verona con una lista trasversale che era stata appoggiata anche dalla sinistra, è lontano mille miglia dalle smargiassate veteroleghiste. Tosi esige che, a sostenere il governatore uscente, ci siano anche liste civiche. Altrimenti è pronto a correre da solo. Salvini non gradisce, Zaia nemmeno. Salvini vorrebbe correre in Veneto da solo. Zaia, che non è un suicida, non gradisce. Con Tosi c’è la Liga veneta, guidata da lui stesso, che gradisce poco i “milanesi”, per principio. Andare da soli resta una tentazione, al momento. Con prevedibili ricadute nazionali. Il risultato (parziale) è che FI e Area popolare si sono dichiarate pronte a correre per conto loro, cioè contro Zaia. Tra chi la pensa così ci sono Renato Brunetta, Elisabetta Gardini, Maurizio Sacconi. Tutti veneti.
[**Video_box_2**]Problema nel problema, quello tra Zaia e Tosi è anche un duello rusticano tipicamente venetista. Come ha raccontato qualche giorno fa il vecchio Gian Paolo Gobbo, fedelissimo di Bossi e per anni deus ex machina del leghismo veneto, la ruggine risale alle precedenti elezioni, quando Bossi aveva Assicurato a Tosi il posto per la regione, salvo optare poi per il più apprezzato Zaia. L’indiziato del diverso apprezzamento è, come al solito, Silvio Berlusconi. Per il momento la mitica “quadra” di bossiana memoria non si trova, e la soluzione sembra dover essere nazionale, proprio perché lo scontro è locale. Un problema, perché poi ci sono sondaggi che parlano chiaro. Per dirla con Salvini: “Tutti i sondaggi, soprattutto quelli del Pd, dicono che con la formula ‘Lega-Lista Zaia’ la Moretti (la candidata del Pd, ndr), ci vede tra tre anni. Secondo me è inutile complicarci la vita”.
Poi c’è Venezia. Già, perché dopo l’affaire Mose, con arresto del sindaco Giorgio Orsoni, la città è commissariata. E stavolta è il Pd a dover scegliere se lasciare la candidatura a sindaco a uno come Felice Casson oppure muovere le sue pedine. In Veneto e per la città. Ma Renzi, per ora, aspetta.
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