Quello che non si dovrebbe dire alla presentazione di un libro e la mancanza di umorismo

Mariarosa Mancuso

Presentazioni di libri disastrose in giro se ne vedono tante. Non solo in Italia. Il poeta scozzese Robin Robertson ha messo insieme un bel catalogo consultando colleghi britannici e americani. Il libro è uscito da Guanda, con il titolo “Le umiliazioni non finiscono mai”.

Presentazioni di libri disastrose in giro se ne vedono tante. Non solo in Italia. Il poeta scozzese Robin Robertson ha messo insieme un bel catalogo consultando colleghi britannici e americani. Il libro è uscito da Guanda, con il titolo “Le umiliazioni non finiscono mai”. Abbiamo pensato tante volte di raccontargli questa, caso mai pensasse a una seconda edizione arricchita.
La scena è in un bar torinese, in periodo di Festival del cinema. Un quarto d’ora prima, la saletta è vuota, un dj con la cuffia di lana peruviana che armeggia con gli amplificatori dice di non saperne niente, sarà in un altro locale. Una mezz’ora dopo l’orario concordato rispondono all’appello: il presentatore numero uno (l’altro, raggiunto dopo molti segnali di occupato, ha fatto sapere che sarà molto in ritardo, anzi non verrà del tutto), l’autore del libro, un amico che l’autore ha portato con sé, due astanti due. Il presentatore – una presentatrice, se ci tenete a saperlo – comincia la chiacchierata sul libro, un’autobiografia non proprio trascinante, se non per un dettaglio. L’autore – l’autrice, se ci tenete a saperlo – racconta di aver finto una grave malattia per riportare all’ovile un fidanzato riottoso. L’amico da cui l’autrice si era fatta scortare alza la mano. “No guardi, non è così, questo libro dimostra una profonda sensibilità e un animo poetico”. La presentatrice, cercando di mantenere la calma graziosamente dice “perché non ve lo presentate da voi il capolavoro?”, e in cuor suo spera di incontrare in futuro gente più spiritosa (la storia non era un pettegolezzo, altri dettagli di black humour erano reperibili qua e là, non pareva sgarbato farli notare).

 

L’episodio torna alla memoria leggendo la lettera che Chiara Rapaccini (ta-ta-ta-tà, era lei la scrittrice) ha mandato al Tirreno per protestare contro il premio Monicelli. La Fondazione Grosseto Cultura – Luciano Bianciardi, dove sei quando abbiamo bisogno di te? toccherà rileggere un’altra volta “Il lavoro culturale” – lo voleva assegnare a Carlo Verdone. La vedova Monicelli fa notare che siamo lontani (perdonate il fraseggio) “dal pensiero e soprattutto dal cinema di Mario, sempre al confine tra commedia umana, società e politica sofferta. I suoi film avevano un taglio politico-filosofico su quello che accadeva storicamente in Italia, su quello che succedeva politicamente contro il potere costituito, nello scontro tra classi lavoratrici e classi dirigenti”.

 

[**Video_box_2**]Stessa inconfondibile mancanza di umorismo, corroborata dal suggerimento che era meglio dare il premio a Pif (per le targhe che commemorano i morti di mafia a Palermo, furbo finale da impegno civile nel film “La mafia non uccide d’estate”: anche i bravi che in Italia sanno far ridere sulle cose serie, poi ritirano la manina). Proponiamo un candidato alternativo: Elio Germano nello spot contro Matteo Salvini. Strazia Trilussa come aveva straziato Leopardi nel film di Mario Martone, attorniato da bambini rom che pendono dalle sue labbra. Basiti, non sappiamo se chiamare il Telefono Azzurro o un maestro di recitazione.

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