Il ministro Maria Elena Boschi e il premier Matteo Renzi (foto LaPresse)

Forme e riforme

Sergio Soave

Sulle modifiche costituzionali governo promosso per la volontà, ma il metodo è perfettibile. L'analisi di Sergio Soave

Gli emendamenti presentati dal governo alle precedenti bozze di riforma della Costituzione rappresentano di per sé una novità rilevante, introducendo esplicitamente il ruolo propositivo dell’esecutivo in una materia, quella istituzionale, tradizionalmente riservata alla dialettica parlamentare (il che aveva portato in passato anche alla nomina di commissioni bicamerali per la riforma istituzionale, che però hanno sempre fallito l’obiettivo della concretizzazione del processo riformatore).

 

Anche se le forme sono state rispettate, il protagonismo diretto del governo poteva provocare una reazione quasi automatica che ha trasformato le opposizioni all’esecutivo in opposizioni alle riforme costituzionali. Si può discutere se a questo esito divisivo abbia contribuito di più il clima di tensione che si era creato nella principale opposizione per il metodo seguito nell’elezione del Presidente della Repubblica o lo stile garibaldino adottato da Matteo Renzi. Resta il fatto che finisce con l’identificare la maggioranza di governo con quella istituzionale, il che potrebbe avere conseguenze sgradevoli quando si tratterà di sottoporre le riforme, se saranno approvate dalle due Camere con testo identico per due volte, al giudizio di un referendum confermativo senza limitazione di quorum.

 

1) Il superamento del bicameralismo ripetitivo. Il testo vigente sostanzialmente prevede una identità di funzioni tra le Camere, che si differenziano quasi soltanto per i diversi limiti di età richiesti per l’elettorato attivo e passivo. Il nuovo testo cambia tutto: funzioni diverse, assai ridotte rispetto a quelle originali, corpo elettorale diverso, che non è più la popolazione di età superiore ai 21 anni che vota direttamente, ma i Consigli regionali che nominano al loro interno la maggior parte dei Senatori e ne scelgono un quinto tra i sindaci, inoltre dopo la prima tornata i senatori saranno sostituiti man mano che vengono rinnovati i consigli regionali o municipali da cui provengono, e naturalmente decade la norma che richiedeva un’età minima di 40 anni.

 

Si è concentrata l’attenzione sulle funzioni che il Senato non eserciterà più: la concessione o il ritiro della fiducia al governo e, di norma, l’approvazione delle leggi ordinarie che viene sostituita da una curiosa metodologia che consente di ritardarne il varo definitivo su richiesta di una minoranza ma che lascia alla Camera l’ultima parola. Comunque, anche se si possono avanzare obiezioni su qualche tecnicismo, l’abolizione del bicameralismo ripetitivo, che è uno dei meccanismi che più hanno inciso sulla pessima qualità e sulla scarsa tempestività del processo legislativo, è senza dubbio un dato positivo.

 

Quello che invece suscita più perplessità è il potere ispettivo e in sostanza ordinamentale sulle istituzioni regionali e comunali (quelle provinciali vengono abolite come livello di rappresentanza) affidato a un’assemblea di esponenti di quelle stesse istituzioni che sono chiamati a monitorare. Il rischio di creare una specie di corto circuito istituzionale è tutt’altro che puramente ipotetico.

 

2) Il tema delle funzioni di controllo sulle istituzioni regionali e municipali da parte del Senato delle autonomie va considerato insieme alle riforme del Titolo V, quello che definisce i rapporti tra i diversi livelli di governo. Attualmente la costituzione emendata nel 2001 da una maggioranza di centrosinistra elenca i diversi livelli di governo, nazionale, regionale, provinciale e municipale, a ciascuno dei quali viene riconosciuta una pari dignità senza una precisa gerarchia, il che ha prodotto la cosiddetta pratica dei poteri “concorrenti”, cioè l’assoluta incertezza su chi fosse legittimamente titolato ad assumere decisioni. Ora si cerca di porre rimedio a questa situazione confusa che aveva provocato una serie di conflitti di competenze con alcune precisazioni e qualche modificazione più essenziale in direzione di un chiarimento che in sostanza propone una gerarchizzazione delle istituzioni con un potere prevalente di quelle nazionali (una delle quali, però, appunto il Senato della autonomie è emanazione diretta di queste ultime). Al di là di qualche rilevante modificazione degli equilibri di potere nel settore della Sanità, che rappresenta la grande maggioranza delle spese regionali, è stata adottata una norma che consente allo stato di esercitare un diritto di “supremazia”, cioè di intervenire direttamente in materie di competenza regionale quando questo sia necessario per tutelare beni essenziali come l’unità nazionale o l’interesse nazionale. Da un punto di vista formale si tratta di un capovolgimento del principio di sussidiarietà, quello che prevedeva che ogni livello di governo fosse abilitato a realizzare tutto ciò che riusciva a controllare, salvo un intervento appunto “sussidiario” del livello superiore solo quando necessario per ottenere i risultati prefissati. La formulazione così ampia e così generica dei casi in cui può essere esercitato il principio di supremazia, appunto l’interesse e l’unità nazionale, consente, in linea di principio, allo Stato di sostituirsi alle Regioni anche nei campi di loro competenza esclusiva. Questo principio di accentramento, però, è vincolato all’approvazione di norme interventistiche da parte del Senato, costituito da una rappresentanza ultramaggioritaria delle Regioni. Inoltre al Senato, oltre alla potestà legislativa sulle questioni che concernono i rapporti tra Stato ed enti locali, resta il diritto di approvare il bilancio, compresa naturalmente la dotazione finanziaria destinata dallo Stato alle autonomie locali, il che potrebbe preludere a una condizione di “ricattabilità” reciproca che finirebbe con lo sfociare in una potenziale paralisi del sistema decisionale.   

 

3) Sulla composizione del Senato delle autonomie, l’emendamento governativo, che definisce una certa proporzionalità tra la popolazione delle singole regioni e il numero di senatori attribuiti, corregge parzialmente l’ipotesi precedente, che conferiva un egual numero di rappresentanti a tutte le Regioni e le Province autonome, anche se avendo mantenuto un minimo di due rappresentanti per ogni ente (19 regioni e due province autonome) in realtà la proporzionalità risulterà fortemente alterata. Anche questo passaggio (che rappresenta comunque un miglioramento nella direzione di una rappresentanza più fedele dell’elettorato, seppure attraverso una elezione di secondo grado) esprime l’incertezza nell’adottare un modello specifico nella definizione della Camera alta. Convivono infatti, nella norma approvata su impulso del governo, sia la suggestione del Bundesrat tedesco (che però funziona all’interno di un sistema federale in cui i poteri specifici dei laender sono ben determinati), quella del Senato americano, con la formula dei due rappresentanti minimi per Regione, ma anche qualche reminescenza del senato di nomina regia, nel mantenimento di senatori di nomina presidenziale, che però non sono più a vita. Naturalmente ogni paese può trovare più soddisfacente una soluzione istituzionale più adatta alle sue specificità, e questo vale anche per l’Italia, che non si vede perché debba imitare istituzioni altrui (che a loro volta spesso nascono da tradizioni che hanno la loro origine proprio nell’antichità romana o almeno in una interpretazione di quelle istituzioni). Tuttavia si fatica a comprendere a che logica specifica corrisponda un processo che da una parte, capovolgendo il principio di sussidiarietà, conferisce allo Stato una supremazia corposa, forse persino troppo esibita, nei confronti dei livelli regionali e locali di governo, salvo poi consentire a un assemblaggio di rappresentanze dei livelli di governo inferiori la gestione dei rapporti tra Stato e Regioni e il controllo dei flussi finanziari che sono la sostanza dei rapporti di forza e di potere tra istituzioni. Si ha l’impressione che in questa dialettica fisiologica si introduca, invece che una semplificazione e un chiarimento delle reciproche funzioni, una duplice possibilità di paralizzare le scelte dell’altro. La tematica non è semplice, gli ottimisti possono pensare che comunque si compie un passo in avanti rispetto alla situazione attuale, in cui il conflitto di competenze non è un’eccezione ma la regola, però questo non dovrebbe far dimenticare che far decidere del bilancio dello stato a una rappresentanza di soggetti che ne ricevono il finanziamento è piuttosto assurdo, come, dall’altra parte, consentire allo stato centrale di sostituirsi alle rappresentanze legittime delle popolazioni locali in base a una insindacabile e generica considerazione dell’interesse nazionale.

 

4) Il problema del rapporto tra stato centrale e autonomie appare quello lasciato aperto nelle riforma istituzionale e se non sarà sciolto in qualche modo prima dell’approvazione definitiva rischia di incancrenirsi definitivamente anche perché tra i poteri attribuiti alla Camera delle autonomie c’è quello di votare in modo determinante su ogni futura riforma costituzionale. Questo significa che, soprattutto in questa materia, non regge l’ipotesi di “provare e vedere”, cioè di sperimentare in concreto norme che possono presentare aspetti critici, nella convinzione che potranno poi essere corrette in base all’esperienza. Questo principio metodologico improntato al pragmatismo, che in generale è il migliore antidoto al  perfezionismo che si traduce in paralisi, non vale in questo caso, proprio perché la potestà attribuita al Senato delle autonomie in materia istituzionale esclude che si possano in futuro apportare modifiche che rafforzino il ruolo dello stato centrale nella dialettica interistituzionale. Da questo punto di vista le polemiche che si sono innestate sul presunto carattere autoritario delle riforme appaiono del tutto scentrate. Le affermazioni centralistiche sono molto altisonanti, a cominciare dal principio di supremazia, ma in sostanza risultano inapplicabili, appunto perchè la potestà condivisa  del nuovo Senato con la Camera dei deputati sul bilancio dello Stato e sulle riforme istituzionali rende in sostanza una pura affermazione retorica questo principio centralistico. Anche l’altro emendamento che dovrebbe assicurare il rafforzamento del potere dell’esecutivo sulle Camere, la nuova normativa sulla decretazione e sulla corsia preferenziale per le leggi considerate prioritarie, non è affatto scevro dal rischio di produrre conseguenze contraddittorie. La limitazione dell’uso del decreto è in linea di principio sacrosanta, ci si può domandare però se essa debba essere introdotta nella Costituzione (che già prescrive i requisiti di straordinarietà e di urgenza, che se fossero rispettati alla lettera renderebbero inutile una modifica) oppure se non sarebbe meglio lasciare questa materia ai regolamenti delle assemblee. In particolare per le materie sulle quali la competenza del Senato resta paritaria, le materie di interesse regionale e soprattutto il bilancio dello stato e quelli dei ministeri, bisognerebbe capire come si può esercitare il ruolo del governo, che oggi si affida solitamente al vincolo della richiesta di fiducia a sostegno die leggi o emendamenti di carattere strategico, metodo che ovviamente non potrà essere impiegato in una Assemblea, come quella del nuovo Senato, che siccome non conferisce la fiducia non può essere sottoposta a voti di fiducia che condizionano l’approvazione di singoli provvedimenti.

 

[**Video_box_2**]5) Un tema che non ha suscitato particolare interesse, se non per il tentativo poi abortito di trovare una qualche sintonia con il Movimento 5 stelle è quello referendario. La nuova norma stabilisce una doppia  soglia: rimane immutata quella delle 500 mila firme, che poi richiede, per l’approvazione dei quesiti, la stessa maggioranza, la metà degli aventi diritto al voto più uno, già prevista dal testo costituzionale vigente. Si aggiunge una nuova possibilità per richieste referendarie che raccolgano invece 800 mila firme, che risulteranno approvate se otterranno il consenso della metà più uno degli elettori che hanno votato nelle elezioni parlamentari precedenti. Si introduce così  una specie di “concorrenza” tra democrazia rappresentativa e democrazia diretta. Quanto meno sostegno popolare ottiene la rappresentanza parlamentare, tanto più facile sarà abrogare le leggi approvate da questa istituzione. I due canali di espressione della sovranità popolare forse non dovrebbero essere messi in competizione, per questo la nuova norma suscita qualche perplessità, anche se in sostanza non modifica di molto la situazione reale. Quello che invece non si è voluto prendere in considerazione è il problema di una  migliore definizione delle tematiche che non possono essere sottoposte a referendum. Secondo la costituzione si tratta della normativa fiscale e dei trattati internazionali, ma dal 1948 a oggi questi due concetti hanno subito trasformazioni rilevanti, soprattutto perché i trattati e gli impegni europei sono assai penetranti e incidono su materie assai ampie, il che modifica sostanzialmente la questione dell’ammissibilità dei quesiti. Il tema è diventato d’attualità per esempio con la bocciatura da parte della consulta del referendum abrogativo della legge Fornero per il quale aveva raccolto le firme la Lega Nord, che non ha carattere né fiscale né internazionale. Sarà interessante vedere le motivazioni del rifiuto e confrontarle con quelle che invece consentirono a suo tempo la celebrazione del referendum sul decreto di San Valentino. In ogni caso pare ragionevole lamentare che mentre si riforma qualche aspetto delle procedure referendarie (e di quelle per l’esame delle proposte di legge di iniziativa popolare) non ci si sia soffermati a esaminare una questione, quella dei requisiti di ammissibilità, che richiederebbe una precisazione e un aggiornamento. Tuttavia le perplessità che possono nascere dall’esame di alcuni tecnicismi non giustificano l’allarme lanciato per i presunti rischi che correrebbe la democrazia, che nonostante il parere di Gustavo Zagrebelsky (curiosamente coincidente in questa occasione con quello di settori del centrodestra coma la Lega e Fratelli d’Italia) non viene certamente ridotta al “grado zero”. 

 

6) Per la verità l’allarme viene lanciato per il “combinato disposto” di legge elettorale e riforma costituzionale, ma in sostanza riesuma le obiezioni avanzate sulle varie forme di correzione maggioritaria della rappresentanza rispetto alla pura e semplice proiezione proporzionale dei voti in  seggi.  Si  può nutrire dubbi sull’impostazione attuale che punta addirittura al bipartitismo proprio in una situzione che ha messo in crisi il bipolarismo delle coalizioni che, bene o male, aveva funzionato nell’ultimo ventennio assimilando il sistema politico italiano a quello delle grandi democrazie occidentali. Va detto, però, che solo una visione provinciale può oscurare il fatto che c’è una tendenza al deterioramento del bipolarismo in tutta Europa, dalla Gran Bretagna che vede un governo di coalizione in tempo di pace per la prima volta nella sua storia, alla Germania in cui la Grosse Koalition tende a replicare se stessa, per non parlare dei fenomeni di affermazione di movimenti di contestazione di sinistra in Grecia e in Spagna, di destra in Francia. D’altra parte l’evoluzione del sistema politico dipende anche ma non solo dai meccanismi elettorali, come dimostra platealmente il caso francese in cui una formazione esclusa dalla rappresentanza parlamentare per effetto di una particolare legge elettorale si presenta come alternativa credibile alle tradizionali formazioni moderata e socialista. Quella che invece appare davvero curiosa è la scelta non solo di mettere nella costituzione una norma che impone un pronunciamento preventivo della Corte costituzionale sulle leggi elettorali, ma addirittura di imporre con legge ordinaria alla Consulta di emettere questo giudizio preventivo sulla legge elettorale attualmente in discussione. In sostanza si chiede alla Corte di non applicare la Costituzione vigente, che prevede solo giudizi ex post, e non si capisce come farà questo organismo ad accettare che una legge ordinaria faccia premio sul testo costituzionale.

 

7) Conclusione. L’insieme delle modifiche costituzionali ha l’indubbio pregio di superare lo stallo che aveva impedito per decenni di ammodernare un sistema istituzionale farraginoso lento e spesso inefficace, cercando di dare una soluzione formale ad alcune modifiche intervenute nella cosiddetta costituzione materiale. Il giudizio su questa volontà non può che essere pienamente positivo, tale anche da superare perplessità di merito sui tecnicismi di alcune norme specifiche. Superare il bicameralismo ripetitivo e la confusione nella definizione delle competenze dei diversi livelli di governo è un obiettivo che dovrebbe essere condiviso da tutte le forze responsabili. Tuttavia la forma specifica con cui questi due obiettivi vengono perseguiti rischia di non risolvere le antiche contraddizioni, giustapponendo una affermazione persino troppo insistita di prevalenza dello Stato centrale a norme di merito che invece possono produrre effetti di segno esattamente opposto. Su questo punto sarebbe davvero opportuno cercare soluzioni più funzionali e meno contraddittorie, meno retoriche è più legate a un esame oggettivo dei processi decisionali e legislativi concreti. Si può ancora cercare un miglioramento nel passaggio della riforma alla Camera, in modo da aprire poi il processo di approvazione in doppia lettura e di conferma referendaria con un testo che non presti il fianco a preoccupazioni fondate, che non possono essere sempre declassate a ricatti di parte come fa un po’ troppo spesso il presidente del consiglio.                 

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