Noi elenaferrantiani della prima ora vogliamo che vinca il premio Strega, con invisibilità ma senza disprezzo
Elena Ferrante ha accettato di partecipare al premio Strega, o meglio ha accettato che il suo romanzo, “Storia della bambina perduta”, pubblicato da e/o come tutti i suoi libri, vada incontro al destino: vincere, oppure no, sempre in assenza dell’autrice, il più importante premio letterario italiano.
Elena Ferrante ha accettato di partecipare al premio Strega, o meglio ha accettato che il suo romanzo, “Storia della bambina perduta”, pubblicato da e/o come tutti i suoi libri, vada incontro al destino: vincere, oppure no, sempre in assenza dell’autrice, il più importante premio letterario italiano. Nessuna regola vieta a uno scrittore di essere invisibile, di non partecipare a cene, cocktail, programmi televisivi. Come nessuna regola prevede che il vincitore debba bere lo Strega dalla bottiglia, anche se poi lo fanno tutti. L’unica cosa essenziale per partecipare e magari vincere (oltre al consenso dell’autore, ai due amici della domenica che presentano il libro e a molti voti) è che il libro sia bello. E allora “Storia della bambina perduta” è un romanzo bellissimo che merita di vincere: è il quarto e ultimo libro di una tetralogia molto amata dai lettori (“L’amica geniale”, “Storia del nuovo cognome”, “Storia di chi fugge e di chi resta”) e adorata anche dalla critica americana (il prossimo numero della Paris Review ospiterà la prima intervista a una scrittrice italiana: Elena Ferrante).
I quattro libri sono in realtà un unico grande libro (Ferrante lo chiama semplicemente L’Amica): due bambine crescono in un rione napoletano negli anni Cinquanta, si accendono il cervello l’una con l’altra, vivono dentro la violenza, il dialetto, hanno madri feroci, nessun incoraggiamento a diventare qualcos’altro, ma Elena riesce a fuggire e andare alla scoperta del mondo, mentre Lila, l’amica geniale, la bambina cattiva e splendente, “magra come un’acciuga salata”, resta nel rione per sessant’anni. E’ la storia di tutta una vita, anzi di due vite che si fondono, che sono in competizione e in soccorso l’una dell’altra, che prendono energie e slanci dal confronto, che si rubano e danno amore, giudizi taglienti e cattiveria: è una guerra femminile piena di rabbia (e di una speciale grazia priva di leggerezza).
Che cosa ci serve ancora? Elena Ferrante l’aveva detto molti anni fa: “Io credo che i libri non abbiano alcun bisogno degli autori, una volta che siano scritti”, e insomma niente altro importa. Né le chiacchiere e i pettegolezzi su chi sia davvero, su quale uomo, donna, coppia di scrittori si nasconda dietro questa invisibilità, né importa, quindi, il tono altezzoso della lettera di Elena Ferrante pubblicata ieri da Repubblica in risposta alla proposta di Roberto Saviano: accetta l’idea dello Strega “per sparigliare”, ma manifesta il disprezzo per una gara finta. In cui è già tutto deciso, in cui bisogna sfoggiare fidanzati potenti o copertine di settimanali, o grandi case editrici o tutte le cose insieme. Elena Ferrante (cioè la sua letteratura) non c’entra nulla con i pettegolezzi, allora perché anche solo sfiorarli, e immaginare che chi la voterà lo farà di certo “a disagio”? Nemmeno l’ultimatum è accettabile: se vincerà, allora forse siamo salvi. “Se invece l’Amica, secondo la prassi consueta, non entrerà nemmeno in cinquina, benissimo, si potrà dire definitivamente, senza ombra di dubbio, che lo Strega così com’è è irriformabile e che quindi va buttato per aria”. La cosa importante di Elena Ferrante allo Strega non deve avere a che fare con la salvezza del mondo o della moralità di un premio, ma solo con la bellezza di un grande romanzo.
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