Negoziati, leak, silenzi, boicottaggi soft. Obama tifa contro Netanyahu
La settimana prossima il premier israeliano non sarà ricevuto dal presidente americano e non incontrerà funzionari dell’Amministrazione. Le motivazioni ufficiali e quelle reali.
New York. Il regime change è una pratica che normalmente si riserva ai paesi avversari, agli stati canaglia, ma dal sedile posteriore degli affari globali Barack Obama ha ridefinito i termini della politica internazionale e nel suo vocabolario il termine regime change talvolta concorda anche con un paese alleato. Israele, ad esempio. La frattura politica e personale fra Obama e Bibi Netanyahu è stranota. I due hanno troncato i rapporti con una telefonata a gennaio, e lo schiaffo pubblico è arrivato quando Netanyahu ha accettato, per dir così, un invito del Congresso americano propiziato e costruito ad arte dall’ambasciatore israeliano a Washington, Ron Dermer. La settimana prossima Netanyahu non sarà ricevuto da Obama e non incontrerà funzionari dell’Amministrazione; nemmeno il vicepresidente, Joe Biden, tradizionalmente scritturato per il ruolo di amico di Israele senza se e senza ma, assisterà al discorso del premier. La motivazione ufficiale è l’usanza di non incontrare in forma pubblica capi di stato e di governo a ridosso delle elezioni nei loro paesi, per non interferire con il voto. Nessuno meglio di Netanyahu sa quanto la spiegazione sia pretestuosa: nel 1996 Bill Clinton ha accolto alla Casa Bianca Shimon Peres poche settimane prima del voto, cercando di propiziare la sua vittoria con parole sentitissime e migliaia di photo opportunity. Nonostante l’endorsement del presidente americano alla fine l’ha spuntata il candidato conservatore, Netanyahu, appunto. Appurato che il protocollo non c’entra, la decisione di non incontrare Netanyahu assume un significato politico, specialmente se accompagnata da un ramificato apparato di manovre e dichiarazioni che tendono a screditare Netanyahu, con l’obiettivo non dichiarato di spingerlo verso la sconfitta alle elezioni. L’obiettivo è un regime change a bassissima intensità: esattamente il tipo di interferenza elettorale che Obama dice di voler evitare.
L’accusa che i funzionari della Casa Bianca vanno ripetendo è che Netanyahu tiene più alla poltrona che agli interessi del suo paese, visto che lavora attivamente per far saltare un accordo nucleare – giudicato inaccettabile – con l’Iran. A Washington, Dermer viene trattato dal governo come un pretoriano di Netanyahu più che come un rappresentante di un governo straniero. Una fonte anonima del dipartimento di stato ha messo in giro la voce che secondo il Mossad nuove sanzioni americane a Teheran farebbero definitivamente saltare il tavolo delle trattative. Il messaggio fa il paio con il leak, graditissimo alla Casa Bianca, che certifica la divergenza di valutazione fra Netanyahu e i servizi d’intelligence israeliani sulle effettive capacità dell’Iran di produrre la Bomba. Secondo il premier gli ayatollah sono a pochi passi dall’atomica – lo ha spiegato con tanto di poster all’Assemblea generale dell’Onu –, per il Mossad la strada è assai più lunga. Se ci si mette poi che Jeremy Bird, uno degli strateghi elettorali di Obama nel 2012, sta lavorando a una campagna grassroot contro Bibi e che il tanto discusso divieto di interferenza negli affari israeliani non ha impedito a Kerry e Biden di incontrare lo sfidante Isaac Herzog ai margini della conferenza di sicurezza di Monaco, ecco che il piano per il regime change è servito. Un regime change alimentato con la persuasione e la creazione di una campagna obliqua, arti in cui Obama eccelle. Diversi membri democratici del Congresso hanno già annunciato che non assisteranno al discorso di Bibi, configurando un boicottaggio squisitamente politico, una rarità quando si parla dei rapporti con Israele; questo dà la misura dell’investimento della Casa Bianca contro il discorso di Netanyahu, che si carica di ulteriori significati. Era per il premier l’occasione di mostrare che per Obama la denuncia dell’Iran non è poi così urgente; ora diventa anche il modo per reggere – e possibilmente restituire – alla spallata dell’alleato che cerca più o meno gentilmente di metterlo alla porta.
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