Il segretario del Partito democratico Matteo Renzi è presidente del Consiglio dal 22 febbraio del 2014

Un anno di Renzi. Pagella fogliante

Claudio Cerasa

Riforme, lacune, rottamazioni, enunciazioni, provocazioni, vittorie, sufficienze (molte), insufficienze (gravi). Radiografia politica dei primi dodici mesi del governo Leopolda - di Claudio Cerasa

Che anno è stato quello di Matteo Renzi? Domenica prossima sono esattamente dodici mesi dal giorno in cui il segretario del Pd, con molte affettuosità campanellistiche condivise con il suo amato e sereno predecessore Enrico Letta, ha giurato al Quirinale come nuovo presidente del Consiglio. Solitamente è una pratica non particolarmente eccitante e costruttiva quella di provare a capire cosa ha fatto di buono o di non buono un governo dopo un anno dal suo insediamento. Ma in quest’anno di egemonia renziana sul Parlamento, e sul paese, sono successe molte cose che vale la pena non tanto ricordare ma almeno spiegare per trarre un bilancio politico di quello che a dodici mesi di distanza è l’Italia guidata dal segretario del Pd. Per orientarci può essere utile offrire una metafora che crediamo efficace. L’Italia di Renzi è come una tartaruga muscolosa che dopo aver camminato per molti mesi su una strada sterrata si ritrova improvvisamente a passeggiare con una certa eccitazione su un tapis roulant. La tartaruga come si sa non è un animale velocissimo, e non si può dire che in un anno di governo Renzi l’Italia sia andata particolarmente di corsa – e anzi, diciamo noi, ha continuato ad andare molto lenta. Ma questa tartaruga ha una potenzialità importante, anche se ancora in buona parte inespressa, che non si può negare ma che rimane intrappolata all’interno di un rapporto matematico che Renzi non ha ancora risolto: la distanza tra enunciazione e rottamazione. Dopo un anno di governo Renzi la nostra valutazione è questa: dal punto di vista dell’enunciazione Renzi funziona, dice quasi sempre le cose giuste, si muove seguendo spesso una direzione corretta, mostra di conoscere quali sono i problemi del paese; ma dal punto di vista della rottamazione il renzismo funziona a metà, e non solo perché tra il dire e il fare c’è di mezzo il gruppo parlamentare, ma anche perché su alcuni temi, vedremo quali, è stato Renzi a promettere alcune cose che il governo avrebbe dovuto fare in un batter d’occhio e che invece non sono state fatte – e noi temiamo che non verranno mai fatte. Dunque, si capisce, la tartaruga ha i muscoli, si vedono a occhio nudo, a volte sono anche eccessivi, un po’ da bulli, un po’ da coatti, ma non riesce a correre come potrebbe. E per questo all’interno della nostra storia la variabile tapis roulant è importante e deve essere messa a tema.

 

Il tapis roulant di Renzi, ovvero una certa facilitazione di cui potrà godere il presidente del Consiglio nei prossimi mesi, è un dono che si è magicamente materializzato sul terreno del nostro paese grazie a una fortunata congiunzione astrale. In gergo tecnico, gli esperti la definiscono così: una grande botta di culo. Le tre variabili importanti sono, lo sappiamo tutti, il dollaro basso, che migliorerà in prospettiva le nostre esportazioni; il petrolio basso, che come dice il Fondo monetario internazionale potrebbe far crescere il pil mondiale fino allo 0,8 per cento in più rispetto alle attese precedenti e che potrebbe avere un impatto importante anche sull’inflazione, facendo cioè crollare ancora più di oggi i prezzi al consumo; e poi, infine, e forse soprattutto, l’operazione di Quantitative easing messa in campo da Mario Draghi, che avrà l’effetto di far abbassare, anche in Italia, i tassi di interesse sui titoli di stato (lo abbiamo già ricordato qualche giorno fa: cento punti di spread in meno valgono circa 20 miliardi). Il tapis roulant di Renzi, dunque, permetterà di drogare per qualche mese il cammino della tartaruga, almeno fino al settembre 2016, momento in cui il Qe di Draghi dovrebbe terminare, e molte delle piccole buone notizie che arriveranno nei prossimi mesi sullo stato dell’economia italiana saranno da ricollegare prima di tutto a questi fattori esterni e in piccola parte ai fattori interni. Ci sarà un segno più quest’anno accanto alla parola crescita, certo, psicologicamente il dato potrà esaltare il presidente del Consiglio, i suoi fan e una buona parte del paese (anche se uno zero virgola qualcosa del pil confrontato con quanto l’Italia ha perso negli ultimi otto anni di crisi economica, 12 per cento del pil, vale quello che vale). Ma per immaginare come Renzi sfrutterà davvero il tapis roulant in movimento ci sono tre questioni importanti. Una questione politica. Una questione economica. Una questione geopolitica.

 

La prima questione, quella politica, è centrale per comprendere con che forza Renzi arriva a gestire quel che resta di questa legislatura (che non sarà molto lunga secondo noi, pensiamo fino al termine del 2016). E’ il vero punto di forza di Renzi sarebbe da pazzi non notarlo e non metterlo in rilievo. Seguite il filo. Il presidente del Consiglio ha cominciato la sua avventura al governo avendo due grandi ferite da sanare. La prima è quella della modalità con cui Renzi è arrivato a Palazzo Chigi, ovvero senza passare dalle elezioni – una cosa che il presidente del Consiglio aveva promesso che non sarebbe mai successa, ma ormai abbiamo capito che Renzi non si trova del tutto a disagio (ridiamo) a promettere una cosa e poi a fare l’esatto contrario, se capita. La seconda ferita è quella legata alla modalità con cui questa legislatura è iniziata, ovvero il contesto nel quale è maturato il bis di Giorgio Napolitano, il contesto nel quale venne presa a ceffoni la vecchia classe dirigente del Pd e il contesto nel quale maturò la grande coalizione (e a due anni di distanza, oggi, si può dire che i franchi tiratori restano una delle correnti più riformiste del Parlamento). Dodici mesi dopo Renzi ha sanato entrambe le ferite. Il Rottamatore, come dice giustamente Berlusconi, resta il terzo presidente del Consiglio di fila arrivato a Palazzo Chigi senza essere passato per le elezioni (Monti, Letta, Renzi), ma a differenza di tutti gli altri è il primo di quelli non passati per le elezioni ad aver vinto, in modo clamoroso, alcune elezioni. Quelle Europee, maggio 2014, con il 40,8 per cento, record per la sinistra italiana, e poi tutte quelle amministrative, nessuna esclusa. Risultato: l’Italia di Renzi oggi è anche l’Italia del Pd, e nell’attesa delle prossime regionali oggi il centrosinistra controlla dal punto amministrativo gran parte del paese (i capoluogo di regione in mano al centrodestra sono solo Perugia, Catanzaro, Aosta, Potenza) e negli ultimi dodici mesi il Pd ha conquistato, nell’ordine, Calabria, Emilia Romagna, Abruzzo, Piemonte (e alle prossime regionali si presenta con buone possibilità di vittoria in molte regioni oggi governate dal centrodestra, compreso il Veneto, compresa la Campania).

 

La seconda ferita sanata è invece quella relativa alla partita del Quirinale e il fatto che Renzi sia riuscito a imporre a questo giro un nome alla quarta votazione è stato, tatticamente, come abbiamo scritto anche su questo giornale, un capolavoro politico del presidente del Consiglio. Il rimarginamento della seconda ferita ha però creato l’apertura di una ulteriore ferita che potrebbe essere letale per la tartaruga renziana. E qui bisogna aprire una parentesi importante che riguarda i rapporti con quello che è stato il motore bis del governo Renzi: Silvio Berlusconi. Diciamola tutta: Matteo Renzi è arrivato a Palazzo Chigi, e ha convinto Giorgio Napolitano a non far stare sereno Enrico Letta, perché, al contrario di Enrico Letta, in quella fase politica l’allora sindaco di Firenze aveva la possibilità di offrire al paese qualcosa che Letta non poteva offrire. Da una parte il carisma, la freschezza, il dinamismo, e questo si sa. Ma dall’altra parte una maggioranza più grande rispetto a quella che girava attorno a Letta e dunque utile a fare l’unica cosa che poteva dare e può dare un senso a questa legislatura: le riforme costituzionali. Renzi dice da sempre che questo governo esiste solo se è costituente e senza una maggioranza costituente il governo smette rapidamente di esistere: perché numericamente può andare avanti, forse, politicamente invece no. A questo va aggiunto poi un altro elemento di riflessione. Il primo anno del presidente del Consiglio, con la sua capacità di attrarre nella sua orbita politici ed elettori che un tempo erano semplicemente berlusconiani e ora invece sono qualcosa di più, è stato caratterizzato da quella che è la vera novità culturale del renzismo: osservare i nemici di sempre, il partito dei caimani, non come degli avversari da spazzare via dalla faccia della terra ma come degli avversari da conquistare, sedurre e attrarre – sia politicamente sia elettoralmente. E le vittorie alle elezioni si spiegano anche seguendo questo filo.

 

Il vulnus creato dall’elezione del presidente della Repubblica – vulnus che in realtà è stato più legato al metodo che al nome, più legato alla modalità con cui Renzi ha scelto Sergio Mattarella che al nome stesso del presidente della Repubblica, che Forza Italia non ha mai amato per via di vecchie ruggini passate, pensate a quando Mattarella chiese di espellere Forza Italia dal Ppe, ma che in realtà la classe dirigente berlusconiana non considera come il male assoluto, anzi – è un vulnus che ha però spaccato in qualche modo il partito del Cav. e anche in questa dinamica c’è molto del renzismo di lotta e di governo. Dividere per comandare. Separare per contare. Spezzettare per governare. Fateci caso: dall’inizio della legislatura a oggi, tutti o quasi i partiti entrati in Parlamento hanno subìto delle trasformazioni bestiali – si sono divisi, ricomposti e spesso spezzettati. Il Movimento cinque stelle ha perso 36 parlamentari. Il Pdl non esiste più. Gli eredi del Pdl – Ncd e Forza Italia – sono divisi in due tronconi: tra quelli che si sentono sempre più attratti dal renzismo e quelli che si sentono invece sempre meno attratti dal Leopoldismo. Il centro, vabbè, non c’è più. I figli del centro si sono divisi anche loro in mille pezzi. Tra i montiani, per dire, non c’è più nemmeno lo stesso Monti. E anche i compagni vendoliani, duri e puri, si sono divisi in due filoni: chi con Renzi, chi contro Renzi. Divide et impera. E lo stesso metodo, Renzi lo ha utilizzato portando avanti la sua attività di governo. E soprattutto con le grandi corporazioni e i sindacati. Lo schema è sempre quello: triangolare più con le singole parti che con chi rappresenta le parti, cercare di far saltare un vecchio sistema dando più spago a una parte di quel sistema e poi provare a riformare quel sistema partendo da questo punto di forza. Dividere per governare. Formula che poi ha trovato una sua naturale collocazione accanto a un altro concetto chiave del renzismo: accentrare per governare (il risultato di questo processo è evidente, lo si osserva ogni giorno a Palazzo Chigi, lo si osserva ogni giorno nei rapporti tra il governo e la presidenza del Consiglio, con la netta impressione che i ministri, tutti, tranne forse Maria Elena Boschi, siano diventati viceministri dei veri ministri, quelli con le casacche da consiglieri o da sottosegretari del capo del governo che si muovono per Palazzo Chigi). E’ questo lo schema Renzi. Ed è uno schema che politicamente oggi funziona – anche perché i suoi avversari sono deboli, poco organizzati, senza una direzione, senza un obiettivo, a volte depressi, scoraggiati, demotivati. Ma qui arriviamo al resto della questione: il metodo Renzi funziona, ok, ma riesce anche a produrre effetti? La questione è articolata.

 

Negli ultimi dodici mesi Renzi ha messo in campo un numero di riforme annunciate e avviate che come mole era da molto tempo che non si vedevano tutte insieme. Quelle più significative e più importanti a nostro avviso sono queste e sono quelle che se portate a termine aiuteranno il nostro paese a muoversi con i muscoli più sciolti sul tapis roulant. La riforma del lavoro, prima di tutto, che è il vero e forse unico successo completo del governo Renzi. L’articolo 18, e la sua parziale abolizione, ha avuto un impatto simbolico importante sull’economia ma il sistema di flessibilità in entrata e uscita messo in campo con il Jobs Act (compreso anche il sistema di sgravi, piccolo ma simbolico, previsto all’interno dei nuovi contratti di lavoro) avrà l’effetto di incentivare le assunzioni e i risultati arriveranno. E se il presidente del Consiglio vorrà provare a ricreare nell’Italia di oggi, con Sergio Marchionne, lo stesso rapporto virtuoso che si venne a creare nel 2003 in Germania tra l’allora Cancelliere Schröder e l’allora capo del personale della Volkswagen, Peter Hartz, il passaggio successivo è quello già scritto nel Documento di economia e finanza 2014: contratto unico a tutele crescenti e rafforzamento della contrattazione aziendale. Da questo punto di vista, la sfida di Renzi, sfida delle prossime settimane, è quella di replicare lo stesso meccanismo anche nel pubblico impiego – e se il governo non dovesse rendere più semplici i licenziamenti nella Pa sarebbe davvero uno scandalo, sarebbe come voler certificare, ora sì, che esistono i famosi lavoratori di serie A e lavoratori di serie B. La riforma del lavoro ha dunque i fondamentali giusti ma senza una cornice adeguata – senza una riforma completa della cassa integrazione, senza interventi mirati dello stato finalizzati al risanamento delle aziende, senza una politica che permetta allo stato di organizzare interventi per ricollocare i lavoratori sul mercato e non per soltanto far vivere aziende decotte, senza una riforma della burocrazia più incisiva, senza un taglio dell’Irap più robusto – anche questa riforma rischia di essere una droga che può durare per un periodo di tempo ridotto. Sull’economia l’elenco di ciò che resta da fare a Renzi è molto lungo, e preso atto che i dieci miliardi spesi con il pacchetto relativo agli ottanta euro non avranno un impatto importante sui consumi (chi ha preso 80 euro i soldi non li spende, li mette da parte, ripiana vecchi debiti), il vero termometro che ci permetterà di misurare il riformismo renziano è un’abbinata di riforme: la riforma fiscale e la riforma della giustizia. Sulla riforma fiscale Renzi potrà dire quanto vuole che ha abbassato le tasse ma tecnicamente non è vero, e quando qualcuno fa notare a Renzi che nei prossimi anni sono previsti aumenti di tasse quel qualcuno, semplicemente, dice il vero (nota di aggiornamento del Def: un aumento dell’Iva previsto per le imposte indirette di 12,4 miliardi di euro nel 2016, di 17,8 miliardi nel 2017 e 21,4 miliardi nel 2018). Per tagliare le tasse Renzi ha un solo modo ed è un modo elementare: tagliare la spesa pubblica e destinare quella quota di spesa pubblica tagliata all’abbassamento delle tasse. Lo aveva anche detto Renzi (differenza tra enunciazione e rottamazione) che nel 2015 avrebbe tagliato di 20 miliardi la spesa pubblica ma una volta ottenuto dell’Europa un margine di flessibilità nel rapporto deficit-pil ha trasformato i 20 miliardi in 4 miliardi e ha rinviato a chissà quando il suo ambizioso piano di spending review (ad aprile 2014 il viceministro all’Economia, Enrico Morando, aveva annunciato che il governo avrebbe tagliato 32 miliardi in tre anni di spesa pubblica, al momento siamo molto ma molto indietro diciamo).

 

[**Video_box_2**]Sulla giustizia, purtroppo, i segnali che arrivano non sono incoraggianti e Renzi (differenza tra enunciazione e rottamazione) pur avendo sempre inquadrato i problemi strutturali che riguardano la giustizia italiana non affronterà, nella riforma del sistema penale che il ministro Andrea Orlando sta preparando per i prossimi mesi, alcuni punti chiave che un governo coraggioso avrebbe dovuto invece prendere di petto: separazione delle carriere, obbligatorietà dell’azione penale, riforma del Csm, abolizione delle correnti, riforma della custodia cautelare. Tutte cose che Renzi vorrebbe fare ma tutte cose che oggi il presidente del Consiglio forse non avrà il coraggio e la forza di fare.

 

Nel racconto dell’anno di Renzi – anno che a nostro avviso si conclude con una sufficienza più che superata – più che la politica economica (insufficiente per ciò che stato fatto in Italia, anche se la riforma delle banche popolari è una riforma importante che questo giornale segnala da anni come una priorità; più che sufficiente per quello che è stato fatto in Europa, dove sono stati sbloccati alcuni meccanismi di flessibilità che bisognerà saper sfruttare, e non solo per spendere di più) ciò che invece raggiunge e supera la sufficienza è il pacchetto di riforme costituzionali, di cui ci occuperemo in modo più rigoroso e ampio nei prossimi giorni. Per l’Italicum (e la sua vocazione al bipolarismo) e la riforma della Costituzione (per la sua vocazione al monocameralismo) vale il vecchio detto di Winston Churchill: quella proposta è la peggior forma di governo, eccezion fatta per tutte quelle che si sono sperimentate fino a ora.

 

Nell’anno renziano andrebbe poi dedicato un capitolo a parte al modo in cui il presidente del Consiglio ha cercato di dare al nostro paese una collocazione nel mondo, ma su questo il giudizio è più complicato. La nomina di Federica Mogherini al ruolo di Alto rappresentante per la politica estera europea è stata un successo politico ma non ha ancora dato grandi risultati al nostro paese. Renzi è un filoamericano filoisraeliano con simpatie più clintoniane che obamiane, che cerca di influenzare in modo costruttivo la sinistra europea provando a portarla più sul lato di una moderna terza via che su quello del socialismo della disperazione alla Hollande, alla Bersani e alla Ed Miliband. Il suo disegno è chiaro ma non è ancora chiaro quanto conti l’Italia nel contesto europeo e internazionale. Renzi, da mesi, prova a essere un mediatore tra i vari fronti in cui l’Italia si trova immersa. Mediatore tra Grecia e Germania. Mediatore tra Putin e Germania. Mediatore tra Russia e medio oriente. Mediatore tra Libia e occidente. Prendendo posizione, quando serve, ma cercando di non esagerare, di affidare tutto alla diplomazia, alle relazioni. E ora c’è la Libia. Renzi proverà giustamente a mediare anche qui. Ma la mediazione prima o poi finirà. E sarà a quel punto che Renzi dovrà dimostrare di essere non soltanto un buon commander in chief ma di aver messo da parte definitivamente i vecchi calzoni corti. Il tapis roulant è lei. Lasciarlo correre senza riuscire a far correre la nostra tartaruga sarebbe un errore che l’Italia potrebbe non perdonare al presidente del Consiglio

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.