Emmanuel Carrère

Miracolo per miscredenti

Marina Valensise

Esce giovedì 26 febbraio il libro di Emmanuel Carrère, "Il Regno". Marina Valensise l'ha descritta come un'opera tra autobiografia e teologia, cazzeggio e profanazione, bestemmie e devozione.

Riservato ai lettori forti, ma anche ai poveri di spirito, agli uomini di buona volontà, ma pure ai ricchi, agli intelligenti, agli uomini di mondo consapevoli che a loro è precluso il Regno di Dio. Riservato agli amanti dello “style coulant cher au bourgeois” che faceva vomitare Baudelaire e che invece manda in visibilio Emmanuel Carrère, con quelle sue transizioni generose, le frasi appagate dall’abbraccio di una sintassi senza urti, senza ruvidezze, il ritmo pieno che accarezza il lettore, tenendolo incollato alla pagina. Se volete sfuggire all’insulsaggine delle vacanze di Natale, sottrarvi alla coazione consumistico-familistica, e ritrovare l’eccitazione autentica del messaggio cristiano, col suo miracoloso paradosso del rovesciamento di tutti i valori che scardina la morale classica, con la promessa del Regno dei cieli da conquistarsi qui e ora attraverso l’amore del prossimo, la passione di Dio fatto uomo, il mistero della sua morte e resurrezione, non aspettate la traduzione dell’ultimo libro di Emmanuel Carrère, che uscirà in febbraio per Adelphi. Procuratevi subito una copia di “Le Royaume” in versione originale (P. O. L. editore, 630 pp., 23,90 euro). Non ve ne pentirete. Passerete due tre giorni a leggerlo, vivendo un’esperienza intensa, rara e totalizzante. Resterete ipnotizzati da seicento pagine dense come un romanzo d’appendice, sconvolgenti come una rivelazione essenziale. E finirete per dirvi cristiani anche voi, anche se siete atei, scettici, agnostici, miscredenti, mangiapreti, massoni. Anzi tanto più se siete tutte queste cose insieme e persino se siete buddisti praticanti o convertiti all’islam. Non importa. Un desiderio impellente finirà per catturarvi: leggere e rileggere i Vangeli, gli Atti degli Apostoli, le Lettere di San Paolo ai Romani, ai Corinzi, agli Efesini. Vorrete riprendere in mano la “Vie de Jésus” di Ernest Renan, i libri di Paul Veyne e tutti i classici dimenticati del liceo, le Lettere di Seneca a Lucilio, le Vite di Svetonio, la Storia di Eusebio di Cesarea, le Satire di Giovenale, “un réactionnaire de charme” come Philippe Muray, genio politicamente scorretto sdoganato da Fabrice Luchini, e gli Epigrammi di Marziale, che viveva in due camere e cucina al Quirinale, ma ogni giorno doveva presentarsi all’alba con gli altri clientes dal suo benefattore per ottenerne la sportula… Solo per questo dovremmo essere grati a Emmanuel Carrère che con questo libro ci ha fatto il miglior regalo di Natale possibile, entrando a pieno titolo nel novero degli atei devoti, a noi cari.
All’inizio, però, non è tutto così chiaro. Comincerete a leggere “Le Royaume” con qualche perplessità di fronte all’ultima metamorfosi del mago della non fiction narrative approdato all’esegesi neotestamentaria. Carrère è stato il biografo del finto medico sterminatore Jean-Claude Romand, che qui riappare dietro le sbarre, condannato all’ergastolo per aver ucciso moglie, figli e parenti dopo avergli fatto credere per quindici anni che era medico, mentre passava le giornate chiuso in macchina al parcheggio di un autogrill o camminando fra i boschi del Giura. Carrère è stato anche il biografo e di grande successo del fascio-comunista russo, poeta ed ex criminale di guerra Eduard Savenko, in arte Limonov, genio della cultura underground che fa impazzire gli amici di Putin come Massimo Boffa. Adesso ha smesso di scorrazzare nella Vita degli altri (altro bestseller sui derelitti sopravvissuti allo tsunami del 2004) per cimentarsi con la Vita di Cristo, senza naturalmente dimenticare mai la Vita sua. Come mai?

 

Uno scrittore di successo alle prese con le Sacre scritture? Ma ci faccia il piacere… Com’è possibile che un ex depresso, sceneggiatore fortunato e molto dandy, che da giurato al Festival di Cannes gode come un matto nella sua veste glamorous sfilando in smoking come se fosse Steven Spielberg, abbia deciso di cimentarsi con gli Atti degli Apostoli, col Vangelo di Luca? Può un edonista dedicare anni a studiare i testi sacri, per riscrivere in proprio le Lettere ai Corinzi e ai Filippesi, affastellando fonti e saggi storici, dalla Bibbia dei Settanta, prima versione in greco dell’Antico Testamento, alla storia di Caligola, dalla distruzione del secondo Tempio, alle persecuzioni cristiane sotto il regno di Nerone e di Diocleziano? Il sospetto cresce, conoscendo l’uomo. Uno che ama nuotare nel mare di Capri, tuffarsi dai Faraglioni, inerpicarsi sul monte Solaro inseguendo il mito lussurioso di Tiberio, uno che dice di fare un’ora di yoga al giorno solo per tenersi su il sedere e ostenta camicie di lino colorate e svolazzanti fuori dai pantaloni, avvinghiato alla moglie come fosse una star (in perfetto stile Malaparte e infatti non per niente nel 2012 gli assegnammo l’omonimo premio), insomma come fa un tipo così fico a dedicarsi alla “Storia ecclesiastica” di Eusebio e alla “Guerra giudaica” di Flavio Giuseppe? Niente di più inverosimile, quantomeno agli occhi di chi, refrattario al mélange de genres, riesce ad ammettere solo l’accademico tisico e ipovedente come esegeta titolato della tradizione patristica, chino per anni sui codici bizantini.

 

Ma allora Carrère? Cosa gli sarà saltato in mente? Irretito dall’attualità, avrà ceduto alle lusinghe della letteratura di consumo. Sulla scia di Houellebecq, Dan Brown e Eric Zemmour, avrà deciso a tavolino di intraprendere il romanzo del cristianesimo. Certo, il contesto aiuta. In Francia, paese fra i più decristianizzati del mondo, dove i cattolici praticanti si considerano una minoranza perseguitata, può succedere di entrare in una chiesa deserta di fedeli, ma rigurgitante di turisti, e imbattersi in un adolescente coi jeans stracciati e l’aria sperduta che si domanda ad alta voce: chi sarà quella signora col velo azzurro che tiene in braccio un bambino nudo?

 

Quand’anche mosso da interesse se non da sana pedagogia, è lo stesso scrittore a nutrire il sospetto di indulgere corrivo al mercato di massa, sin dall’incipit del libro che si apre su un interrogativo inquietante: cosa fareste se entrando in cucina una mattina vi ritrovaste di fronte a vostra figlia adolescente, morta tre anni prima, che si prepara il caffè temendo di venir rimproverata per essere rientrata troppo tardi la sera prima? Domanda chiave per lo sceneggiatore di una serie di culto, “Les Revenants”, che Carrère iniziò effettivamente a scrivere anni fa con Fabrice Gobert, e che finita senza di lui vinse l’anno scorso l’International Emmy Award.

 

Il fatto è che lo scrittore non resiste a parlare di sé, a mettersi in scena, contemplandosi come se fosse nudo davanti a uno specchio. Si compiace a spiattellarci i suoi dubbi, i suoi tormenti, le sue pulsioni più intime, per farne la materia stessa del suo racconto cristologico. Tira in ballo moglie, figli, amici, la madrina Jacqueline, sublime figura di colta donna di fede, che abitava in rue Vaneau nello stesso palazzo in cui viveva Gide e instradò alla conversione il suo figlioccio trentenne e in crisi matrimoniale, mettendogli in mano l’immagine del volto di Cristo apparsa da una foto delle fronde di un albero. Così l’uomo entra ed esce dall’opera dello scrittore, come succede anche nell’“Adversaire” (lì lo fece “per salvarsi la vita”, spiegò), dando colore e carne a una storia millenaria. Senza vergogna, Carrère alterna autobiografia e teologia, cazzeggio e profanazione, blasfemia e devozione. A un certo punto, per esempio, trattando dell’iconografia della Vergine secondo il pittore fiammingo Van der Weyden, si diverte a incastonare nello stesso capitolo tre pagine sui siti porno, con annessa disquisizione coniugale sulla giovane brunetta senza volto che si masturba davanti a una telecamera. Il suo è un modo paradossale ma efficace, bisogna ammetterlo, di liberare i testi sacri dal silenzio polveroso delle sacrestie, di farli uscire dai confini angusti dell’erudizione, strapazzandoli con un trattamento hard. Abbondano le similitudini tra la scomparsa di Cristo, con la scoperta del sudario vuoto e le tre donne che ebbero paura, secondo il Vangelo di Luca, e la scomparsa del corpo di Bin Laden voluta dagli americani per evitare il culto jihadista. Continue le analogie tra la setta dei seguaci di Paolo e le dinamiche del Partito comunista sovietico ai tempi di Lenin, Stalin e Trotsky. Non parliamo dei rimandi ai film di fantascienza, e ai romanzi di Philip Dick, altro autore di culto del Nostro, oggetto di una biografia non ancora premiata dalle vendite.

 

Il fatto è che lo scrittore quei testi sacri non solo li descrive, ma li riscrive, continuando attraverso di essi a parlare di sé. Trionfo del personalismo cristiano. La scusa è perfetta: visto che è impossibile indagare su cosa crede un cristiano che dice di credere in Cristo risorto (più o meno come il telespettatore della fiction tv alle prese con la ragazza morta che fa colazione in cucina), tanto vale allora cercare di capire in cosa credeva lui stesso, che per tre anni dal 1990 al 1993 è stato credente, cattolico praticante, è andato a messa tutti i giorni, si è fatto la comunione, e ha persino deciso di sposare in chiesa la madre dei suoi primi due figli, con rito melchita celebrato al Cairo da un prete vallone, per non levare nulla al romanzesco della vita sua terrena. “Avevo un cristiano a portata di mano, ero io stesso”, e dunque via libera al raccontino dei fatti suoi, che però trascende se stesso.

 

Così l’esistenza di uno scrittore fortunato, ricco, colto, di buona famiglia, cocco di mamma (la madre Hélène Carrère d’Encausse, storica della Russia nonché segretario perpetuo dell’Académie française lo considera il miglior scrittore vivente “essendo l’unico della sua generazione ad andare oltre il raccontino dei fatti suoi”), diventa il filo conduttore di questa inchiesta sulla nascita del cristianesimo. Narcisista confesso dall’ego ipertrofico, Emmanuel Carrère costruisce un palinsesto irresistibile, dove il Vangelo, le parabole cristiane del figliol prodigo, il viaggio di san Paolo a Gerusalemme, il carcere romano, la partenza per l’Urbe, il martirio, e poi di nuovo il racconto di Luca, e gli Atti degli Apostoli, e insomma l’intera vicenda delle origini del cristianesimo si intersecano con le confessioni sue più triviali, i suoi pensieri osceni (la passione dei contemporanei per la pornografia, che non lo turba affatto, mentre lo turbano le cose dell’anima, su cui resta pudico), le ansie da prestazione (voler diventare un grande scrittore ed essere riconosciuto universalmente come tale), i suoi deliri da uomo virile (che ama far godere la seconda moglie), i suoi smacchi (professarsi un credente e un buon cristiano ma essere contemporaneamente incapace di prestare aiuto alla pazza Jamie Ottomanelli, improbabile aupair della figlia di Philip Dick miracolosamente approdata in casa sua, prima di rivelarsi un incubo e venire licenziata in tronco). Così, tutti i cascami della vita ordinaria offrono la tessitura per la trama di quella che fu l’avventura degli apostoli, i discepoli di Cristo, di san Paolo, che ne fondò la chiesa e la leggenda, di Luca che l’amplificò, e dei mille personaggi del Vangelo, che affiorano da questo feuilleton vecchio di duemila anni in cui pullulano le adultere, le regine incestuose come la sorella di Erode Berenice, di cui Tito si innamora perdutamente e perdutamente abbandona invitus invitam come scrisse Svetonio, per non parlare poi delle matriarche tiranniche come Lidia, che diede origine in casa sua al culto dell’eucarestia, e delle tante Bovary dell’impero romano, come la moglie di Cusa, l’intendente di Erode, la quale, depressa e in cerca di stimoli, sovvenzionava di nascosto il culto cristiano.

 

[**Video_box_2**]Carrère diffida del romanzo storico: “Non ci riesco” scrive, confessando di non essere mai riuscito a finire le “Memorie di Adriano” di Marguerite Yourcenar. “Ho l’impressione di entrare dentro un fumetto di Asterix”. Preferisce seguire la strada maestra della non fiction narrative, con interventi in prima persona, inseguendo sempre la testimonianza veridica, a cominciare da quella sua personale, di scrittore intelligente, ricco e fortunato, dunque lontano dal Regno dei cieli, appagato e soddisfatto di sé e della sua vita borghese, eppure in cerca di un rovello trascendente, se alterna le vacanze a Patmos, inseguendo il sogno, poi realizzato, di comprarsi una casa a Chora sulla grotta dell’Apocalisse dove Giovanni ebbe la rivelazione di Cristo, se va in ritiro spirituale in Svizzera con l’amico buddista suo alter ego e maestro di saggezza, e quando sta a Parigi ogni giorno, dopo aver accompagnato la figlioletta a scuola, si mette a leggere Nietzsche, in un bar della Place Liszt. Naturalmente, c’è anche spazio per l’anatomia del matrimonio infelice con la prima moglie, matrimonio sacrificale e cristiano corredato da sedute di psicanalisi dove la fede viene tenuta separata dall’inconscio, c’è spazio per le bondieuseries dei suoceri, cattolici di sinistra che passano le vacanze in Normandia e lo trascinano di prima mattina alla messa dei disabili accuditi da suorine sceme. Insomma, tutto ciò che di più triste, noioso e incongruo può offrire l’esistenza diventa l’occasione per ricamare sulla storia del cristianesimo, e il suo mistero: la vita di quello strano profeta nato ebreo in Giudea sotto il regno di Augusto, sopravvissuto alla strage di Erode, condannato da Ponzio Pilato e morto in croce come un bandito di strada per portare sulle sue spalle i peccati del mondo, dopo essere stato espulso dal sinedrio, lapidato, e condannato a morte per aver detto di essere il figlio di Dio, “anche se non ci sono prove che lo fosse realmente”, e dopo aver restituito la vista ai ciechi, le gambe ai paralitici, predicando l’amore del prossimo, con parole semplici, definitive ed enigmatiche, essendo la via, la verità e la vita.

 

“La vita di Gesù è accecante”, ammette Carrère. Per questo ha voluto prenderla di lato, partendo da Paolo, il tessitore di Tarso, calvo, irascibile, fanatico persecutore dei cristiani, e convertito sulla via di Damasco, per abbracciare il messaggio di quel predicatore vissuto trent’anni prima di lui, finché non viene perseguitato a sua volta dagli ebrei, finisce in carcere, resiste con orgoglio ai carcerieri romani, s’imbarca per Roma, e approdato al cuore dell’Impero continua a scrivere lettere di fuoco, fino alla morte, da martire esemplare. L’inchiesta di Carrère, come la chiama lui modestamente, schivando sia il romanzo sia la storia, continua col sodalizio tra Paolo e Luca, il medico macedone che segue il predicatore di Tarso per mare e per terra e gli dedica poi la sua prima biografia, e cioè gli Atti degli Apostoli, prima di diventare uno dei quattro evangelisti, anzi il più colto, col suo greco impeccabile, il più immaginifico, il più libero di estrapolare, di anticipare, di mischiare vero e verosimile. Carrère, che è uno scrittore consapevole, lo segue passo passo, ne guata i movimenti come un cane da caccia; lo abbranca come se fosse una preda preziosa e inizia a spennarlo. Perché d’improvviso nel XVI capitolo degli Atti Luca scrive “noi” passando dalla terza alla prima persona? E perché parla in quel modo della Madonna, come se l’avesse conosciuta, facendola cadere incinta subito dopo Elisabetta, giostrandosi con la cronologia? E perché sceglie certi testimoni e non altri, esaltando certi dettagli che altri passano sotto silenzio? E’ la parte più curiosa di questo libro tentacolare, dove si vede il rovello del narratore alle prese col possibile, col plausibile, col verosimile. Carrère non dimentica mai di essere uno scrittore in senso tecnico, prima di un ex credente, di un ex convertito, di un agnostico di ritorno. Ma in questo suo modo generoso e un po’ folle di proiettarsi in Luca, di diventare Luca, di immaginarne i sogni, di colmarne i vuoti, i non detti, le scene impossibili – ricostruendo per esempio quella di san Paolo davanti alla Venere di Cnido – non c’è solo il talento un po’ sterile di un grande scrittore. C’è soprattutto la buona fede di un testimone rimasto fedele al suo io remoto, al suo periodo di credente, e al messaggio evangelico. Ed è proprio questa assurda fedeltà, incongrua e professata, a rendere il libro di Carrère un miracolo per miscredenti, assimilabile a un’opera pia.

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