Dentro il cervello di Netflix

La piattaforma streaming che ha creato “House of Cards” ha cambiato la psicologia collettiva e ha aperto mercati impensabili come Cuba. Ora vuole spezzare il monopolio burocratico italiano e cambiare anche noi

New York. Difficilmente sarà la Washington cinica e assetata di potere di Frank Underwood a convincere i cubani che il sistema politico americano è più nobile ed equanime del socialismo castrista, ma l’occidentalizzazione dell’isola, in fase di disgelo diplomatico eppure tecnicamente ancora sotto embargo, da qualche parte dovrà pure cominciare. E in questi casi il mercato arriva sempre prima degli ambasciatori e della burocrazia governativa, come sanno bene i giganti della Silicon Valley, che organizzano spedizioni nei regimi più paranoici del pianeta per esportare gentilmente la democrazia tramite fibra ottica. A Cuba c’è arrivato per primo, come spesso capita, il padre nobile della cyberdiplomazia, Eric Schmidt, il chairman di Google che lo scorso anno ha visitato in segreto L’Avana, impartendo lezioni di connettività e apertura democratica con il solito fare da tedoforo dei valori dell’occidente liberale: “L’accesso a internet potrà portare a Cuba una miglior educazione, migliori affari e un governo più responsabile”. Si capisce che Google parte dai suoi prodotti per avviare il processo democratico, in questo senso il mercato è sempre l’apripista, non la retroguardia del processo politico.

 

Google a parte, è stato Netflix ad aprire la breccia in uno degli ultimi residui del socialismo reale, annunciando, non molto tempo dopo che Barack Obama e Raúl Castro hanno parlato all’unisono del disgelo, l’immediata apertura del servizio sull’isola. Ora dalle nostre parti dicono che presto gli utenti potranno smetterla di aiutarsi con tecniche borderline per far credere al sistema di essere in Kentucky o in Arizona e accedere alla cornucopia di film e serie televisive originali, ma sta di fatto che Netflix è arrivato prima a Cuba che in Italia. In termini politici e culturali è una decisione enorme che dice molto della natura e delle ambizioni dell’azienda fondata e guidata da un imprenditore filantropo che crede nel potere del mercato e in quello dell’educazione, e lavora per applicare i princìpi del primo ai contenuti della seconda. Netflix non è un motore di ricerca o un social network. Non veicola contenuti creati o cercati dagli utenti, se ci sarà una piazza Tahrir o Maidan a Cuba non sarà grazie all’azienda di Los Gatos, che offre prodotti televisivi e cinematografici che sono tendenzialmente l’espressione della cultura pop americana. Certo, ogni paese ha i suoi prodotti tagliati su misura e le case di produzione locali da cui il servizio di streaming attinge, ma il grosso, la sostanza, è fatta di blockbuster. Uno dei punti di forza di Netflix è l’orizzonte globale del messaggio. Le torbide imprese politiche di Frank Underwood sono oggetto di discussione in un’ampia fetta del pianeta, e la teoria è che quando anche a Cuba i murales di Kevin Spacey avranno rimpiazzato quelli del “Che” non ci sarà bisogno d’altro per far evaporare un regime già al tramonto. Al resto ci penserà l’anchorman Conan O’Brien, che si è precipitato all’Avana poco dopo la notizia di Netflix per documentare la vita dei cubani prima che l’ondata di dollari yankee renda l’isola un paradiso all inclusive per turisti alticci con le spalle arrossate. Conan è il primo conduttore televisivo americano a entrare nel paese dal 1959 e il 4 marzo andrà in onda una puntata del suo show registrata a Cuba. Probabilmente nessun cubano avrà però accesso allo show, e se anche l’avesse, sottotitolare un format fatto di battute che fanno riferimento a un sostrato culturale totalmente estraneo a quello locale sarebbe impossibile. A meno che tutti i cubani in queste settimane non si attacchino ossessivamente a Netflix, una specie di corso accelerato in stile arancia meccanica della cultura pop americana.

 

Forse stiamo correndo troppo. Nella realtà il grande annuncio del Netflix cubano ha qualcosa di ridicolo. Il comunicato stampa dell’11 febbraio recitava: “A partire da oggi, i cittadini di Cuba che hanno una connessione internet e hanno accesso ai sistemi internazionali di pagamento potranno iscriversi a Netflix e vedere istantaneamente una selezione di film e tv show”. Peccato che chi ha una connessione internet e accesso ai sistemi internazionali di pagamento sia meno dell’1 per cento della popolazione, e nel conteggio sono inclusi anche gli alberghi di lusso per turisti. Chi anche avesse carta di credito e banda con molte probabilità avrebbe una connessione troppo debole per ottenere uno streaming decente, specialmente se ambisce ai fasti dell’alta definizione. Infine, chi anche avesse banda abbastanza larga per lo streaming e carta di credito funzionante dovrebbe pagare 7,99 dollari al mese, circa un terzo dello stipendio cubano medio, per vedere “House of Cards”, “Orange is the New Black” e tutto il resto. Elaine Diaz, professoressa all’Università dell’Avana, ha sentenziato: “Se mai qualcuno sull’isola avrà accesso a Netflix, saranno turisti stranieri che alloggiano negli alberghi con la connessione internet rapida”.

 

Se alla luce di questi dati l’esportazione istantanea di Netflix alle masse assetate di libertà assume il profilo della boutade di marketing è perché lo è. Almeno nell’immediato. Anche perché l’esistenza di un mercato nero di prodotti cinematografici occidentali è un segreto talmente mal custodito che il regime cubano tacitamente lo incoraggia e con ogni probabilità gestisce parte del business. Finti tecnici con tute da lavoro e targhette sul petto portano “el Paquete” nelle case dei clienti. El Paquete consiste in chiavette Usb piene di puntate di serie televisive e telenovela scaricate illegalmente e distribuite sul mercato secondario. L’aspetto che rende el Paquete competitivo è la customizzazione: il cliente può ordinare la combinazione di show che preferisce fra quelli disponibili in una lista che circola informalmente, da Hollywood alle serie messicane; se cerca prodotti che non sono nella lista li richiede e i ragazzi che scaricano sottobanco vedono cosa possono fare. Il prezzo fluttua con cadenza settimanale, seguendo una logica di mercato in purezza. Il lunedì il rifornimento di prodotti televisivi può costare anche 5 dollari, verso la fine della settimana i prezzi crollano, si può arrivare anche a un dollaro.

 

[**Video_box_2**]Date le condizioni strutturali di Cuba oggi, Netflix propone un’offerta per la quale non esiste domanda, e il paese il suo servizio on demand ce l’ha già. La scommessa di Netflix riguarda il domani, è una strategia di lungo termine per la quale l’azienda vuole guadagnare da subito una posizione vantaggiosa, introducendo senza fretta contenuti “che non sono affatto frivoli, ma rappresentano un passaggio chiave nelle relazioni politiche fra gli Stati Uniti e Cuba”, come scrivono Joshua Bleiberg e Darrell West, analisti della Brookings Institution. Com’è possibile che un’azienda, per quanto tratti prodotti che sono icone della cultura americana, rappresenti un passaggio chiave nelle relazioni politiche degli Stati Uniti? La risposta è nell’identità di Netflix.

 

La compagnia nata come risposta a domicilio al videonoleggio classico, con abbonamento fisso e senza penali per il ritardo nella consegna, ha rivoluzionato la fruizione dei contenuti televisivi. Reed Hastings, il programmatore che si era arruolato nei marine e poi era finito a insegnare matematica in una scuola africana, ha avuto l’illuminazione quando si è dimenticato di riconsegnare un film da Blockbuster e si è ritrovato una penale da 40 dollari sul conto. Stava pensando a come tenerlo nascosto alla moglie mentre andava in palestra, un servizio con tariffa flat, a prescindere dal numero di ore che si passano agli attrezzi e senza costi aggiuntivi per il ritardo. Netflix nasce dalla combinazione fra il modello flat della palestra e la caratteristica on demand del videonoleggio, il tutto organizzato come un servizio a domicilio ad alto coefficiente di automazione.
“Freedom and Responsibility” è il motto della compagnia di Hastings e inizialmente, quando il core business erano i dvd spediti a casa, l’accento cadeva sulla “responsibility”: se non rispedivi al mittente il film, non arrivava quello successivo della lista preselezionata, mentre continuavano i pagamenti mensili. Era nell’interesse del cliente guardare e rispedire il film in tempi brevi, e l’incentivo non era la minaccia di una multa ma la promessa di nuovo divertimento. Con il passaggio allo streaming, nel 2007 e poi in modo massiccio più recentemente, Netflix si è spostato sulla “freedom”. Si può vedere molto – non tutto – quando si vuole, da qualunque device, senza limitazioni e costi aggiuntivi, un salto di paradigma notevole rispetto all’on demand che ti dà tutto e subito, ma a quale prezzo. La produzione di serie originali, idea che in origine aveva fatto storcere il naso agli osservatori e poi si è dimostrata un successo planetario senza precedenti, e il caso di scuola è “House of Cards”, ha cambiato ancora una volta il concetto di produzione e distribuzione dei contenuti televisivi.

 

Così Netflix ha distrutto, nell’ordine, l’oligopolio dei videonoleggi, quello della distribuzione on demand à la carte dei provider via cavo e insidia il potere della grandi case di produzione di serie televisive, con il suo metodo del “tutto subito” che ha messo in crisi l’idea stessa di palinsesto. Netflix non ha soltanto cambiato l’offerta, ma ha modificato le attese e i desideri degli utenti che determinano la domanda. Secondo David DiSalvo, commentatore che si occupa degli effetti della tecnologia sul funzionamento della psiche, le stagioni delle serie televisive offerte per intero e immediatamente sulla piattaforma hanno mandato in pensione il meccanismo della “gratificazione ritardata”, quel particolare e stimolante piacere che deriva dalla capacità di contenersi attendendo il prossimo momento di godimento, ovvero la puntata successiva. Senza considerare l’aspetto della condivisione sociale delle trame: il lunedì mattina si può commentare con il colega l’ultima puntata di “Homeland”, serie di Showtime, ma non quella di “House of Cards”, ché nessuno è sincronizzato sullo stesso ritmo e la domanda “a quale puntata sei arrivato?” genera rischi di spoiler che nessuno vuole correre.

 

La vocazione alla distruzione dei mercati esistenti è scritta nel codice genetico di Netflix, che si afferma nella misura in cui trova pertugi di libero mercato per infilarsi e rovesciare il sistema. Paradossalmente è più semplice sfondare nel mercato dirigista ma povero di Cuba che in quello italiano, dominato da rendite di posizione politiche montate su logiche da burocrazia parastatale. Da mesi vanno avanti le trattative per la partnership con Telecom, e l’azienda californiana una formula per mantenere la promessa di un’espansione globale nei prossimi due anni la troverà, ma le manovre di Mediaset e Rai, che vanno nella direzione del consolidamento del blocco della distribuzione di contenuti televisivi, possono essere lette come tentativi di difesa dall’ingresso di Netflix e dei suoi fratelli. L’azienda di Hastings funge da apripista per una pletora di servizi simili: in Italia è da poco arrivato Wuaki.tv, piattaforma giapponese che combina l’acquisto à la carte al menù fisso. Certo, la parte più invitante di Netflix è il prezzo: meno di otto dollari al mese (ed è stata recentemente alzata) è una cifra che compete anche con il mercato pirata cubano e l’aumento dei prezzi per il cliente non è mai stata una delle priorità di Hastings. Da quando produceva software nella sua Pure, la compagnia con cui ha sfondato, il ceo è ossessionato dall’idea della crescita, non del consolidamento né del contenimento dei costi (notoriamente gli stipendi di Netflix sono estremamente generosi), e quando presenta trimestrali strepitose come l’ultima non parla che di nuovi investimenti e progetti di espansione. La compagnia continuerà a investire pesantemente nella produzione di contenuti originali – il remake dell’“Ispettore Gadget” segna il coraggioso ingresso nel mercato dell’animazione per ragazzi, segnale non da poco – e con i successi nei mercati aperti o definitivamente conquistati nel 2014 dal quartier generale dicono che l’azienda continuerà a fare profitti anche nei prossimi anni. Oggi Netflix ha circa 57 milioni di abbonati in tutto il mondo e una capitalizzazione in Borsa attorno ai 30 miliardi di dollari. Quest’anno produrrà 150 ore di contenuti originali, mentre cerca formule per penetrare in mercati ostici, tipo Cuba, o l’Italia.

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