Il presidente russo Vladimir Putin (foto LaPresse)

Perché Putin è centrale per la Libia

Carlo Panella

Renzi invita la Russia ad avere un ruolo nella crisi libica: vuole un mediatore che possa obbligare all’intesa Egitto e Turchia. L’assenza dell’America, i duelli personali e quel patto del Nazareno internazionale

Roma. Matteo Renzi progetta una specie di “patto del Nazareno” su scala internazionale e si prepara a offrire a Vladimir Putin l’appoggio dell’Italia per un suo ruolo di mediazione tra Turchia ed Egitto nella crisi libica. Questo è il significato dell’annuncio della mano tesa a Putin sul contrasto allo Stato islamico pronunciato dal premier italiano domenica nella trasmissione di Lucia Annunziata: è una mossa spiazzante, ovviamente preceduta dalla precondizione “formale” dell’attenuazione del protagonismo della Russia in Ucraina. Questa strategia potrebbe – il condizionale è d’obbligo – segnare una svolta nella crisi libica. Questa prima, grande iniziativa dell’Italia sulla scena internazionale è stata elaborata mettendo a fuoco le risposte ad alcune questioni cruciali. La prima: perché Putin? La risposta è semplice: perché l’America di Barack Obama latita dal quadrante mediterraneo; perché né il presidente egiziano, Abdel Fattah al Sisi, né il presidente turco, Recep Tayyip Erdogan, hanno motivi di rispetto nei confronti di Washington; perché ha dimostrato di sbagliare tutto in medio oriente, da anni. Ma senza una forte presenza di una potenza, è impossibile una sistemazione del contenzioso libico. Ed è sotto gli occhi di tutti che l’Europa se ne guarda bene.

 

La seconda domanda è: perché è necessaria una mediazione sulla Libia tra Egitto e Turchia? La risposta, come nel racconto di E. A. Poe, è sotto gli occhi di tutti, ma nessuno – a partire dalle letargiche Nazioni Unite – la vede. Ankara e il Cairo da un anno in qua si fanno la guerra per interposte milizie sul terreno della Libia per una partita che va ben al di là di quel quadrante. Erdogan intende esercitare la leadership planetaria, punto di riferimento assoluto, di una Fratellanza musulmana che ha subìto clamorosi rovesci, ma che è ancora ben radicata dal Marocco all’Indonesia. E il governo di Misurata è ora l’unico in cui la Fratellanza è di fatto egemone. Specularmente, al Sisi intende “spianare” la Fratellanza in Libia, per sbriciolarla ovunque sia possibile nella umma, col non indifferente aiuto dell’Arabia Saudita. Il contenzioso libico specifico, pur molto importante per l’Egitto, fa da sfondo a una inedita guerra interna al mondo sunnita pro o contro la Fratellanza e il suo peso in una ventina di paesi musulmani.

 

La terza domanda è tanto semplice quanto senza risposta: perché mai i libici si sparano tra di loro? L’unico straccio di motivo storico è la tradizionale concorrenza tra Cirenaica e Tripolitania, ammorbata da tensioni con le minoranze etniche dei Toubou (i berberi) e dei Tuareg. Ma in realtà, questa guerra civile non ha senso e ragione, se non nella isteria di potere e nella cecità politica di una miriade di piccoli leader, di signori della guerra, di trafficanti, che hanno sbriciolato il ruolo di controllo politico del territorio svolto dalle tribù.

 

Oggi le strategie del governo di Misurata dipendono in larga misura dall’importante peso del neo fiduciario di Erdogan in Libia (dopo il raffreddamento dei legami col Qatar): Abdelhakim Belhadj, ex miliziano di al Qaida, ex primo comandante militare di Tripoli, ex rappresentante del Qatar in Libia, attuale leader del partito al Watan, asse portante del governo di Tripoli e terminale libico di Ankara. Sul fronte opposto, è evidente il ruolo di condizionamento diretto dell’Egitto sul governo di Tobruk. Ne è simbolo concreto il generale Khalifa al Haftar (che non potrebbe sparare un colpo senza l’appoggio militare e finanziario dell’Egitto e degli Emirati), che ha il potere che gli deriva dal comando dell’unica forza militare che si contrappone alla forza militare sinora soverchiante del governo di Tripoli. Ma né Belhadj, né Haftar, né soprattutto i governi cui fanno riferimento possono essere obbligati a un accordo, senza una forte pressione ultimativa su di loro da parte di Ankara e del Cairo. L’accordo è indispensabile per poter condurre poi un contrasto efficace allo Stato islamico, sia sul fronte della “bomba” del traffico dei clandestini sia della messa in sicurezza delle forniture energetiche all’Italia. Dunque invitare Putin a essere parte della lotta contro il Califfato, come ha annunciato Renzi, comporta che Putin si “guadagni” questo ruolo, riuscendo a portare Turchia ed Egitto a imporre una tregua di due anni ai loro terminali libici.

 

[**Video_box_2**]Renzi vuole verificare – col suo prossimo viaggio a Mosca – se questo ruolo di mediazione potrà essere svolto. Certa è l’influenza di Putin su al Sisi, alleato politico militare più della Russia che degli Stati Uniti. Più incerta è la possibilità del presidente russo di influire su Erdogan: Turchia e Russia sono opposte sul dossier siriano (e iraniano), ma hanno un radicale interesse alla collaborazione su quello strategico dell’energia e delle pipeline sul gas e soprattutto della penetrazione negli immensi mercati asiatici degli “stan”. Certissimo però è l’odio reciproco, a livello personale, dei due presidenti.
Queste difficoltà di manovra sono chiare a Renzi, che offre alla Russia di Putin una preziosa chance di entrare alla grande nel “grande gioco” del Mediterraneo, svincolandosi dalla scomoda posizione di “rogue state” svolto nella crisi ucraina. Renzi ha ben chiaro quanto possa interessare a Putin rientrare con la Lukoil nel businnes del petrolio libico – businnes che può essere oggetto di nuove spartizioni, visto che a oggi è quasi azzerato e che, pur di riattivarlo, si può ben pagare (Eni inclusa) qualche prezzo.

 

Non sfugge a Palazzo Chigi che il rientro di Putin sulla scena internazionale non più come paria ucraino, ma come determinante player in Libia, può spaventare e irritare Stati Uniti ed Europa. In tal caso però, l’unica reazione che Washington, Londra e Parigi possono mettere in atto è di farsi carico – e con forza – della crisi che hanno aperto con incoscienza nel 2011. L’opzione è ben vista da un’Italia che oggi si mostra pronta – quasi – a tutto, pur di difendere i suoi interessi nazionali.

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