Lassismo e ortodossia, i paradossi che inseguono Bankitalia
Attenzione a delegare ai magistrati la lotta alle clientele nelle banche locali e forzare derive dirigiste nel pesare i titoli sovrani
La riforma delle banche popolari e delle casse di credito è necessaria. Lo si era già avvertito nella scorsa legislatura, in cui presso la commissione Finanza e Tesoro del Senato erano state discusse proposte tendenti a superare, per una quota variabile del capitale sociale, il voto capitario per fare affluire alle Popolari il risparmio degli investitori istituzionali. La creazione dell’Unione bancaria europea ha comportato un nuovo e più ampio orizzonte che richiede balzi in avanti, verso il modello della Società per azioni (Spa). Su ciò puntano il decreto del governo e la Banca di Italia. Però il testo del governo – che è un ampio passo avanti – riguarda solo le Popolari maggiori, mentre l’esigenza di crescita dimensionale e di maggior capitalizzazione si pone anche (e soprattutto) per le restanti 27 banche o gruppi di Popolari. Perciò io propongo (ne parlerò approfonditamente in un saggio per il Centro studi Tocqueville-Acton) un modello duale come quello tedesco in cui nel consiglio di sorveglianza vi è la mitbestimmung (cogestione) dei rappresentanti dei lavoratori. Nel mio schema vi è quella dei soci con voto capitario. Per le Popolari minori la quota di membri del consiglio di sorveglianza con voto capitario sarebbe maggioritaria, poi scenderebbe al 50 per cento; per le Popolari maggiori e quelle quotate nei mercati finanziari, al 30 per cento. In tale modello non sono lecite interferenze del consiglio di sorveglianza nella gestione. Per la quota con voto capitario non possono rilevare, se non con stretti limiti, i soci lavoratori. C’è un ovvio conflitto di interessi che ha generato crisi nefaste come quella della Popolare di Milano, oggetto di indagine giudiziaria, per pecche del passato. E’ sacrosanto riformare le Popolari. Ma attenzione a delegare la Vigilanza, in ultima istanza, alle procure che si trovano a fare in un certo senso da supplente alla Banca d’Italia (e alla Consob e forse anche alla Vigilanza europea) nei casi più controversi di mala gestio bancaria, dal Monte dei Paschi a Veneto Banca. C’è troppa macroeconomia e poca analisi economica del diritto bancario e della contabilità aziendale nella solerzia di questi vigilanti. Che appare, poi, eccessiva per le osservazioni alle attività d’investimento della banca col rischio di scivolare nel dirigismo.
In una economia di mercato con moneta unica, bisogna attenersi al liberalismo delle regole: come appunto nello spirito originario del Trattato di Maastricht e del “mercato unico”. Ignazio Angeloni, membro del Consiglio di supervisione della Bce, intervistato da Repubblica, sostiene ora che il legame attuale tra banche e debito pubblico nazionale è eccessivo e afferma che per il sistema bancario, non solo italiano, esiste un rischio di credito sui titoli di stato e il regime prudenziale delle banche ne deve tenere conto. Ma non bisogna esagerare nell’assecondare i desiderata dell’establishment finanziario tedesco dove alligna la volontà di fare pesare il rischio dei bond sovrani. E’ sacrosanto invocare un allentamento nel legame stato-banche. Ma che non sia repentino. Quando non c’erano l’Unione bancaria, gli istituti di credito hanno sostenuto le finanze pubbliche nazionali, con qualche onere, quando gli spread furono anomali: a inguaiare il Monte dei Paschi non fu tanto il famoso derivato quanto l’indigestione di titoli di stato. Angeloni, ex Banca d’Italia, dovrebbe saperlo. La libertà di scelta, entro le regole, comporta responsabilità e massima trasparenza. Non sempre le abbiamo trovate nelle nostre banche né a livello europeo, Germania inclusa.
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