Tasse, spesa, debito. Partite perse da Renzi e rischi dell'interventismo di stato
Il gioco di prestigio sulla pressione fiscale. Il caso Cottarelli e una lettera a cui il premier non ha mai risposto.
Più che inseguire la “teoria” (c’è?) che informa o informerebbe di sé la politica economica del governo Renzi, vale forse la pena di concentrarsi sulla “pratica”, sugli effetti concreti delle scelte renziane di questi primi dodici mesi. Premessa doverosa, per chiarire subito il punto di vista di chi scrive: Renzi sta fallendo gli stessi appuntamenti già clamorosamente mancati prima dai governi di centrodestra e poi dai governi tecnici, e cioè il necessario attacco (pervicacemente rifiutato dalla politica italiana) alle tre montagne delle tasse, della spesa e del debito. E’ lì, in quella pressione fiscale elevatissima (con un total tax rate che mette fuori competizione le imprese italiane), in quel livello di spesa pubblica (con annessa “intermediazione” politica), e in quel fardello del debito pubblico (con relativo doppio stillicidio di interessi da pagare e costanti rischi di instabilità), il triplo cancro che ci affligge. E’ su quel terreno che si sono arenate le ambizioni delle passate esperienze governative: ed è ancora qui – secondo me – che sta segnando il passo un esecutivo, quello guidato da Renzi, finora capace di vincere tutte le partite nel Palazzo (in genere, per manifesta incapacità di intendere e di volere delle “opposizioni”) ma per ora sconfitto nella partita della realtà, nonostante il training autogeno alimentato da telegiornali e carta stampata. Che ha fatto davvero Renzi su quei tre dossier?
Sulle tasse, agguerrite squadre di cheerleader ripetono il refrain dei “18 miliardi di tasse in meno”. Purtroppo, non è così. Altro che 18 miliardi: al netto delle maggiori entrate di natura fiscale stabilite nell’ultima legge di stabilità (non è vero che non ci sono nuove tasse, come aveva assicurato il Premier), i tagli fiscali si riducono a 9 miliardi scarsi. In pratica, Renzi è riuscito a stabilizzare il bonus degli 80 euro (facendo ricorso a 6 miliardi di spesa in deficit), mentre le altre riduzioni di imposta sono compensate da maggior prelievo fiscale. Peggio ancora: restano sul terreno due autentiche bombe fiscali. Da un lato, una tassazione immobiliare che anche quest’anno deprimerà un settore trainante come l’edilizia, arrecherà danni gravissimi alle aziende, e, quanto alla prima casa, farà sparire un’altra volta la tredicesima della gran parte delle famiglie italiane, con ovvi effetti depressivi sui consumi e sulla già debolissima domanda interna. Dall’altro, le nuove clausole di salvaguardia su Iva e accise: nel 2016 l’aliquota Iva del 10 per cento passerebbe al 12, poi al 13 per cento nel 2017, mentre quella del 22 salirebbe prima al 24, poi al 25 e al 25,5 per cento nel 2018. Il che vorrebbe dire 12,8 miliardi di tasse in più nel 2016, e 19,2 nel 2017.
Sulla spesa, Renzi è tecnicamente desaparecido. Ha tagliuzzato qualcosa nella legge di stabilità, ma, al netto delle nuove spese (molte delle quali a mio avviso di natura assistenzialista), il risparmio vero si è ridotto ad appena circa 5 miliardi. Nulla di fatto sulla vera questione: l’intervento sui servizi pubblici locali e sulle partecipate, autentica mangiatoia e reale fattore di “inquinamento politico” dell’economia. Non a caso, era il cuore del Rapporto Cottarelli, sparito a sua volta. A proposito, ai primi di novembre del 2014, con una mia lettera, avevo chiesto al premier Renzi la pubblicazione integrale di quel rapporto. Mi ha risposto il ministro Boschi, sostenendo che nessuna norma impone al governo di trasmetterlo alle Camere o di pubblicarlo. Ma non era il governo della trasparenza?
Quanto al debito, no news. Come se il problema non esistesse.
Chiarito lo scenario, veniamo alle prospettive. In tanti, sfidando il senso del ridicolo, si sono entusiasmati per il recente “+0,1”. Ok, normale che le cheerleader si entusiasmino. Ma occorrerebbe avere l’onestà intellettuale di riconoscere che siamo lontanissimi dal necessario.
Il ministro Padoan ha commesso un autogol politico quando ha evidenziato l’“ambiente favorevole” in cui oggi l’Italia opera (e ciò è assolutamente vero): tra quantitative easing, situazione dollaro-euro, e prezzo del petrolio, l’Italia gode infatti di condizioni esterne molto vantaggiose. Il problema è che, nonostante condizioni così favorevoli, la nostra ripresa è talmente debole da essere non apprezzabile: siamo a dimensioni da “zero virgola” (e comunque – lo ripeto ancora – a uno “zero virgola” ascrivibile interamente alle scelte di Mario Draghi e ad altri fattori esogeni positivi, non certo all’azione del governo).
Se Renzi prosegue con il suo tran tran, l’esito è chiaro, e ce lo ha raccontato la stessa Ue in una assai poco lusinghiera (e quindi assai occultata dai media italici) previsione-outlook di due settimane fa. Nel prossimo biennio, pur all’interno di una Eurozona che tornerà a crescere, l’Italia sarebbe la penultima a crescere nel 2015 (davanti a Cipro!), e addirittura l’ultima nel 2016, scavalcata perfino da Cipro…
E’ come se Renzi, già pago di vincere le partite nel Palazzo, e quasi mai sfidato dalle minoranze sul terreno dei contenuti, avesse deciso di concentrarsi su due elementi, tutti funzionali a un suo ulteriore consolidamento di potere, più che a un ritorno ad una crescita sostenuta.
Da un lato, il governo privilegia la sua base sociale, quella dei lavoratori dipendenti (i percettori degli 80 euro, per capirci), dimenticando quasi sempre il resto, e cioè chi è più esposto al vento freddo della crisi: artigiani, commercianti, piccole imprese, partite Iva, lavoratori autonomi. La cosa è molto significativa: a parole, Renzi sceglie spesso la modernizzazione, e quindi si rivolge ai ceti sociali più dinamici; ma, nel concreto dei provvedimenti, privilegia sempre la constituency più tradizionale della sinistra, a scapito di tutti gli altri.
Dall’altro lato, l’esecutivo rilancia un interventismo politico in economia che tenderà a consegnare a Palazzo Chigi leve di intromissione e intermediazione assai preoccupanti. I segnali sono molteplici: la recente “resurrezione” della Gepi, le indiscrezioni sulla “bad bank”, l’ormai prossimo intervento su rete e banda larga. Nello stagno di un Paese piccolo e “controllabile”, l’esecutivo sta scegliendo di avere un braccio forte per “gestire”, anziché dare una spinta affinché le forze di mercato si mettano a correre.
Il quadro che ne deriva (non solo per responsabilità di Renzi, a onor del vero: quelle delle sue “opposizioni” sono anche maggiori) è più sudamericano che nordamericano. Un governo che controlla sempre più saldamente un’informazione pubblica ridotta a megafono, che si appella al pueblo contro i “nemici”, e che gestisce pezzi di economia.
Per la verità, qualcuno sta cominciando a proporre uno schema alternativo. In occasione dell’ultima legge di stabilità, chi scrive, insieme molte decine di parlamentari, e con una forte iniziativa politica animata da Raffaele Fitto, ha messo in campo una strategia radicalmente alternativa. Declinata in puntuali emendamenti “meno tasse/meno spesa” presentati alla legge di stabilità, tutti sistematicamente respinti dal governo. Era ed è (la riproporremo: è ciò su cui il centrodestra deve rimettersi in competizione, a nostro avviso) la logica di uno “choc fiscale”. Sfondare il vincolo europeo del 3 per cento (e invece Renzi ha accettato tutte le pressioni dell’Ue e ha finito per chiudersi in una gabbia nella quale non è possibile operare in modo significativo), e sfondarlo per un mega-taglio di tasse. La nostra proposta è quella di 40 miliardi di tasse in meno definendo tre grandi aree di intervento (imprese/lavoro, consumi, casa), coperti con vere operazioni di attacco alla spesa pubblica eccessiva e improduttiva. Ne riparleremo presto.
Daniele Capezzone, deputato di Forza Italia, presidente della commissione Finanze della Camera
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