Combattenti dello Stato islamico in Libia

Libia, la portaerei dello stato islamico

Leonardo Bellodi

La Libia sta diventando la pompa di benzina, il bancomat, l’aeroporto e il porto dello Stato islamico”. Sono le parole di un alto rappresentante del governo libico con sede a Tobruk, quello riconosciuto dalle Nazioni Unite e da gran parte della comunità internazionale.

La Libia sta diventando la pompa di benzina, il bancomat, l’aeroporto e il porto dello Stato islamico”. Sono le parole di un alto rappresentante del governo libico con sede a Tobruk, quello riconosciuto dalle Nazioni Unite e da gran parte della comunità internazionale.

 

Una preoccupazione condivisa, nel corso di un’audizione del 3 febbraio di fronte al Congresso americano, dal Generale Vincent R. Stewart, il direttore della Defence Intelligence Agency, l’agenzia militare di intelligence del Pentagono che ha alle proprie dipendenze 16.500 persone. Anche i servizi segreti della regione non nascondono la propria preoccupazione: secondo fonti del Marocco, il Sahel e il Sahara stanno diventando una naturale estensione dello Stato islamico (Is) che ritrova in Libia e in Mali la stessa situazione sociale, politica ed economica che gli ha permesso di radicarsi in Siria e in Iraq. Abu Bakr al Baghdadi, leader dell’Is e califfo dell’autoproclamato Stato islamico, non ha mai fatto mistero del fatto che considerasse la Libia come parte essenziale del proprio Califfato e Abu Arhim al Libim, uno dei più efficaci propagandisti dell’Is, ha sottolineato come la Libia abbia immense potenzialità per il Califfato: una posizione centrale nel Mediterraneo, migliaia di chilometri di coste, frontiere colabrodo con gli stati confinanti, petrolio, gas e armi, molte armi.

 

L’Is poi non perde occasione per far sapere al mondo che considera le province di Barqa nell’est del paese, della Tripolitania all’ovest e del Fezzan, nel deserto del sud come parte del proprio territorio.



Come è potuto accadere? Di fronte al Parlamento inglese, Lord West of Spithead, che è stato capo di stato maggiore della marina britannica, non ha esitato a dichiarare che la comunità internazionale negli ultimi tempi sembrava essersi dimenticata della Libia perché presa da altre priorità: la Siria, l’Iraq, l’Ucraina, l’Ebola. L’Is pare abbia approfittato di questa distrazione e abbia inviato in Libia alcuni uomini di punta per reclutare e formare combattenti. Lo scorso settembre, Abu Nabil al Anbari, persona di fiducia di al Baghdadi, è stato mandato a Derna, città di 100.000 abitanti non lontana dal confine egiziano. Derna, città oppressa da Gheddafi i cui cittadini sono andati in massa a combattere per al Qaida in Iraq e per l’Is in Siria, oggi assomiglia molto a Raqqa, la città che è il quartier generale dell’Is in Siria. Da Derna, città dove è imposta l’osservanza della sharia, pare siano partiti coloro che si sono fatti esplodere a Tobruk durante una sessione del Parlamento libico. Fonti dell’intelligence egiziana stimano che oggi in Libia ci siano tra i 1.000 e i 3.000 combattenti che hanno sposato la causa del Califfato e che sono per di più particolarmente addestrati essendo ritornati da fronti di guerra quali la Siria e l’ Iraq.

 

Tutti gli analisti concordano sul fatto che l’Is concentrerà attenzioni e sforzi in Libia. E’ un paese al centro del nord Africa, vicinissimo all’Europa, politicamente instabile, che vede la presenza di due governi e di due parlamenti, attraversato da lotte tra milizie e nel quale sono assenti forze militari inviate dalla comunità internazionale, se si esclude una limitata presenza delle Nazioni Unite che però non ha un mandato di peacekeeping. Un paese ricchissimo dal punto di vista energetico, con la possibilità di produrre grandi quantità di petrolio e gas e con una popolazione poco numerosa: meno di sei milioni di persone. La Libia fa gola anche per l’impressionante presenza di armi. L’MI6, i servizi segreti di Sua Maestà, stima che in Libia ci siano un milione di tonnellate di armi, più dell’intero arsenale britannico. Il solo Qatar durante la rivoluzione ha mandato 20.000 tonnellate di armi tra cui missili anti carro che non si sa bene dove siano. Gli arsenali di Gheddafi contenevano tra 500.000 e 700.000 armi di cui l’80 per cento era costituito da fucili d’assalto. E sempre Gheddafi si era procurato circa 20.000 manpads (Man-portable air-defense systems), missili antiaereo a corto raggio trasportabili a spalla e dunque particolarmente pericolosi. Gli Stati Uniti avevano avviato un programma di recupero di questi ordigni attraverso contractor sudafricani ma sembra non aver perfettamente funzionato. Vi sarebbero poi ancora circa 6.500 barili di yellow cake, il concentrato di uranio, stoccati a Sabha, località nel deserto sud. E alcuni si domandano se gli ingenti quantitativi di armi chimiche dell’epoca di Gheddafi siano stati tutti identificati e distrutti.

 

Quanto alle risorse energetiche, la Libia può facilmente produrre circa 2 milioni di barili al giorno di gas e petrolio, una fonte di approvvigionamento importante per l’Italia e per l’Europa stante anche i rapporti non proprio idilliaci con un altro paese che assicura parte del nostro fabbisogno energetico: la Russia.

 

L’Is potrebbe poi essere molto interessata alle coste quali punti di partenza per inviare propri militanti in Europa anche se fino a oggi non ci sono conferme di presenza di membri di questa organizzazione nelle navi e barche che trasportano gli immigrati clandestini.

 

Vi sono poi altre variabili di cui l’Is potrebbe approfittare e che sono legate alla diversità di vedute della comunità internazionale nei riguardi della Libia. Le incursioni aeree dell’Egitto in territorio egiziano, per esempio, che sono state avviate dopo la decapitazione di 21 egiziani copti da parte dell’Is, sono state disapprovate dal Qatar, dall’Algeria e dalla Turchia. Ma vi è di più: mentre il governo di Tobruk ha salutato con favore l’intervento, quello di Tripoli lo ha condannato come una violazione della sovranità nazionale. Certo, quello di Tobruk è riconosciuto dalle Nazioni Unite, ma vi sono stati che la pensano diversamente. Non è un caso che l’emittente al Jazeera si riferisca al governo di Tobruk come quello delle Nazioni Unite e a quello di Tripoli come quello legittimo. L’atteggiamento di alcuni paesi, Francia e Germania tra questi, che caldeggiano un accordo tra i due governi, fa infuriare quello di Tobruk che essendo riconosciuto dall’Onu non capisce perché dovrebbe scendere a patti con un governo che non esita a definire impostore.

 

Per rendere il quadro ancora più complesso, ammesso che ce ne sia bisogno, non è escluso che l’Is conti anche sul fatto che molto difficilmente il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite troverà la coesione necessaria ad autorizzare un’azione militare in Libia dal momento che la Russia ha sempre accusato l’occidente di essere andato ben oltre il mandato Onu che prevedeva la protezione dei civili e non già azioni tese o destinate a far cadere il governo di Gheddafi. Ammesso poi che ci sia qualcuno che le voglia queste azioni. Certo non gli Stati Uniti che ritengono che il ruolo di peacekeeper debba essere svolto dall’Unione europea in considerazione della vicinanza geografica e degli stretti legami sociali, culturali ed economici. E allo stato, anche in Europa non pare esserci tutto questo appetito per un intervento militare.

 

La Libia costituirà dunque un formidabile avamposto dell’Is nella regione del nord Africa, ponte verso l’Europa con arsenali di armi convenzionali chimiche, forte di reddito grazie alla vendita di gas, petrolio e di yellow cake?

 

Non è detto. In Iraq, e in parte in Siria, l’Is ha fatto leva sulla contrapposizione tra sciiti e sunniti. Un conflitto di confessioni che svolge un ruolo di primo piano nel definire oggi gli equilibri in medio oriente. Questo conflitto settario, che ha toccato punte di violenza che non si vedevano dalla guerra dei trent’anni, ha reso ancora più estremisti gli estremisti sunniti e alimentato le campagne di proselitismo portate avanti dall’Is in nome di una tradizione medievale ma con metodi e tecniche di comunicazione assai moderni. In Libia, la maggior parte della popolazione è sunnita e dunque l’Is non pare poter approfittare di contrapposizione settarie.

 

[**Video_box_2**]Non appare poi così semplice neanche convertire petrolio e gas libico in moneta sonante. Innanzitutto i grandi campi di produzione di petrolio e gas sono distanti dai centri abitati e in mezzo al deserto. Possono essere certamente attaccati da miliziani dell’Is, così come è stato fatto in Algeria nel gennaio del 2013 quando la brigata Khaled Abul Abbas, guidata da Mokhtar Belmokhtar, già membro di al Qaida nel Maghreb islamico, ha fatto irruzione nell’impianto di Ain Amenas, dove operavano molte compagnie internazionali. Gli impianti di produzione possono essere seriamente danneggiati o addirittura distrutti ma appare molto difficile prenderne il controllo e mantenerlo. In Libia poi vi sono solo grandi raffinerie. Anche queste forse facili da attaccare ma impossibili da controllare e operare. L’Is non può dunque contare sulla produzione di greggio né sulla sua raffinazione. Né potrebbe agevolmente venderlo. Non certo via terra in Algeria né in Egitto. Molto complicato anche utilizzare i porti ammesso che ne riescano a tenere il controllo. L’anno scorso, quando il ribelle libico Ibrahimm al Jathran ha preso il controllo del porto di Es Sider nell’ est della Libia e caricato la petroliera Morning Glory battente bandiera della Corea del nord, sono intervenuti, su richiesta del governo libico, i Navy seal americani, per restituire il greggio al legittimo proprietario. Detto per inciso, sono stati in molti a chiedersi perché non siano intervenuti gli europei.

 

Considerato che in Libia esistono due Parlamenti e due governi, a prescindere dalla questione della illegittimità di uno di essi, e che entrambi sono deboli non disponendo di un vero apparato amministrativo né di un esercito organizzato, la capacità di penetrazione e di controllo del territorio da parte dell’Is consisterà nella sua capacità di stringere rapporti e alleanze con le varie tribù e milizie. Questa è la vera sfida che la comunità internazionale e in particolare l’Europa si trova oggi a dover affrontare ed evitare a tutti i costi che ciò accada. E il dibattito andrebbe spostato dalla possibilità di un intervento armato alla necessità di avviare e consolidare un dialogo con tutte le tribù e kabile in Libia.

Di più su questi argomenti: