Il segretario generale della Fiom-Cgil, Maurizio Landini (foto LaPresse)

Aspettando Landini

Marianna Rizzini

Non ci penso proprio. Che avete capito. Faccio il sindacalista. Scendere in politica? Macché, deciderà la Cgil nel 2018. Qualsiasi cosa dica oggi Maurizio Landini, vertice Fiom, per smentire l’intenzione di procedere lento pede verso l’idea di una creatura politica, ormai non c’è più niente da fare.

Non ci penso proprio. Che avete capito. Faccio il sindacalista. Scendere in politica? Macché, deciderà la Cgil nel 2018. Qualsiasi cosa dica oggi Maurizio Landini, vertice Fiom, per smentire o edulcorare o mascherare l’intenzione di procedere lento pede verso l’idea di una creatura non partitica ma, gira che ti rigira, comunque politica, anche detta “rete della sinistra sociale” o “coalizione sociale”, ormai non c’è più niente da fare. Troppo tardi: quella creatura ha invaso la fantasia, se non il cuore, di chi da anni (o decenni) aspetta l’uomo taumaturgico che faccia la magia a sinistra (“farla risorgere”, per così dire, ma senza nulla toccare e senza nessuno scontentare). Ed è una creatura che accende pure l’immaginazione di chi, periodicamente, nei Palazzi (vedi Sel, vedi area Civati) e nelle redazioni (a MicroMega, a volte al Fatto, a volte al Corriere della Sera, oltreché negli uffici dei principali talk-show) aspetta quantomeno il tizio che faccia un po’ di casino e rompa la noia che prima o poi cala sulla scena – noia che si diffonde zitta zitta come nella testa indolente di un rampollo borghese di un libro di Moravia, magari, ma che spesso, più semplicemente, discende dalla saturazione. Per tutto, financo per i tweet e controtweet delle migliori giornate rottamatrici. E alla fine non è neanche più Landini, il vero punto, ma l’anelito verso colui che si mette alla testa di una qualche truppa litigiosa, affranta o speranzosa (colui o colei: è circolata in questi giorni anche l’ipotesi fantapolitica di una Laura Boldrini in campo). Una figura potenzialmente salvifica che, da un mondo contiguo (sindacale, artistico, professorale, giuridico o imprenditoriale), si butti per così dire nel vuoto politico e nell’arena. E il precedente c’è, per questo Landini “vado-non vado”, anche se in un mondo che più distante non potrebbe essere da quello del sindacalista con t-shirt bianca e felpa rossa e imitazione di Maurizio Crozza più vera del vero e allure rocciosa da salotto tv e faccia perplessa da alieno che, viste le circostanze (sempre e comunque “drammatiche”), sembra sul punto di scendere in campo da almeno tre anni, senza tuttavia mai concedersi a chi ne invochi la venuta. E anzi, quando tutto sembra portare verso l’ineluttabile, improcrastinabile tuffo extra-Fiom di Landini, Landini si mette a candidare per il ruolo di aggregatore a sinistra qualcun altro. L’ha fatto qualche tempo fa, facendo nientemeno che il nome del predecessore sindacal-politico Sergio Cofferati: “Io non penso a un nuovo partito”, ha detto al Corriere della Sera il Landini di qualche settimana fa, “io penso invece a nuove forme di aggregazione, penso a tante persone che possono finalmente tornare a partecipare, organizzandosi nelle forme che più ritengono opportune”. Con l’occhio ad Alexis Tsipras allora sul punto di vincere le elezioni greche, Landini agitava la sagoma di “un personaggio del carisma di Cofferati, con le sue grandi qualità etiche e morali”, uno che avrebbe potuto “certamente contribuire ad accelerare un percorso simile anche qui. Dove pure è necessario andare oltre l’idea di sinistra classica”. Ma sviare l’attenzione su altri ormai è inutile. Il precedente del “vado-non vado” continua ad aleggiare su Landini – precedente dell’uomo vado-non vado per antonomasia, colui che tra il 2009 e il 2012 ha acceso a intermittenza la curiosità e le aspettative di deputati, senatori, industriali e commentatori: Luca Cordero di Montezemolo, specialista della sempre annunciata, ma mai realizzata, discesa in campo (al momento clou arrivò Mario Monti, con tutta la truppa tecnica). E pensare che, per anni, il fantasma di un Montezemolo elettorale aveva fatto cucù (anche quello corredato di imitazione di Maurizio Crozza, con lista di regali di Natale montezemoliani di inestimabile valore e imprevedibile destinazione: un delfinario a questo, un’agenda lunga quindici metri invece di una barca a quello). Erano anni di economia stagnante (come oggi), anni però berlusconiani e non renziani, e il cosiddetto “centro” si interrogava sul mistero LCdM: che fa? fa sul serio oppure no? E lui, LCdM, scriveva lettere aperte enigmatiche e si faceva dire da Massimo Cacciari “caro Luca è tardi, al massimo prendi qualche deputato, dovevi candidarti quando Silvio Berlusconi è entrato in crisi”, e dal think tank e quartier generale della battaglia montezemoliana mai cominciata si lanciavano in rete le metafore sportive o ittiche del leader-non leader (“il paese è come un pugile nell’angolo”; “la pesca a strascico di Pier Ferdinando Casini…” diceva Montezemolo, pure lui, come Landini, a un certo punto beniamino dei talk e di Fabio Fazio). E Cesare Romiti faceva sapere che per il “bene del paese” forse era meglio che Montezemolo restasse dov’era, mentre lui, LCdM, si consigliava con l’amico ed ex premier francese François Fillon, pensando ad esempi di chissà quali vincenti politiche d’oltralpe (gli amici di Landini, a sinistra, specie da MicroMega, sognano invece piccole “Podemos”, come si leggeva ieri sull’anticipazione del nuovo numero della rivista). E quando, l’altro giorno, Landini ha mandato a dire a Renzi, dal Fatto, che il tempo del Renzi senza nemici in campo era finito, ecco che gli speranzosi, Fatto in testa, ci hanno creduto, nonostante la smentita “sul titolo” (“Caro direttore”, scriveva Landini al neodirettore del Fatto Marco Travaglio, “la prima pagina del Fatto Quotidiano di domenica 22 febbraio 2015 mi attribuisce un’affermazione non pronunciata e perlomeno forzata: ‘… adesso faccio politica’ con tanto di virgolette che la rendono fuorviante’”. E Travaglio controbatteva con altra missiva: “Caro Landini, come lei sa bene i titoli dei giornali sintetizzano in poche parole il contenuto degli articoli. In questo caso, della sua intervista al Fatto. In cui lei dice, fra l’altro, che non ha in mente l’ennesimo partitino, ma un’iniziativa politica che parta anche dal sindacato da lei guidato”).

 

Ieri, poi, l’ondivago Landini, dopo essersi non del tutto smentito a “Otto e mezzo”, e dopo aver negato di aver dovuto dare spiegazioni sulla possibile opzione politica a Susanna Camusso, non si smentiva affatto su Repubblica (“Renzi è peggio di Berlusconi”, diceva, “il sindacato ha sempre fatto politica, ha sempre espresso una sua visione, non è mai stato un sindacato di mestiere”). Erano frasi da interpretare. Ma, in assenza di Sibille, in presenza di quella data così lontana gettata nell’agone da Landini (“deciderà la Cgil nel 2018”) e nonostante i buoni auspici di Pippo Civati (“parlerò con Landini”), la delusione si affacciava non tanto negli uffici dei sempre ottimisti compagni post lista Tsipras (ex-post-neo-comunisti, movimentisti e benecomunisti), quelli che avevano comunque già sperato invano nel nome del surrogato estero, quanto presso i tavoli dei commentatori esterni in attesa di un qualche movimento. E così ieri Stefano Folli, su Repubblica, parlava di “paradosso” Landini a sinistra del Pd: “… Da un lato, lo spazio è ampio, significativo sulla carta anche sotto l’aspetto elettorale; dall’altro né il segretario Fiom né altri sembrano oggi in grado di occuparlo”. Che si adatti a “un lungo cammino”, il possibile sfidante a sinistra, era il messaggio finale: “Nessuno si meraviglierebbe se alla fine Landini scegliesse di giocare le sue carte all’interno della Cgil invece che in una sfida politico-elettorale con il premier”.

 

[**Video_box_2**]Aspettando Landini, questo lo stato d’animo di chi le ha sperate tutte, presso le cosiddette associazioni (da Libera di Don Ciotti a Emergency di Gino Strada), presso alcune aree di Sel, presso alcuni ex Cinque stelle, presso il Manifesto (dalle cui pagine Landini, intervistato da Daniela Preziosi, già il 2 febbraio aveva parlato di “un punto di vista alternativo”, e di “rete sociale” da costruire attorno alle parole “lavoro, beni comuni e lotta alle mafie). Aspettando Landini dopo aver aspettato, negli anni, chi questo chi quello: Paolo Flores d’Arcais si era incaponito a lungo con Antonio Di Pietro, salvo poi chiedergli l’impossibile, cinque anni fa (caro Tonino sciogliti e permetti un “big bang” che spiani la strada ai movimenti, scriveva Flores – poi è successo quel che è successo). E i comunisti rifondati, ormai orfani di Fausto Bertinotti e non del tutto convinti da Nichi Vendola e dai suoi Cantieri, si erano acconciati a sperare nei sindaci arancioni, con appendice ingroiana (poi sconfitta alle politiche del 2013). Ma adesso che Landini parla di democrazia “dal basso”, finora espressione di distopie a Cinque stelle, l’idea di “fare come Podemos” risveglia i seguaci dello “share” Fiom: Landini fa il botto in televisione, si dice da quando Landini, tra il 2010 e il 2011, è comparso ai vari “Raiperunanotte” e “Tutti-in-piedi” santoriani: trasmissioni di piazza, di lotta e di social network. Da quel momento il Landini televisivo (illusione ottica?) è parso agli speranzosi un Landini più politico che sindacale. E però allora c’erano altri sogni a portata di mano: tra un convegno e una tavola rotonda al Teatro Valle (occupato), si guardava al professor Stefano Rodotà (tà-tà), in chiave presidenziale ma anche governativa, sia prima sia dopo che Beppe Grillo, suo sostenitore della prima ora, lo rottamasse al grido di “ottuagenario miracolato dalla rete”. Adesso Rodotà, convinto che si debba “ripartire dal basso” (aridaje) senza la zavorra dei partiti, proprio Landini incorona: “Renzi ha vinto senza combattere, non c’era nessuno sulla sua strada”, ha detto il prof. a MicroMega (è tutta una sinergia), all’indomani dell’ultimo sciopero unitario Cgil-Fiom (autunno 2014), quello che doveva sancire la nuova rivoluzione d’ottobre. Invece è arrivato il Jobs Act (e sono arrivate le nuove mobilitazioni landiniane in Fiat, non proprio partecipate). Non c’è “nessuno in grado di contrastare” Renzi, diceva Rodotà, convinto che non l’avesse contrastato “nemmeno Giorgio Napolitano” che secondo le sue “valutazioni politiche” aveva “investito sul governo Letta”. “Ora si sta muovendo qualcosa”, diceva il prof: “Susanna Camusso e Maurizio Landini si sono ritrovati per uno sciopero unitario… Si è manifestata un’opposizione sociale”.

 

“Sociale”: eccola, la parole passe partout che permette di guardare al futuro della sinistra senza magone (poi il magone torna, motivo per cui si attende sempre colui che possa farsi salvatore, e ricostruttore, e stavolta tocca a Landini ma chissà, è un gorgo, il Maelstrom in cui scendere senza sapere quando e se si riemergerà). “Sociale”: è dal faticoso ottobre rosso, quello di quattro mesi fa, che si sogna la riaggregazione attorno alla sinistra sociale “dei diritti e del lavoro” (in autunno, a Roma, si erano visti i vari “scontenti” anti Renzi a raccogliere firme per l’abrogazione del pareggio di bilancio in Costituzione, con sostegno di Landini più Nichi Vendola, più Pippo Civati, più Stefano Rodotà, più Legambiente). Che Landini scenda o no in politica (o “salga”, come l’altro a lungo indeciso Mario Monti), a questo punto poco importa – ma la sinistra pd ci spera in chiave referendaria: il referendum anti Jobs Act di cui ha parlato Landini in questi giorni. L’importante è crederci (tutto il resto è noia?).

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  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.