In democrazia vale il diritto di bestemmia, ci dice il direttore di Charlie Hebdo, Gèrard Biard
“La contestazione è parte dei nostri valori, anche la contestazione di dio”, e a chi chiede di essere più cauti e rispettosi, Gérard Biard risponde: “L’unica esagerazione è quella che viola la legge”. I sorrisi sulla Le Pen, la “nuova normalità” e la paura (“che è affare di ciascuno”).
Milano. Charlie Hebdo torna tutto rosso in edicola, dopo una pausa opprimente di sei settimane che ci ha fatto temere una nostalgia senza cura, ma ora ci sono i cani che corrono sulla copertina, veloci, perché sono “irresponsabili e sottomessi”, dice Luz, l’autore della vignetta, “noi siamo gli irresponsabili che scappiamo”, il cagnolino con Charlie in bocca, e “loro sono quelli sottomessi che ci rincorrono”, Marine Le Pen, Nicolas Sarkozy, il Papa, il cagnone nero-jihadista con il kalashnikov tra i denti, danari, coccodrilli, il marchio della tv Bfm, l’all news francese. “Siamo tornati”, due milioni e mezzo di copie è la tiratura, ben oltre il business as usual che era di 50 mila copie, ma con una gran voglia di normalità, pure se di normale non c’è più niente, non si va più nemmeno nello stesso posto a lavorare, la sede che è stata attaccata dai terroristi islamici il 7 gennaio scorso – 12 morti, otto membri della redazione – è chiusa: si pensa, si scrive e si disegna all’ottavo piano della sede del quotidiano Libération, soluzione provvisoria, chissà per quanto. “Troveremo una nuova normalità”, dice al Foglio Gérard Biard, direttore di Charlie Hebdo che qui lavora da ormai ventitré anni, cercando una nuova sede per il giornale – “là non torneremo più” – ritornando alla consueta cadenza settimanale, e affidandoci alle leggi sulla sicurezza e contro l’odio, “che sono necessarie”, dice Biard.
“Normale” intanto è il numero in edicola oggi, si parla di islam, degli attentati a Copenaghen, c’è un’intervista a Yanis Varoufakis, il ministro-macho delle Finanze della Grecia, e “tantissime vignette, molte politiche, molta Le Pen”, dice Biard con un sorriso, “si capisce già dalla copertina”, dove la signora del Front national è una cagnona agguerrita con il collare chiodato. L’editoriale di Biard si concentra sull’espressione utilizzata dal premier Manuel Valls, che ha parlato di “apartheid in Francia”: “Nel senso legale della parola, non esiste una segregazione nel nostro paese – spiega il direttore – ma esiste piuttosto un apartheid religioso: i cittadini francesi di origine musulmana, per esempio, sono definiti soltanto dalla loro religione, mentre dovrebbe essere la cittadinanza a descriverli, non certo il loro credo”. Per Biard questo è il punto più importante, e quando difende la laicità dello stato, la libertà di espressione, la libertà di coscienza, difende anche la libertà di blasfemia. “E’ un diritto essere blasfemi, perché la bestemmia è la contestazione del potere di dio, quando ne diciamo una (e lui la dice, nel suo italiano nitido, ndr) stiamo esercitando la nostra contestazione. E questo diritto è necessario in una democrazia: se venisse violato, allora nulla sarebbe più contestabile”. Il bello della democrazia invece è che puoi opporti, senza per questo finire bruciato in una gabbia.
Molti non la pensano in questo modo, come è noto, a partire dal pugno papale arrivato al coro di chi dice che se si offende una religione poi non è che ci si deve stupire, bisogna aspettarsi una reazione, sarebbe più ragionevole essere cauti, e rispettosi. Ma Biard dice di non comprendere queste considerazioni, non sono nel Dna di Charlie, è evidente, e per il direttore non sono nel Dna delle nostre società democratiche, dove esercitare un diritto non è una provocazione: “Non ci sono limiti al diritto di contestazione, se non quelli posti dalla legge. Non si può dire che una espressione o una vignetta sono esagerate solo perché colpiscono alcune sensibilità, l’unica esagerazione non consentita è quella illegale. E la legge, in Francia, dice che lo stato è laico, che lo stato è ateo, e quindi si può essere liberi di credere ma anche di non credere, e di contestare”. I terroristi islamici che a Parigi prima hanno decimato la redazione di Charlie e poi hanno ucciso i clienti ebrei di un supermercato kosher volevano uccidere questa libertà di pensare, “ma noi siamo ancora qui”.
Contro la solitudine
Del cordoglio di “Je suis Charlie” e della marcia mondiale dell’11 gennaio (al netto di Barack Obama, s’intende, assente non giustificato) resta la volontà di garantire maggiore sicurezza e di combattere l’estremismo – due giorni fa il presidente francese François Hollande ha detto che l’antisemitismo è come “la lebbra” e ha proposto un nuovo pacchetto di leggi contro l’odio che sarà approvato a marzo – anche se poi nei rivoli del realismo politico si sono persi molti buoni propositi della prima ora. “Io spero che Charlie Hebdo non rimanga soltanto un simbolo – dice Biard – Lo siamo stati, un simbolo, e abbiamo pubblicato il nostro primo numero una settimana dopo la strage, il numero dei ‘sopravvissuti’, proprio per ricordare quel simbolo. Ma oggi non vorrei più che Charlie fosse percepito così, perché vorrebbe dire che quei valori di libertà che tutti hanno celebrato li portiamo soltanto noi, vorrebbe dire che siamo soli”. Nella nuova normalità invece Charlie non vuole restare solo. C’è un misto di nostalgia di quel che era e non sarà più, così come c’è anche paura, anche se questo “è un affare di ciascuno”, dice Biard: “Io non c’ero, la mattina del 7 gennaio, non ho sentito le pallottole, non ho visto il sangue, non ho sentito gli urli, ho vissuto la strage in modo diverso”. Ed è vero che subito dopo l’attacco molti nella redazione di Charlie dicevano: forse non riuscirò più a disegnare quel che disegnavo prima, forse adesso davvero il terrore diventerà censura, l’obiettivo islamista è stato centrato non soltanto nelle vittime, ma nelle coscienze. “Ma poi non è stato così”, dice Biard sicuro, convinto com’è che quella del 7 gennaio sia stata una strage “di bambini”, perché sono i bambini che disegnano, gli adulti poi a un certo punto smettono, mentre i bambini, come i vignettisti, no. E anche in mezzo alle macerie, ricominciano. C’è da difendersi, e da combattere. Si sente anche lei in guerra, come diceva Charb, il direttore ucciso dagli islamisti? “Non è che Charlie è in guerra – dice Biard – Non è un affare solo nostro perché siamo stati vittime di un attacco. Lo siamo tutti. E’ la guerra dei democratici contro i totalitarismi”. E’ la nostra guerra.
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