L'eredità di Gino Paoli alla Siae è tutta un balzello
Gino Paoli si dimette dalla presidenza della Siae dopo le accuse di evasione fiscale. Ma il problema sono tutte le tasse che l'istituto da lui diretto ha imposto agli artisti (e non) in questi anni.
“Non voglio si sappia che ho portato soldi all’estero, io sono un personaggio pubblico, non posso rischiare questo. Ho un’immagine da difendere…”. Doveva essere un bel peso per uno come Gino Paoli quello di avere dei soldi in Svizzera, un po’ come quel proiettile che si sparò nel petto nel 1963 e che porta ancora adesso nel cuore. Il peso ovviamente non era tanto avere quei soldi, ma la possibilità che, come poi è successo, si venisse a sapere. È per quel motivo che non aveva aderito allo scudo fiscale e che temeva l’accordo italo-svizzero sulla fine del segreto bancario. Uno con il carattere e l’orgoglio di Gino Paoli non poteva sopportare di stare sotto il bersaglio, di sommare all’accusa di evasore quella di poltronaro. Voleva lasciare immediatamente la presidenza della Siae appena la vicenda è esplosa, gli hanno consigliato di prendere qualche giorno di tempo, si era parlato di autosospensione, ma alla fine ha deciso di dare le “dimissioni irrevocabili”, per convinzione propria e non perché lo chiedeva la folla: «Sono certo dei miei comportamenti e di non aver commesso reati - scrive nella sua lettera di dimissioni - voglio difendere la mia dignità di persona per bene. In questi giorni, assisto purtroppo a prevedibili, per quanto sommarie, strumentalizzazioni, che considero profondamente ingiuste. Quello che non posso proprio permettermi di rischiare, però, è di coinvolgere la Siae in vicende che certamente si chiariranno”.
Alla fine non è solo una questione di tasse, non si sa se su quei 2 milioni come dice la Guardia di Finanza davvero il maestro abbia evaso 800mila euro, questo dovrà dimostrarlo la procura. Di certo da queste parti non aggiungeremo la nostra voce al crucifige mediatico del cantautore, proprio nell’unica volta in cui anche Beppe Grillo si scopre garantista. Il capo dei giustizialisti incazzati, quelli che cacciano le persone se non portano lo scontrino del panino, che vogliono veder rotolare teste ad ogni avviso di garanzia, che credono ad ogni teorema accusatorio, che Berlusconi è il capo della Mafia, che Napolitano è il garante della trattativa con la Mafia, che i servizi segreti (deviati ovviamente), il Bilderberg, l’11 settembre, la Cia…stavolta ha difeso l’indagato Paoli. Nonostante abbia i soldi in Svizzera, nonostante sia accusato di evasione, nonostante sia uno della “Kasta” (da ex parlamentare comunista Paoli prende il vitalizio), nonostante sia un suo amico. Anzi no, forse proprio per quello. “Premetto che Gino Paoli è mio amico – ha scritto Grillo sul sacro blog, in un post prima apparso, poi scomparso e poi ricomparso – Quindi potrei essere considerato poco obiettivo. Ma a questo gioco al massacro di una persona di 80 anni non pregiudicato, mai inquisito, io non ci sto! I cittadini sono diventati vittime sacrificali, mostri da sbattere in prima pagina senza che possano difendersi in alcun modo. Nel caso Paoli risulti innocente, e questo lo decideranno i giudici e non i giornalisti, chi lo risarcirà?”. Parole sacrosante, in odore di conflitto di interessi (o d’amicizia), ma che per questo non sono meno giuste.
Il problema, come dicevamo, più che di tasse è d’immagine. L’ultimo esponente della gloriosa scuola genovese ci ha messo una vita, oltre cinquant’anni, a costruire l’immagine pubblica di un’artista impegnato artisticamente e politicamente a cambiare il mondo e ridurre le ingiustizie, uno che sta dalla parte degli onesti, disinteressato alla materialità e al vil denaro: “È un mondo sbagliato. Non mi piace la gente che guadagna per spendere invece che per essere felice, come dice Pepe Mujica”, ha detto il maestro in una recente intervista citando il presidente uruguayano dei poveri, l’ex tupamaro che gira con la macchina scassata e le infradito. Se poi ti beccano con i soldi in Svizzera come un Flavio Briatore qualsiasi, uno di quelli che guadagna i soldi per spendere (orrore!), è naturale che ti prendi gli insulti e gli sfottò su internet: “Sapore di tasse”, “il cielo in un caveau”, “questa banca non ha più pareti” e “non mi sembrava possibile che tra tanta gente che tu ti accorgessi di me” rivolto sempre a una fiamma, ma stavolta gialla. Se ti autoattribuisci la tessera numero 1 del partito degli onesti (“Un’onestà che costringa gli altri a essere onesti” era lo slogan della sua presidenza alla Siae), è normale poi che ti saltino addosso e non c’è Grillo che riesca a trattenere il popolo degli incazzati.
Gli incazzati sono così accecati dal giustizialismo e dall’invidia per il ricco (in questo caso con l’aggravante “moralista”) da prendersela con Paoli più per le evasioni presunte che per le tasse che ha loro imposto. Il problema infatti non è tanto che Gino Paoli da cantante abbia forse evaso 800mila euro, ma che da presidente della Siae ha certamente fatto aumentare le tasse di 50milioni per la “copia privata” sui dispositivi tecnologici. Come ha scritto sul suo blog l’avvocato Guido Scorza, un tipo che fino a poco fa era forse la principale preoccupazione di Paoli, l’aumento delle tariffe su pc, tablet, smartphone e qualsiasi altro supporto di memoria deciso dal ministro Dario Franceschini sotto la spinta della lobby degli autori, porterà nelle casse della Siae, secondo il suo bilancio preventivo, altri 50milioni di euro, il 75 per cento in più rispetto allo scorso anno. Una cifra enorme, soprattutto se la si paragona con i numeri degli altri paesi. Spulciando i dati della Cisac – la confederazione mondiale delle società di gestione dei diritti d’autore, compresa la nostra Siae – Scorza fa notare come nel 2013 la raccolta globale per la “copia privata” era di 237milioni e solo la Siae incassava 67milioni, circa il 28 per cento della raccolta mondiale ricadeva sui consumatori italiani. Con l’aumento voluto da Paoli e Franceschini l’incasso della Siae sulla “copia privata” per il 2015 sarà di 117milioni (più 75 per cento) che, rispetto ai dati del 2013 vale il 40 per cento della raccolta di tutto il mondo. L’altro dato evidenziato dall’avvocato che da anni è in guerra contro il monopolio della Siae riguarda i compensi da diritto d’autore per abitante: la media mondiale è pari a 1,30 euro pro capite, quella europea è oltre i 5 euro, mentre quella italiana supera gli 8 euro a testa.
Insomma per gli italiani, più che il Gino Paoli contribuente, il problema dovrebbe essere il Gino Paoli esattore, che aveva imparato bene la retorica del mestiere contro i ricchi e potenti e dalla parte di deboli e indifesi: “Questo compenso (la copia privata ndr) non deve essere a carico di chi acquista lo smartphone ma del produttore – diceva al Corriere –, delle multinazionali che spesso non pagano nemmeno tutte le tasse in Italia e che di certo non producono qui. Mentre la Siae rappresenta un milione e mezzo di lavoratori, che paga le tasse in questo Paese”. Dichiarazioni che fanno un certo effetto rilette oggi. Ma il punto è che quelle parole piene di retorica redistributiva erano palesemente false e lo si è visto concretamente quando le aziende produttrici di dispositivi di memoria hanno ricaricato gli aumenti sui consumatori. E non si tratta semplicemente del banale principio della traslazione di imposta, cioè del tentativo che qualunque contribuente fa di scaricare il costo di una tassa sugli altri, ma proprio della natura della tassa da “copia privata”. Questo tributo viene pagato agli autori sull’acquisto di un qualunque dispositivo di memoria per la possibilità di effettuare una copia privata di opere protette da diritto d’autore, quindi a pagare il tributo non può essere che il consumatore che fa la copia, il “beneficiario”. Che le cose stiano così l’ammette implicitamente la stessa Siae che restituisce l’imposta della copia privata a chi acquista supporti di memoria come strumento professionale: i rimborsi vanno ai consumatori (aziende, professionisti e pubbliche amministrazioni che ad esempio acquistano pc) e non alle multinazionali come Microsoft e Apple che secondo Paoli sono quelle che dovrebbero pagare l’imposta. L’impostazione di una tassa preventiva e presuntiva porta a conseguenze paradossali. Se ad esempio un papà non usa lo smartphone o il pc per copiare canzoni ma per registrare e memorizzare i ricordi più belli della crescita del proprio bambino, si troverà a pagare i diritti d’autore sul video dei primi passi o del battesimo a Laura Pausini, Gigi D’Alessio, Vasco Rossi e tutti gli altri artisti. E un balzello simile, ancora più sconosciuto, la Siae lo fa pagare agli studenti che annualmente sborsano 1,31 euro a testa attraverso le tasse universitarie per i diritti di reprografia (fotocopie) relativi ai libri delle biblioteche universitarie. Non fa nulla se gli studenti comprano i libri originali e già pagano i diritti d’autore, non conta se non fanno fotocopie o se le fanno su libri con diritti d’autore scaduti. Pagano comunque, a prescindere.
Ovviamente la struttura dell’imposta per la “copia privata” sulla tecnologia non tiene affatto conto di come sta evolvendo il modo di consumare musica e cinema, del fatto che al tempo di Youtube e Spotify le persone usino sempre più lo streaming del download e della masterizzazione. In fondo lo scopo dell’imposta, come di ogni imposta, è semplicemente quello di raccogliere quanti più soldi è possibile, da redistribuire a chi ha spinto per farla approvare. E l’operazione è riuscita visto che il gettito del compenso per “copia privata” aumenta anche se le copie private diminuiscono. I beneficiari del compenso, che con una delle meglio riuscite operazioni di lobbying degli ultimi anni hanno ottenuto un aumento considerevole dell’imposta, hanno messo nero su bianco il loro nome in calce ad un appello dello scorso anno. C’è il meglio del meglio dell’arte e della cultura italiana, al di là di qualsiasi distinzione ideologica, la copia privata unisce tutti: Renzo Arbore, Claudio Baglioni, Al Bano, Franco Battiato, Pippo Baudo, Andrea Bocelli, Maurizio Costanzo, Simone Cristicchi, Gino Paoli, Fedez, Elio Germano, Sabrina Ferilli, Francesco De Gregori, Carlo Verdone, Ligabue…l’elenco è infinito. Il leitmotiv è sempre quello del sottoproletariato intellettuale sfruttato dalle perfide multinazionali (che poi non si capisce perché gli stessi firmino contratti con quelle multinazionali che si arricchiscono alle loro spalle) e la preoccupazione non tanto per loro che stringendo la cinta riescono ad arrivare a fine mese, ma per le “nuove generazioni di autori e artisti”. Il futuro dei giovani è da sempre angoscia e tormento degli artisti e della Siae, che non sono felici se non lo sono anche tutti gli altri.
Ma se si va un passettino oltre la retorica, si vede che i giovani sono i più penalizzati dal monopolio della Siae, dai suoi costi e dai criteri di ripartizione del diritto d’autore. Per iniziare i giovani autori non hanno alcun canale preferenziale nella redistribuzione dei proventi da copia privata, che si basano sugli stessi criteri degli altri diritti d’autore e quindi più vendi, più sei famoso, più incassi. Ed è evidente che c’è una certa correlazione tra popolarità ed età: quelli che beccano più soldi sono quelli più vecchi perché hanno prodotto e lavorato di più. Che è anche un criterio giusto, ma non c’entra nulla con la retorica giovanilistica usata come foglia di fico dalla Siae per coprire la “copia privata”.
Il problema è che la Siae è da sempre, e anche sotto la direzione del maestro Paoli, un sistema fortemente regressivo, che penalizza i poveri e i giovani e avvantaggia i vecchi e i ricchi. L’esempio più clamoroso è dato dal “sistema elettorale” dell’ente pubblico che gestisce in monopolio l’intermediazione dei diritti d’autore. Con il nuovo statuto “ogni associato ha diritto a esprimere nelle deliberazioni assembleari almeno un voto e poi un voto per ogni euro di diritti d’autore percepiti nella predetta qualità di associato”, un sistema elettorale di tipo ultracensitario che dà un potere immenso ai più ricchi che possono gestire la Siae come i famosi “quattro amici al bar”. Più diritti d’autore incassi, più voti puoi esprimere. Secondo i dati pubblicati dal Corriere un paio di anni fa, Vasco Rossi e Ligabue hanno percepito dalla Siae 1,6 milioni di euro di diritti, Michele Guardì 2 milioni, 1,1 milioni Zucchero, 1 milione Ennio Morricone, 700mila euro Mogol, 450mila euro Gino Paoli e via di seguito. Ciò vuol dire che un normale socio che non ha percepito diritti esprime un solo voto, mentre un Gino Paoli ne esprime 450mila più uno, Zucchero una milionata più uno e via di seguito. Un mega porcellum che dà tutto il potere in mano a artisti e intellettuali che una settimana sì e una no firmano appelli contro la “svolta autoritaria” di Berlusconi o Renzi. Dato che è la Siae a stabilire i criteri di redistribuzione del diritto d’autore, inclusi quindi i proventi per la copia privata, è evidente come il riparto sia governato dagli editori (ah, le multinazionali) e dagli autori più ricchi, con buona pace dei più giovani e dei più deboli. C’è un dato che fa capire quanto la Siae, più che il Robin Hood che toglie alle multinazionali per dare agli artisti povri, sia lo sceriffo di Nottingham che toglie ai poveri artisti per dare ai ricchi, ed è la percentuale di soci che incassa meno della quota associativa. In un’intervista del 2009 ad Altroconsumo, l’allora presidente della Siae Giorgio Assumma disse che il 60% degli iscritti alla Siae incassava meno di quanto pagava per la tessera annuale. La Siae non fornisce più questo dato, ma le cose sono sicuramente peggiorate. Intanto perché dopo quell’intervista è arrivata la recessione con il conseguente calo di fatturato, ma soprattutto perché nel 2013 la Siae ha aumentato la tessera annuale del 65 per cento. Non c’è da meravigliarsi quindi se la quota dei soci Siae che sono costretti a pagare più di quanto incassino abbia superato i tre quarti. È uno strano club quello della Siae, che opera in regime di monopolio e quindi di fatto obbliga gli autori ad iscriversi, in cui tutti gli iscritti pagano uguale, ma dove chi incassa più soldi conta di più. La conseguenza è che i giovani pagano per tenere in piedi un sistema in cui comandano i ricchi e che, con il voto censitario, non dà neppure una minima possibilità di cambiare le regole se non per gentile concessione dei “quattro amici” che governano l’ente. E non è un caso se alle ultime elezioni abbia votato solo l’1 per cento degli aventi diritto (ah, la partecipazione).
A tutto ciò va aggiunto che la Siae è estremamente lenta a pagare i diritti, quindi quei pochi spiccioli gli artisti meno famosi li prendono a distanza di anni. Un esempio evidente viene proprio dal fondo per la copia privata. Secondo il bilancio del 2013, l’ultimo disponibile, la Siae per i soli compensi da copia privata ha debiti verso gli autori per oltre 150milioni, ovvero il gettito di oltre due anni. Ma se il ritardo pluriennale nei pagamenti, che a parte i tempi fisiologici è in gran parte dovuto all’inefficienza dell’ente, danneggia i soci, di certo non fa male ai conti della Siae che ogni anno grazie a ritardi come questi ricava in totale oltre 30 milioni di euro di proventi finanziari per la gestione di soldi che sono dei soci. Una cifra che permette di non chiudere il bilancio in profondo rosso.
[**Video_box_2**]L’inefficienza della gestione monopolistica della Siae è stata quantificata da uno studio di quei turboliberisti dell’Istituto Bruno Leoni in un costo per i consumatori di 13,5 milioni di euro l’anno in più rispetto a sistemi più concorrenziali di altri paesi. Lo studio è del 2010, quindi è possibile che nel corso degli anni la cifra sia cambiata, ma non la sostanza. Prima di passare al Partito democratico, Andrea Romano e il gruppo di Scelta Civica si erano fatti promotori di un’iniziativa parlamentare volta all’abolizione del monopolio Siae. Non sarebbe il caso di fare una rottamatina anche in questo campo? Il problema non è Gino Paoli. Gino Paoli passa, è la Siae che resta.
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