Tsipras non sei solo
Da tempo “welfare” fa rima con “assistenzialismo” in sud Europa. Lo dice il think tank di Hollande.
Roma. Ieri la Commissione europea ha dato il via libera alla legge di stabilità italiana senza bisogno di manovre aggiuntive. Buona notizia per il governo Renzi. Ciò non toglie che la crisi europea continua a evolvere in parallelo a una rivoluzione nella spesa sociale. A partire dalla Grecia. Dall’innalzamento a 12 mila euro della fascia d’esenzione fiscale, che per Atene avrebbe significato poco meno che niente tasse per tutti – e un privilegio rispetto agli 8 mila euro della Germania, ai 7.500 dell’Italia, ai 6 mila della Francia – si è passati alle 100 rate di dilazione per le tasse arretrate. Dai 300 mila posti da creare per legge nel settore pubblico e con contratti aziendali collettivi, arriva una riforma del mercato del lavoro sotto supervisione internazionale. Quanto al salario minimo che si voleva innalzare da 580 a 751 euro, se ne riparlerà. Man mano che il governo di Alexis Tsipras torna alla realtà rispetto alle promesse elettorali, si vede che ad andare in frantumi non è solo l’idea vecchiotta di sovranità democratica, intesa come libertà pagata dai soldi altrui, ma anche ciò che resta in Europa di uno stato già definito sociale ma più precisamente assistenziale. Con tutte le icòne che l’hanno simboleggiato: pensioni, fasce protette, lavoro sussidiato. Alla fine Syriza ha ottenuto, per quattro mesi, un paio di misure più umanitarie che economiche. Ma sbaglia chi, pure in Italia, si sente un po’ tedesco rispetto ai poveri greci.
La lezione della Germania – la quale il welfare state se lo tiene adeguandolo ai tempi – è che la famosa economia sociale di mercato, inventata sulla riva destra del Reno, va bene per chi se la merita: aggiornandola o rivoluzionandola in chiave mercatista. La conferma viene da una fonte non asburgica, France Stratégie, think tank al servizio del governo francese, con un dossier intitolato “Le divergenze sociali in Europa dopo la crisi”. Diretto da Jean Pisani-Ferry, già a capo di Bruegel, l’Istituto osserva che dal 2008 le diversità nell’Eurozona sono aumentate, con un livello di ricchezza per abitante che rispetto alla media europea è cresciuto anche significativamente nel nord (Germania, Austria, Francia, Belgio, Olanda, Finlandia), è diminuito al sud (Grecia, Spagna, Portogallo, Italia) e in Irlanda, mentre il gap si è ridotto all’est (Bulgaria, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Polonia, Repubblica ceca, Romania, Slovacchia, Slovenia). A fare la differenza non è tanto l’austerità ma il diverso uso delle misure di politica sociale: sussidi di disoccupazione, assistenza, esenzione dal pagamento di servizi pubblici. “Dove questi strumenti sono stati impiegati in maniera attiva, per esempio con sussidi legati alla ricerca di un nuovo lavoro, o con incentivi salariali collegati alla produttività, gli effetti della crisi e del rigore di bilancio risultano di gran lunga attenuati nell’impatto sul benessere delle persone”, scrive France Stratégie. Aggiungendo che “la traiettoria divergente era già visibile a partire dal 2000”, ben prima dello choc finanziario, “in quei paesi dove salari e servizi assistiti procedevano di pari passo alla perdita di competitività delle economie, essendone a loro volta una componente”. Esempio classico, la cassa integrazione: costa molti soldi pubblici, non crea nuovo lavoro, rispetto al sussidio attivo e temporaneo di disoccupazione; stortura che ora il Jobs Act renziano si propone di correggere. Come dire: neppure lo stato sociale è una variabile indipendente, e non solo ad Atene.
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