Matteo Renzi (LaPresse)

Esiste o no una politica industriale di Renzi?

Claudio Cerasa

Va bene. I dati cominciano a essere buonini, e forse li avete visti. L’Istat dice che nel primo trimestre del 2015 le cose cominceranno leggermente a girare per il verso giusto (+0,1 per cento di crescita).

Va bene. I dati cominciano a essere buonini, e forse li avete visti. L’Istat dice che nel primo trimestre del 2015 le cose cominceranno leggermente a girare per il verso giusto (+0,1 per cento di crescita). La mini ripresa dei consumi ha portato i prezzi dei beni alimentari ad aumentare dello 0,7 per cento. Iniziano ad arrivare i primi dati incoraggianti su produzione di cemento, traffico merci, investimenti, mutui delle casa (anche se molti mutui nuovi in realtà sono mutui ricontrattati). La fiducia delle imprese è ai massimi da quattro anni a questa parte. Lo spread è sceso sotto i cento punti base. A dicembre l’export è aumentato dell’1,4 per cento rispetto allo scorso novembre. Gli ordini sono saliti del 4,5 per cento. Molte aziende stanno cominciando a utilizzare lo sgravio degli ottomila euro lordi previsto nei nuovi contratti a tutele crescenti per assumere persone – e un po’ perché da diversi mesi le imprese avevano bloccato le assunzioni aspettando il Jobs Act e un po’ perché non si sa ancora se lo sgravio previsto per il 2015 ci sarà anche per il 2016 l’occupazione potrebbe crescere più del previsto nei primi sei mesi dell’anno (Telecom, per dire, ha annunciato quattromila nuove assunzioni).

 

Qualcosa come si vede comincia a muoversi e andare per il verso giusto, e, più che per merito del governo, per via del fortunato contesto internazionale (euro debole, petrolio basso, programma di acquisto di titoli di stato da parte di Mario Draghi). Ma all’interno di questa significativa e ben augurale cornice l’unico vero carburante che potrebbe aiutare il governo Renzi a sfruttare il contesto economico coincide con un’espressione con la quale l’era della rottamazione deve ancora dimostrare di avere una certa pratica e una seria dimestichezza. Due parole semplici: politica industriale. La domanda è semplice: Renzi ha o no un’idea coerente di politica industriale? Un po’ di dati utili per provare a orientarci e capire di cosa stiamo parlando. A fine 2014, dati Uil, i tavoli di crisi aziendali aperti al ministero dello Sviluppo arrivavano a quota 153 e in totale i lavoratori coinvolti nei processi di salvataggio o ristrutturazione erano 540mila. Nello scorso anno il governo ha affrontato, in alcuni casi trovando soluzioni, le crisi aziendali dell’Ast di Terni, della Lucchini di Piombino, dell’Eni di Gela, dell’Electrolux di Padova e ha aperto una partita importante per quanto riguarda il tentativo di salvataggio dell’Ilva (la strada però è ancora lunghissima).

 

Osservando l’azione del governo su questi fronti è complicato dare un giudizio di merito su quello che è stato finora fatto (è troppo presto) ma si possono trarre alcune conclusioni sul metodo di lavoro e sul futuro possibile. Come metodo, Renzi non ha un tratto identitario definito ma ragiona con la logica del patchwork e in alcuni casi si comporta seguendo degli esempi stranieri (i suoi consulenti d’altronde sono tutti di formazione non italiana, a parte Andrea Guerra) e mettendo in pratica a volte un modello di cultura liberista e a volte uno di cultura statalista. Ultra liberista pensando al pacchetto relativo al Jobs Act, al modello Marchionne, pensando alla contendibilità delle banche popolari e pensando a un certo modo di gestire in chiave pro mercato alcuni asset che un tempo sarebbero stati considerati strategici e su cui si sarebbero fatte battaglie a difesa dell’italianità (dalla cessione di Ansaldo Sts e Breda a Hitachi, passando per la cessione di Alitalia a Etihad fino alla recente cessione di un pacchetto importante di Enel). Ultra statalista, invece, pensando al pacchetto Ilva e, in prospettiva, al pacchetto Monte dei Paschi (anche se negli ultimi anni le nazionalizzazioni, vere o di fatto, sono state sdoganate, e alla grande, oltre che dalla Francia con Peugeot, anche dall’America di Obama, pensate al caso Chrysler, e anche dall’Inghilterra pre David Cameron, pensate al caso Northern Rock). Per non parlare, poi, a proposito di statalismo, del piano relativo alla banda ultra larga di prossima stesura, con lo stato pronto a mettere miliardi su miliardi per finanziare una infrastruttura di rete strategica sulla quale finora i privati hanno investito pochissimo.

 

Un po’ di qua e un po’ di là, come spesso capita al presidente del Consiglio. Un mix che in realtà non è una caratteristica del renzismo ma è un tratto ormai diffuso nei paesi occidentali. Se volete, è il nuovo statalismo liberale. Se volete, è una specie di liberismo di stato. Questo per quanto riguarda la premessa ma la premessa ha un suo seguito importante e il seguito coincide con un percorso all’interno del quale nei prossimi mesi sarà decisivo, vitale, ritrovare alcuni passaggi fondamentali. Ce ne siamo appuntati un paio. Il primo passaggio riguarda la bad bank e su questo punto il governo non sembra avere ancora le idee chiare. La bad bank è una società costituita con lo scopo di acquistare a prezzi ridotti portafogli di crediti in sofferenza delle banche e servirà per pulire i bilanci degli stessi istituti e permettere il rilancio del credito e, ovviamente, nuove aggregazioni (è la stagione giusta, è l’era delle grandi fusioni, e il 2015 secondo molti sarà sia per la politica sia per il business simile al 2007, altro anno di grandi fusioni, pensate a Intesa SanPaolo). Il secondo passaggio, anch’esso fondamentale, è un approccio generale che dovrebbe diventare la bussola della politica industriale del governo. Intervento pubblico nelle imprese critiche per poi restituire queste al mercato. E’ successo con l’Ilva ed è giusto che accada ancora per le tante aziende in difficoltà finanziaria ma industrialmente ancora solide ragionando su una prospettiva futura. L’idea c’è, esiste, ma non c’è ancora lo strumento per farlo. La società di ristrutturazione a cui stanno lavorando la Cdp, Palazzo Chigi e il ministero dello Sviluppo è uno strumento utile ma la Cassa depositi e prestiti vive una comprensibile crisi di identità (Iri o non Iri?) e se non capirà che strada dovrà prendere non capiremo che strada prenderà la politica industriale italiana.

 

Si potrebbe anche dire che l’era degli incentivi, come promesso da Renzi, dovrebbe essere legata alla ricapitalizzazione e dovrebbe essere collegata a una politica di riduzione dei sussidi che potrebbe mettere forse di malumore Confindustria ma che potrebbe aiutare molte aziende a ricevere finanziamenti per crescere e non per sopravvivere. Questo è vero. Fermo restando che la miglior politica per le imprese non è quella che vuole indirizzare ogni mossa industriale o quella che vuole avere l'ultima parola su ogni processo aziendale ma è quella che permette alle imprese di essere libere di sprigionare le proprie energie e che permette alle partite Iva di essere competitive e non ostacolate e che considera il nanismo industriale non come un valore da custodire ma come un passaggio necessario per crescere e rottamare il provincialismo, fermo restando tutto questo l'altro punto centrale sul quale verrà misurato il riformismo renziano sulla politica industriale riguarda un pacchetto sul quale il presidente del Consiglio dovrà mettere in campo una politica fatta di molti mix e molti patchwork ma non ispirata a vecchi tic dirigisti. Le norme su un fisco pro crescita inserite nella legge di stabilità (taglio Irap, credito di imposta alla ricerca, patent box) vanno in una direzione giusta che deve essere però confermata dai decreti legislativi sulla delega fiscale (e come sempre capita a Renzi, tra enunciazione e rottamazione c’è un abisso grande così).

 

[**Video_box_2**]Un ulteriore passaggio, infine, è direttamente collegato alla riforma del lavoro. Eccolo qui il punto: avrà o no il coraggio Renzi di puntare forte sulla distruzione creatrice? Avrà o no il coraggio Renzi di incentivare la rottamazione di un vecchio sistema produttivo e di favorire un nuovo mondo in cui il lavoratore viene tutelato all’interno del mercato e non all’interno del posto del lavoro? Avrà o no il coraggio Renzi, ancora, di superare tutto l’attuale sistema della cassa integrazione – punto che purtroppo non è stato ancora discusso dal governo e che quando verrà affrontato altro che Jobs Act – e di sostituirlo con un nuovo strumento da utilizzare solo ed esclusivamente per le situazioni di riconversione aziendale? Avrà o no il coraggio Renzi, infine, di non considerare più la Cig come uno strumento di gestione di qualunque crisi ma come strumento a supporto dei necessari processi di turnaround, ovvero di risanamento e di ristrutturazione? Avrà o no Renzi il coraggio, per concludere, di utilizzare lo stato non per congelare e tenere tutto sotto vuoto ma per salvare aziende che possono rinascere e che sarebbe una follia far morire solo per momentanea mancanza di soldi?

 

L’Italia, spesso lo dimentichiamo, è la seconda manifattura d’Europa dopo la Germania e ha una sua posizione da difendere con le unghie e con i denti. Renzi ha attorno a sé una cornice che lo potrebbe aiutare a offrire un quadro di politica industriale innovativa. Finora ha mostrato di muoversi all’interno di un patchwork. Che il patchwork corrisponda o no a una visione politica è tutto da dimostrare.
 

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  • Claudio Cerasa Direttore
  • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.