Su Rai Way, Renzi non deve farsi trascinare nella solita Guerra dei trent'anni
“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”: a qualcuno, “antico” anche lui, l’Opa su Rai Way ha fatto tornare alla memoria il verso pascoliano della propria infanzia.
“C’è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d’antico”: a qualcuno, “antico” anche lui, l’Opa su RaiWay ha fatto tornare alla memoria il verso pascoliano della propria infanzia. L’antico è l’evocare il conflitto di interesse, il giaguaro, tutto l’armamentario di una “guerra dei trent’anni” che novità tecnologiche, gusti dei consumatori, preferenze degli elettori, hanno fatto deporre e seppellire: perché il conflitto non c’è più, e quanto agli interessi, nulla di meglio di un’Opa per regolarli. O almeno così si è pensato.
Si è pensato che quell’evocazione, oltre che fuori tempo, fosse fuori luogo: perché qui la partita che si gioca non è neppure quella che, a torto o a ragione, era legata alla questione televisiva. Quella riguardava i contenuti, quelli con cui, dicevano, Berlusconi aveva “creato” i suoi elettori. Questa riguarda i ripetitori, e la questione se l’edicolante sia responsabile per ciò che sta scritto nei giornali che vende l’abbiamo risolta da tempo. Questo è il replay dell’equivoco del referendum sull’acqua, che resta “pubblica” anche se i tubi e le valvole sono di un privato. E’ vero, ci sono i precedenti di Terna e SnamReteGas, entrambe quotate ma con una partecipazione di Cassa Depositi a Prestiti. La garanzia della “italianità di una infrastruttura strategica” non ha molto senso, l’ipotesi che qualcuno la comperi per rubare il rame o vendere i tubi è ridicola. Mentre sono non illogiche le ragioni, anche di efficienza, per mantenere unito il monopolio che l’intervento pubblico aveva creato, e farlo gestire da un’azienda quotata.
E allora pensiamo al nuovo: il nuovo è Renzi, la politica industriale è il terreno su cui è cresciuto quello che vuole “rottamare”. Quel “51% pubblico” di Rai Way è in contraddizione con “operazione di mercato”: che mercato sarebbe quello in cui la competizione per il controllo fosse vietata per decreto? Quel 51% è messo lì o per riflesso pavloviano, o per evitare gli schiamazzi delle oche del Campidoglio, e andare presto a una quotazione, tra l’altro rivelatasi provvidenziale per i conti di Viale Mazzini. Nei ripetitori opera una molteplicità di operatori privati. Quando si andasse a una concentrazione degli operatori, sugli assetti proprietari e sulla gestione dei ripetitori punterebbero i fari l’Antitrust, l’AgCom, e, se mai un eventuale futuro consolidamento li facesse diventare una essential facility, le autorità europee. Che stato sarebbe questo se dichiarasse di non avere fiducia nelle autorità che egli stesso ha proposto e il Parlamento confermato?
Nell’agenda di Renzi ci sono altre partite importanti. Importanti in sé, importanti per capire se ha davvero voltato pagina in tema di ideologia dell’intervento dello stato sulle attività industriali. C’è la “nazionalizzazione” dell’Ilva: una questione arrivata, per colpe non sue, a un tale grado di criticità, di allarme sociale, da richiedere un intervento dell’esecutivo. Il danno al Paese e il vulnus ai diritti, non li aveva fatti lui. Le domande sono: lo strumento scelto sarà adatto a rimediare ai danni, di fatto e di diritto? Saprà Renzi trarne le conseguenze, e metter mano anche alle cause che hanno prodotto un simile disastro? C’è la questione della rete a banda larga: anche lì ci sono interessi pubblici da perseguire, diritti dei privati da rispettare, mercati da mobilitare, traiettorie tecnologiche su cui non interferire. Altrove, Germania Inghilterra, Stati Uniti, la soluzione è resa più semplice dalla presenza di una vasta rete cavo televisiva. Da noi manca, perché un decreto ( 73 del 22 febbraio 1991) ne riserva la realizzazione al concessionario di reti di telecomunicazioni: Stet non l’ha usata e fatto i tralicci. Quando si dice le combinazioni! Decreto ancora in vigore: abrogarlo insieme a quello del 50%?
[**Video_box_2**]C’è la questione Rai. E’ la Rai è la principale azienda culturale del paese, ha detto con enfasi Renzi, preannunciando il decreto con cui mettervi mano. Cultura, cioè contenuti, e, per riuscire ad esprimerli, una governance che superi la spartizione partitica. Cultura, non tralicci: c’è stata una volta in cui sono andati insieme, ma è stata una triste e tragica storia.
Sono tanti i populismi con cui Renzi deve vedersela. Quello antiindustriale che ha fatto da controcanto all’acciaio di Taranto fin da quando era dell’Iri. Quello che vorrebbe fare della connessione a banda ultralarga un diritto fondamentale dell’uomo, e maggiormente per chi non lo usa perché così sarà indotto ad usarlo. E soprattutto quello della televisione, buona o cattiva maestra, un’alluvione durata trent’anni: al suo confronto la questione dei ripetitori è un’acquazzone. Ma Renzi commetterebbe un grave errore se cedesse su questo punto, quasi un’offa per avere maggiore libertà sul tema importante, quello della Rai. A cedere, non si è mai più forti.
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