Gli Oscar 2015 e la prevalenza della mutanda
Da Michael Keaton a Neil Patrick Harris l'intimo maschile offusca il boxer e riporta gli Academy awards al tempo di Full Monthy. In una cerimonia scarsa di battute e con qualche lacrimuccia di troppo trionfa "Birdman" di Alejandro González Iñárritu con quattro statuette.
La prevalenza della mutanda nelle premiazioni cinematografiche. Venerdì scorso, a Parigi, Jean-Paul Gaultier arrivò senza pantaloni sul palco del Théatre du Chatelet. Era in corso la cerimonia dei César, noti come gli Oscar francesi, lo stilista dei corsetti appuntiti consegnava il premio per i costumi. Domenica sera, Neil Patrick Harris si è fatto una passeggiatina in mutande sul palco del Dolby Theatre di Los Angeles, durante gli Oscar originali. Il francese aveva la calza lunga con giarrettiera, più giacca e camicia (senza gonna, su collant color carne, l’attrice Marilou Berry che lo scortava). L’americano - al suo debutto come presentatore dopo la serie “How I Met Your Mother” - aveva il calzino nero e oltre alla biancheria il torace tirato a lucido.
Due omaggi - il secondo intenzionale, del primo non si sa – alla passeggiatina di Michael Keaton in “Birdman”, il film di Alejandro González Iñárritu che ha vinto quattro Oscar stracciando i concorrenti. Miglior film, migliore regia, migliore sceneggiatura e migliore fotografia: premio che se vinto da solo equivale a un insulto, ma in questo caso – trattandosi di piano sequenza che assieme alla batteria di Antonio Sánchez contribuisce all’energia del film – va tenuto caro. I concorrenti non erano di secondo piano, da “Gran Budapest Hotel” di Wes Anderson (quattro statuette diciamo così “tecniche”: musica di Alexandre Desplat, trucco, parrucco, costumi di Milena Canonero) a “Boyhood” di Richard Linklater (una sola statuetta, all’attrice non protagonista Patricia Arquette).
La mutanda di Michael Keaton, come quella dei suoi imitatori, era uno slippone bianco, sconosciuto l’uso dei boxer. Roba che non si vedeva sullo schermo da “The Full Monty – Disoccupati organizzati” di Peter Cattaneo. Per la verità, in “Birdman” c’è un altro cimelio, la mutanda lunga tipo western indossata sul palco, quando recita Raymond Carver, da Edward Norton (fuori scena torna allo slip fantasia). Anche lui avrebbe meritato un premio come attore non protagonista, era anche candidato. Ma chi può competere con un attore per quattro quinti del film recita in carrozzella, parla con un sintetizzatore vocale, è uno scienziato famoso come Stephen Hawking? Nessuno, e infatti l’Oscar come protagonista lo ha vinto Eddie Redmayne (dovrebbero revocarglielo per “Jupiter – Il destino dell’universo” dei fratelli Wachowski, dove va di cantilena).
Primo pianto della serata, scarsa di battute. A parte il numero iniziale, con la sagoma di Neil Patrick Harris proiettata tra le gambe di Sharon Stone in “Basic Istinct”, e Sean Penn che annunciando il trionfatore messicano ha detto: “Chi è lo stronzo che gli ha dato la Green Card?” Una lacrimuccia l’aveva fatta scendere J. K. Simmons, il cattivo in “Whiplash” di Damien Chazelle: nel film insulta l’allievo batterista, e il poveretto si scortica le mani a sangue per fare esercizio con le bacchette; sul palco dell’Oscar ha invitato a telefonare ai propri genitori, se uno ha la fortuna di averli ancora vivi. Lacrime per John Legend e il rapper Common che cantano “Glory”, dalla colonna sonora del film “Selma” di Ava DuVernay, pure con il ponte dei diritti civili ricostruito in scena. Lacrime per Julie Andrews che abbraccia Lady Gaga, dopo che Miss Germanotta in guanti rossi aveva cantato “The Sound of Music”, ovvero “Tutti insieme appassionatamente” (ma non era il film più odiato della programmazione natalizia?). Cateratte aperte per il discorso di Graham Moore, sceneggiatore di “The Imitation Game” premiato come miglior adattamento: ha raccontato di un tentato suicidio a 16 anni, e finalmente abbiamo capito perché Alan Turing sia nel film un santino gay.
Alejandro González Iñárritu
Per questo “Birdman” – e Michael Keaton che gira in mutande a Times Square, conquistando sui social più like e più popolarità di quelle che il teatro può dare - è il film più contemporaneo tra quelli presentati agli Oscar. Oltre che il più divertente, cosa che francamente non guasta: l’anno scorso aveva trionfato il torture-porn “12 anni schiavo” di Steve McQueen. Certifica che il quarto d’ora di popolarità immaginato da Andy Warhol per ognuno di noi è roba da nonnetti: la factory è di mezzo secolo fa, ora al posto di Marilyn e Jackie finiscono i panda (nel film “Kingsman - Secret Service” di Matthew Vaughn, esce la prossima settimana).
Certifica, non deplora: e nello stesso tempo però non si fa illusioni sul fatto che quel quarto d’ora – o magari quarantacinque secondi – li pretendiamo. Li pretende anche chi dice “giammai!” (sottinteso: “mi abbasserei a simili cose”). Li pretende chi vende tante copie e smania per l’attenzione dei critici. Li pretende chi ha l’attenzione dei critici e preferirebbe guadagni da bestsellerista. Li pretende chi ancora scaglia la parola “autentico” contro il mondo superficiale in cui tutti gli altri vivono. Dopo aver visto Edward Norton - quando sul palco per amor di realismo cerca di scoparsi Naomi Watts - farebbe bene a cancellarla dal vocabolario.
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